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INDIRIZZO COMPLETO DEL PRIMO AUTORE Cognome e Nome Laguzzi Sergio

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INDIRIZZO COMPLETO DEL PRIMO AUTORE Cognome e Nome Laguzzi Sergio

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“Parola di Tirocinante”: gli elementi che favoriscono

l’apprendimento in un percorso di tirocinio

Elisa Livera

Tirocinante presso la Struttura Complessa Organizzazione e Sviluppo Risorse Umane - Azienda Sanitaria Locale BI

Abstract

Il presente contributo espone il punto di vista sull’esperienza di tirocinio/stage, proprio di una tirocinante. Il punto fondamentale proposto ed utilizzato come cornice di riferimento è la necessità di arrivare ad una costruzione di “senso”,[4] da parte di chi apprende, al fine di trarre maggior vantaggio

possibile dall’esperienza formativa di tirocinio. A partire da questo presupposto saranno presentati alcuni fattori che possono essere, a parere di chi scrive, favorenti l’apprendimento. Questi fattori in breve sono: la riflessione, la gestione delle emozioni, la figura del tutor come base sicura, la ridefinizione in itinere del progetto formativo sulla base delle competenze, il feedback e la valutazione. Il tirocinio è un’esperienza che, sia che si tratti di studenti che si approcciano per la prima volta al mondo del lavoro e all’applicazione sul campo delle nozioni acquisite, sia che si tratti di professionisti che hanno intrapreso un nuovo percorso o una nuova carriera, o che semplicemente si apprestano a scoprire tecniche e applicazioni innovative, si prefigura sempre come un’occasione di grande complessità e ridefinizione del proprio Sé come persona che non solo impara qualcosa di nuovo ma che sta pian piano prendendo la forma del “professionista competente”, capace di padroneggiare nuove situazioni, competenze e parti di sé. Tutto ciò avviene in un’organizzazione complessa, e in una rete di relazioni complesse.

Va da sé che non si sta parlando di un percorso semplice e approssimativo, come purtroppo a volte il tirocinio viene considerato sia dallo stesso tirocinante, sia dall’Organizzazione che lo prende in carico, sia talvolta dalle stesse istituzioni, quali le Università, che lo promuovono (qualche ora come superficiale corollario di un percorso didattico- teorico basato su lezioni d’aula).

Appurato il fatto che il tirocinio è un’esperienza di grande impatto e coinvolgimento, che ha il potere di agire potentemente sulla definizione di Sé in termini professionali e in termini personali, (pensiamo ad esempio ad uno studente che affronti un’esperienza di primo vero contatto con il mondo del lavoro e si trovi ad avere delle relazioni “gomito a gomito” con veri colleghi, capi e gruppi di lavoro) sarà inevitabile che il tirocinante, per dare un senso al suo agire, si fermi a riflettere e si chieda “Che senso ha tutto questo per me?”. Questo momento essenziale di rielaborazione dell’esperienza è il processo di sensemaking che significa letteralmente “costruzione di significato” ed è implicito nel suo stesso nome che presupponga la presenza di un soggetto attivo, che attivamente costruisce il mondo intorno a sé e i suoi significati.

Parlare di sensemaking significa parlare della realtà come di una costruzione continua che prende forma quando le persone danno senso retrospettivamente alle situazioni in cui si trovano e a quello che hanno creato. C’è una forte qualità riflessiva in questi processi.” [4]

Noi tutti cerchiamo, in maniera continua e prevalentemente non intenzionale, di costruire delle storie plausibili per cercare di ridurre l’ambiguità e costruire delle cornici che aiutino a riordinare le esperienze; Robinson (1981) parla a questo proposito di storie “degne di nota” per mettere l’accento sul fatto che le storie interessanti sono quelle che prendono forma nel tentativo di costruire il significato di esperienze difficili, fuori della norma, che hanno creato ostacoli e che siano quindi materiale d’elezione per l’enactment e un’attività riflessiva. Il tirocinio è appunto un percorso costituito di eventi concatenati che ben presentano le caratteristiche citate da Robinson:

- un’interruzione della routine: ad esempio l’"essere gettato" in un’organizzazione complessa che avanza delle richieste quando non si sono ancora svestiti i panni dello studente che, munito di blocco per gli appunti, segue con diligenza i corsi curricolari;

- la presenza di azioni difficili: ad esempio l’atto di traduzione dal piano teorico al piano operativo in un’ottica di implementazione delle competenze, all’interno di una rete di relazioni complesse; - la presenza di eventi imprevisti: questi sono imprescindibili essendo le organizzazioni, per

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Materiale esperienziale che ben si presta dunque ad un’attività riflessiva.

La riflessione, infatti, si qualifica come un elemento imprescindibile del processo formativo. Sia che si tratti di un momento prevalentemente individuale oppure di un momento strutturato di confronto e scambio all’interno di un gruppo, non si può non fermarsi a riflettere sulle proprie esperienze perché queste siano davvero fonte di apprendimento, e vadano ad alimentare la ritenzione di schemi salienti e rilevanti, nonché fonte di meta-apprendimento, così che il soggetto riflessivo impari a “apprendere ad apprendere”. [1]

Di grande impatto e utilità è, a questo proposito, la consuetudine alla scrittura. Scrivere le proprie esperienze in un’ottica riflessiva e di costruzione di senso è un atto generativo essenziale in quanto, come insegna Weick: “Come posso sapere quello che penso se non vedo quello che dico?”

Può essere utile a questo scopo lo strumento del “Diario di bordo” su cui annotare giornalmente le proprie riflessioni circa le esperienze giudicate soggettivamente più significative in modo da avere, a conclusione del percorso fatto, un sentiero tracciato che ci aiuti a ripercorrere con la mente i momenti e le esperienze trascorsi e a cucirli gli uni con gli altri con un filo rosso invisibile, che altri non è che il filo della riduzione della complessità e dell’ambiguità e del contemporaneo emergere di rielaborazione e significato. Scrivere un diario di lavoro è un modo per trovare lo spazio quieto del pensare, quello che viene definito “ritiro riflessivo”[…] e […] consente la ritenzione, cioè rende disponibile un materiale esperienziale sul quale ritornare riflessivamente per guadagnare consapevolezza dei propri vissuti e delle esperienze mentali che li hanno accompagnati [3]. Il processo di riflessione aiuta dunque a dare

un senso, a far chiarezza, e quando si tratta di esperienze peculiari come un percorso formativo, aiuta a “digerire” ciò che si è imparato e a imparare qualcosa di più di sé, su ciò che si apprende e su come lo si apprende. Ma in gioco non ci sono solo gli apprendimenti tecnico-specialistici, così come non ci sono solamente le competenze, le abilità, le nozioni, la professionalità. Come si è già avuto modo di sottolineare il tirocinio coinvolge la persona nella sua interezza, e trattandosi di un’occasione in cui ci si mette in gioco fino in fondo, appunto “sul campo”, può essere foriera di grandi emozioni, sia positive sia negative. La gestione delle emozioni è un secondo punto che vorrei sottolineare come qualificante e imprescindibile per un percorso che voglia essere veramente formativo. Su questo argomento molto è stato detto in letteratura e non pare di poter aggiungere niente di più in questa sede. Mi preme soltanto, in qualità di tirocinante, mettere l’accento su un punto che troppo spesso viene banalizzato o per scarsa considerazione dell’esperienza di tirocinio in sé, o per ostacoli organizzativi vari come mancanza di tempo o di spazi dedicati: il tutor di tirocinio deve essere presente! Non deve trattarsi di una figura pseudo-fantasma che appare solamente per apporre la propria firma sul famoso “libretto” o su una scheda di valutazione finale. Si propone questa considerazione contestualmente al discorso sulla gestione delle emozioni perché è proprio di quest’ultimo, il tutor, il compito di creare il famoso “spazio di contenimento” e di condivisione delle emozioni. È da considerare il fatto che molte di queste nascono, crescono e si alimentano proprio nello spazio della relazione con il tutor, che, se presente (non solo in maniera formale), rappresenta la figura più importante per il tirocinante, una figura-guida cha tanta parte ha nella buona riuscita e qualità di un tirocinio. Secondo la mia esperienza, ed a mio parere, il tutor, che tanto somiglia ad una figura genitoriale (o perlomeno svolgendone in parte le funzioni) dovrebbe poter essere considerato dal tirocinante una “base sicura”. Avanzando un paragone, proprio come la madre per il bambino (all’interno di una diade con stile di accadimento sufficientemente sicuro) svolge la funzione di base cui il piccolo sa che può rivolgersi e trovare conforto nei momenti di pericolo incontrati durante la sua esplorazione del mondo, così il tutor dovrebbe essere (o sarebbe bello che fosse) una figura presente, non intrusiva o controllante, ma presente in caso di disorientamento e di difficoltà. In questo modo, in un clima di sostanziale fiducia, è possibile per chi apprende prendersi il proprio spazio per esercitare le competenze possedute ed accrescere così la propria auto-efficacia autonomia e professionalità; essendo allo stesso tempo certo di poter contare su una figura esperta in termini di competenze ma anche, per continuare con il paragone, in grado di rispondere ai bisogni emotivi di gestione dell’ansia. Ciò che qui si auspica in poche parole è che il tutor sia provvisto di quelle che sono le Capacità Relazionali[2],essenziali per lo stabilirsi di una relazione ricca di senso, che aiuta a crescere e fa crescere, di modo che l’esperienza di tirocinio non rimanga un banale “addestramento al lavoro” ma si vesta invece di tutte le qualità di un percorso integrato di empowerment. (Questa riflessione, tra l’altro, potrebbe essere applicata allo stesso modo al contesto della scuola e dunque alla relazione insegnante – allievo, che altri non è, in effetti, che uno dei contesti privilegiati in cui il “prendersi cura” non concerne solamente la nozione teorica ma anche e soprattutto l’educazione della persona all’interno di una relazione significativa). Ho accennato al fatto che è importante che il tirocinante, per poter trarre il maggior beneficio possibile dall’esperienza in oggetto, possa sperimentare una certa autonomia e sviluppare una graduale responsabilità nel compito. A questo proposito vorrei proporre due parole sul progetto formativo. Quest’ultimo (allo stesso modo della valutazione) è un elemento

spesso banalizzato e “dimenticato”, pur costituendo di diritto una delle tappe fondamentali della formazione e pur costituendo molto spesso uno spartiacque tra ciò che è formalizzato esplicitamente, (e dunque riconosciuto come formativo) e ciò che non lo è (tutta quella parte di formazione sul campo che di fatto connota l’esperienza lavorativa quotidiana di quasi tutti i lavoratori, ma che, non essendo inquadrata e formalizzata come attività formativa in termini istituzionali, non viene così riconosciuta). Basarsi su un progetto formativo condiviso (dai tre attori principali della formazione: il tirocinante, il tutor e l’Organizzazione) e ridefinito in itinere, in quanto ovviamente deve avere caratteri di flessibilità dovendosi adattare a quelle che sono le reali competenze, le reali performance e i reali bisogni di chi apprende ( non ha senso ad esempio ostinarsi a perseguire obiettivi che si rivelano ben presto troppo ambiziosi considerato il reale livello di performance del tirocinante, e viceversa), è importante per poter attribuire il giusto significato al proprio agire in quanto non solo “so da dove parto” ma, soprattutto, so “dove vado” e dove devo arrivare. Fornisce inoltre una base concreta e condivisa per la produzione di feedback e di una significativa valutazione. Con la valutazione il cerchio si chiude, o meglio continua, in quanto ogni feedback produce meccanismi di retroazione, su cui basare e pianificare il proprio agire futuro (considerati ambiente, risorse, strumenti e obiettivi). Volendo evitare di banalizzare il tema della valutazione mettendo l’accento sull’importanza di quest’ultima a fronte della scarsa considerazione di cui gode nel processo formativo, vorrei invece focalizzare l’attenzione su un piano strettamente concreto: lo spazio fisico dedicato alla valutazione. Spesso infatti risulta difficile, trovandosi immersi nella frenetica attività organizzativa, trovare degli spazi “dedicati” e protetti da intrusioni esterne in cui tirocinante e tutor possano confrontarsi e prendersi del tempo insieme per la produzione di momenti valutativi di qualità. Lo spazio condiviso e protetto cui ci si riferisce, non vuole connotare una specie di “ritiro autistico”, pericoloso per il delicato equilibrio organizzativo interno, bensì semplicemente preservare il diritto che il tirocinante ha di essere persona in - formazione, e come tale di avere la necessità di non essere travolto e sommerso dai ritmi che il lavoro impone, di potersi e doversi fermare talvolta in un’”area di sosta” (proprio di “aree di sosta” parlano Kaneklin e Scaratti nel contributo portato a questo Convegno). Riassumendo, gli elementi qui discussi e le riflessioni proposte vanno tutte nella medesima direzione: individuare cosa qualifica un percorso di tirocinio come veramente formativo e sottolineare che la cornice di riferimento essenziale perchè questo accada è arrivare alla riduzione dell’ambiguità e alla costruzione di senso da parte di chi apprende. Il contributo vorrebbe essere letto come piccolo “vademecum” da cui il tutor, alle prese con un nuovo tirocinante, possa prendere qualche libero spunto di riflessione per il suo agire. Mi riferisco in particolare al tutor “esperto” che ha (a differenza dei colleghi più giovani che hanno da poco svestito i panni del tirocinante), accanto ad un’invidiabile padronanza del mestiere, lo svantaggio dell’expertise che, come sappiamo, si sostanzia di conoscenze procedurali ed automatiche le quali, pur essendo estremamente efficaci per la pratica lavorativa (essendo proprio le caratteristiche che connotano un esperto da un non-esperto), possono andare a svantaggio dell’apprendimento da parte del principiante, che invece va a braccetto con la conoscenza dichiarativa e ridondante.

Riferimenti bibliografici

1Bateson, G.

1989 Verso un'ecologia della mente. Milano, Adelphi.

2Blandino, G.

1996 Le capacità relazionali: prospettive psicodinamiche. Torino, UTET Libreria.

3Mortari, L.

2003 Apprendere dall'esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione. Roma, Carocci

4Weick, K. E.

1997 Senso e significato nelle organizzazioni. Milano, Raffaello Cortina.

5Weick K. E.

1993 Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi. Torino, Isedi.

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