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DISORDINE? IL PROBLEMA È LA

DISUGUAGLIANZA

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 7 settembre 2018.

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Patrizia Gabellini, Un nuovo lessico per un nuovo

ordine urbano (26 ottobre 2018); Oriol Nel·lo, Dell’ordine e del disordine urbano (7 dicembre

2018).

Del libro di Francesco Indovina si è discusso alla Casa della Cultura - nell’ambito della VI edizione di Città Bene Comune - martedì 8 maggio 2018, alla presenza dell’autore, con Paolo Ceccarelli, Patrizia Gabellini e Federico Oliva.

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è sempre molto vantaggiosa per pochi (i “ricchi”) mentre molti ne pagano un prezzo pesante (i “poveri”)” (p. 11. “Il ‘disordine’ degli insedia- menti irregolari nelle città del sud del mondo è la risposta dei ‘poveri’ all’ ‘ordine’ dei ricchi (la città formale)”). Il piano - l’”ordine” nella cit- tà - da sempre costituisce elemento di formazione del- la, e sostegno alla, rendita, dunque, quando non accu- ratamente accompagnato da adeguati meccanismi di riappropriazione pubblica del plusvalore privato che genera, di strumento che avvantaggia i “ricchi”.

Il problema nella città di oggi (ma forse in quella di sempre) mi pare stia meno nell’ordine o nel disordine, più nella diseguaglianza. Sappiamo che è la cre- scente diseguaglianza uno dei tratti peculiari di questo inizio di millennio, se non il tratto principale. Secondo UN-Habitat (2016) la dise- guaglianza attraversa for- temente le città americane, con New York al primo po- sto, molto quelle dell’Ameri- ca Latina, moltissimo quelle dell’Africa, meno quelle dei paesi orientali. In Europa le cose vanno meglio, anche se Londra, Madrid e altre

ancora negli anni della cri- si hanno registrato un forte aumento del divario socio- economico e dei livelli di segregazione al proprio in- terno. È vero che parti am- pie, amplissime, delle città - ovunque nel mondo - negli ultimi cinquant’anni sono state edificate in maniera, come dire, “affrettata”, sulla spinta di un’urbanizzazio- ne intensa. Qui Indovina ha assolutamente ragione ad avere un atteggiamento cri- tico nei confronti del “disor- dine”, non rispetto a un or- dine urbanistico, ma perché disordine significa maggiori costi per i più deboli, quelli la cui unica alternativa sono appunto gli insediamenti co- struiti dove si può e come si può, di conseguenza quasi sempre privi di infrastrut- ture e servizi. Con questa precarietà le città dovranno convivere, per decenni, e anche dopo. Data la situa- zione, difficile pensare che si possa realizzare un “ordine” come quello dell’urbanisti- ca cui il libro fa riferimento nella prima parte, ma che appare essere quello che Indovina mette in campo anche in quelle successive. Nella gran parte delle città - nel mondo - la situazione è caratterizzata molto più dal

“dis-ordine” della seconda metà dello scorso secolo che continua ancora oggi, che dall’”ordine” della città europea dell’’800 (anche di quella costruita nelle co- lonie), o di quella dell’addi- zione Erculea a Ferrara, con cui il libro apre gli “episodi di urbanistica ‘moderna’”, cioè di urbanistica ordinata.

Il libro si colloca dunque, in generale, all’interno del perimetro della dimensione nazionale, peraltro ben rap- presentato dagli autori cui viene fatto più spesso riferi- mento: Astengo, Benevolo, Campos Venuti, Cervellati, Rossi, Secchi, insieme a altri, le cui riflessioni muo- vono principalmente dalle esperienze acquisite in Ita- lia, solo di rado in Europa, mai oltre. Una conferma di questo approccio è la sezio- ne sui “temi emergenti della pianificazione”, che Indovina indica, anche se “a modo di promemoria, senza nessu- na pretesa di essere esau- stivi”, ma ben sapendo che una lista è sempre una lista: il recupero del patrimonio, il cambiamento climatico, lo spazio pubblico, le periferie, gli immigrati e più in gene- rale i gruppi più deboli, la sicurezza e i trasporti. Nodi questi di cui siamo tutti con- gan accattivanti ma che non

aiutano molto a decidere su quello che è bene fare.

Incerta mi sembra anche l’affermazione di Indovina secondo cui “la città come costrutto sociale sembra deperire” (p. 66). È vero che non è il solo a pensarla in questo modo: il nuovo libro di Richard Florida (The New

Urban Crisis, 2017) riguarda

proprio la crescente disu- guaglianza, segregazione e contrazione del ceto medio nella città americana. Tut- tavia, in giro per il mondo (e anche in Europa) c’è un bel numero di città in piena espansione (economica), in pieno fervore (culturale), straordinariamente com- plesse (sul piano sociale), ma difficilmente etichetta- bili come disordinate. La complessità, che sappiamo essere il frutto dei cambia- menti intervenuti in questi decenni nel sistema econo- mico e dunque nei rapporti di produzione, nell’impian- to familiare e dunque nel tessuto sociale, nelle reti di relazioni e dunque nell’uso dello spazio urbano, nulla ha a che vedere con il disor- dine. Per questo, come as- serisce con chiarezza Indo- vina, la complessità richiede capacità di guida maggiori

rispetto al passato, attra- verso strumenti e modalità di piano molto più flessibili di quelli disponibili e richiesti oggi (in Italia), che permetta- no di aggiustare il tiro in cor- so d’opera senza modificare nella sostanza gli obiettivi. È proprio la complessità che, davanti a politiche nazionali sempre meno incisive tan- to da far avanzare l’ipotesi dell’esaurirsi dell’idea stes- sa di stato-nazione, spinge città come Barcellona, Berli- no, Napoli, a tornare ad es- sere laboratori di sperimen- tazione e di innovazione in campo sociale e politico.

Ancora, sappiamo che l’ordine dà sicurezza, ma al tempo stesso “normalizza”, uniforma, crea intolleranza per la diversità, generando spesso conformismo e noia. Basti pensare ai quartieri modello olandesi o svedesi, fulgidi esempi dell’urbanisti- ca del dopoguerra, o alle ga-

ted communities sparse per

il mondo. Il disordine può essere vissuto come insicu- rezza, minaccia, ma anche come stimolo e creatività, come condizione per lo svi- luppo della Creative Class. Per contro, non sarei così disposto a accettare l’affer- mazione di Indovina per cui “la prevalenza del disordine

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sione sociale e con- trastare o superare le spinte conservatrici che lavorano per rafforzare o mantenere le condizioni di esclusione” (Moulaert et al. 2013). Nella città europea queste forme di mobilitazione e di azio- ne stanno diventando sempre più numerose nella maggior parte dei casi innovative, e per quanto riguarda l’urba- nistica, “spiazzanti” per- ché con aspetti, azioni e risultati che escono dal recinto delle regole e dei metodi consolidati. Innovazione sociale e tecnologia non sono in opposizione, anzi. Le città che mettono in- sieme coinvolgimento e soluzioni “smart” sono in generale quelle che meglio riescono a rea- gire alle questioni nuove che si stanno ponendo, da Seoul a Boston, da Vienna a Amsterdam, passando per Stoccol- ma, Parigi e Londra, per restare in Europa.

La questione della rap-

presentanza, del go- verno (che della gover- nance si serve, ma non può esserne sostituito) e dei suoi modi, del ruolo

delle istituzioni, quindi anche della pianificazio- ne e della norma, cioè dell’ordine e del disor- dine. Di fronte all’inde- bolimento profondo del sistema di rappresen- tanza cui stiamo assi- stendo, occorre valutare se, come e quanto le istituzioni sono in grado di modificare il proprio modo di governare, non solo (re)introducendo elementi di effettiva rap- presentanza ma anche trasferendo passaggi del potere decisionale (empowerment) ai cit- tadini. Qui il riferimento è specificamente alla città europea, e a quel- la italiana, perché è qui che si sta sviluppando, sulla spinta ovviamente di Barcelona en Comù ma non solo, una linea di pensiero (il neomuni- cipalismo) convinta che sia il locale la risposta all’inadeguatezza delle politiche attuali. Un con- vincimento che si fonda sull’assunzione (consta- tazione) che è la città il luogo dell’innovazione, della sperimentazione, prima di tutto politica considerando la città un bene comune, dove è

possibile (oltre che ne- cessario) costruire una società cosmopolita, dove si affermano nuove forme di collaborazione e nuove modalità di in- terrelazione.

In tale orizzonte, soffermarsi sull’ordine e il disordine ci può certo aiutare a mettere meglio a fuoco alcune sfu- mature che possono esserci sfuggite sui caratteri e il fun- zionamento della città (italia- na). Ma i temi da affrontare per e nell’”urbano” si sono profondamente spostati ri- spetto a solo pochi anni fa. Sembra a me che anche a quelli sarebbe bene guar- dare.

sapevoli, ma che la prospet- tiva ‘”ordine” - “dis-ordine” non aiuta molto a allentare.

L’impressione è dun- que che il tema trattato nel libro sia un po’ accessorio rispetto al tipo di questioni che vanno affrontate nella e per la città di oggi. Occorre allargare l’orizzonte, e non di poco. Il tempo di cam- biamenti profondi che stia- mo vivendo impone che ci attrezziamo per sostenerli, accompagnarli o, se ne- cessario, contrastarli. Molte sono le questioni che la città dei prossimi decenni deve affrontare, per esempio: la tecnologia, l’innovazione sociale, le forme di governo.

La tecnologia ci sta por- tando alle smart o intel-

ligent cities (Carlo Ratti

parla di una “senseable city, una città capace di sentire, ma anche una città sensibile e capace di rispondere ai cittadi- ni”) cioè una città in cui l’innovazione tecnologi- ca consente di spende- re meno, in maniera più efficiente, migliorando l’accessibilità ai servizi, promuovendo la traspa- renza nella presa delle decisioni e consentendo la valutazione dei risultati (non sempre è così, ma

molte città hanno fatto significativi passi avan- ti in questa direzione); all’Internet of Things (ro- botica, domotica e così via); a energie più puli- te, sistemi di trasporto collettivo oggi solo allo stadio sperimentale ma che rivoluzioneranno il sistema della mobilità urbana, nuovi materiali e modalità costruttive che cambieranno i modi di costruire, produzioni in casa con le stampanti 3D, e via dicendo.

L’innovazione sociale - cioè nuove idee che rispondono a bisogni vecchi e nuovi ma allo stesso tempo costrui- scono spazi di politica attraverso reti di rela- zioni - non è tanto uno slogan che va di moda, ma è o può divenire una modalità per costruire reti di impatto sociale e politico della cui rile- vanza cominciamo ap- pena a renderci conto. L’azione collettiva, che si è andata estendendo in questi anni come for- ma di difesa a fronte del contrarsi della presenza sociale dello stato, co- stituisce lo strumento per sostenere “l’inclu-

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i pezzi siano ben sistemati sulla scacchiera.

Intanto, credo si possa convenire sul fatto che la cit- tà sia uno dei terreni princi- pali nel quale si manifestano i conflitti sociali (i nostri au- tori ne sono convinti come me): è infatti qui che le di- verse componenti della so- cietà tendono ad affermare i loro interessi (non soltanto in termini di “occupazione” dello spazio) senza, tuttavia, riuscire quasi mai a piegare l’intera organizzazione urba- na a uno solo di questi (non so se questa interpretazione sia condivisa dai tre autori che ho citato). La città, in- fatti, non è omologabile a un solo interesse o agli interes- si di un solo gruppo sociale: nella città convivono e con- vivranno sempre comunità antagoniste: con proprie necessità, proprie speran- ze, proprie strategie. Ogni interesse che cerca di im- porsi troverà sempre osta- coli, oppositori. Si sbaglia analisi e proposta politica ogni qualvolta si interpreta la città come totalmente as- servita a un solo interesse. Ci sono fasi in cui sembrano prevalerne alcuni ma, diffi- cilmente, uno solo di questi potrà imporsi totalmente. Mi sento quindi di afferma-

re che il livello della qualità sociale di una città dipende dal conflitto che in essa si manifesta e, al tempo stes- so, della ricomposizione di tale conflitto che si realizza tra i contendenti. Stando così le cose, la qualità so- ciale di una città non può essere attribuita a una spe- cifica qualità dell’urbanistica che in essa si esercita ma, piuttosto, alla forza e moda- lità del conflitto in essere in quel luogo e in quel tempo, e a come questo conflitto è governato dalla politica con l’ausilio dell’urbanistica.

La città è un oggetto in continua trasformazione: non solo conflitti economici e sociali, ma anche modifi- cazioni culturali, tecnologi- che, negli stili di vita, nella tipologia dei consumi, ecc. determinano un dinamismo che investe sia la morfologia che la “condizione urbana”. Di tali modificazioni, non c’è dubbio, la scelta urbanisti-

ca deve tener conto con un

atteggiamento di cautela, senza necessariamente fare riferimento a un modello di città ideale ma, piuttosto, facendo i conti con le con- dizioni esistenti e le trasfor- mazioni in atto. Si potrebbe affermare che l’urbanisti- ca possa (debba) essere

considerata lo strumento per il governo delle trasfor- mazioni. Ma in che cosa consiste la scelta urbanisti-

ca? In molte occasioni, mi

sono speso per affermare che ogni scelta urbanistica debba essere considerata

scelta politica tecnicamen- te assistita. Scelta politica

perché l’intervento urba- nistico, giusto o sbagliato che sia, modifica di fatto le condizioni d’uso della città, il che vuol dire che i cittadini di quella città, e in genera- le chi la ‘usa’, si troveranno in una condizione diversa. Vien dunque spontaneo chiedersi: chi è legittimato a decidere di queste modi- ficazioni ed eventualmente a contrastare o a dare un in- dirizzo diverso alle tendenze in atto?

Secondo la struttura democratica del luogo e del tempo in cui viviamo è sicuramente la politica che possiede questa preroga- tiva; nella nostra situazione è l’amministrazione pubbli- ca (comunale e regionale) che possiede questo potere legittimato da procedure, affidato a norme e valutato politicamente. La parteci- pazione della popolazione è sempre desiderabile, e que- sta può esprimersi secondo