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La Valutazione della FSC: ricadute pratiche operative

Oscar Bertetto

Direttore Generale A.Re.S.S. Piemonte

Innanzitutto come Direttore dell’A.Re.S.S., visto il successo e la qualità della giornata, dal momento che il convegno è stato organizzato in gran parte dal dott. Alastra, dico che l’Agenzia ha fatto bene ad individuare come possibile coordinatore del gruppo che dovrà lavorare sulla formazione sul campo proprio il dott. Alastra. L’A.Re.S.S. ha deciso di avviare alcuni gruppi di lavoro sui temi della formazione a distanza, della valutazione dei bisogni, della definizione delle caratteristiche professionali che devono avere i tutor, ecc. Tra questi vi sarà appunto il gruppo con l’importante compito di approfondire i principali problemi della formazione sul campo. Cogliendo l’occasione per ringraziare per l’invito al convegno, vorrei partire dalla riflessione sul titolo del mio intervento: “Ricadute pratiche ed operative della valutazione sulla formazione sul campo”. È un tema quanto mai difficile e diventa ancora più arduo se a doverlo trattare è chi, come me, non è un esperto di formazione, né tanto meno di formazione sul campo, potendo fare eventualmente riferimento solo all’esperienza di quasi trenta anni di lavoro sul campo in oncologia. La mia relazione si limiterà dunque a elencare le aspettative che il Direttore dell’A.Re.S.S. Ha nei confronti della commissione sulla formazione sul campo e agli approfondimenti che dovrà compiere per garantirne la realizzazione nei prossimi mesi nella Regione Piemonte. Partiamo, rispetto all’Emilia Romagna, con un po’di mesi di ritardo, anzi un po’di anni. Abbiamo quindi da recuperare anni nei confronti di altre regioni e mesi nei confronti del nostro crono- programma. Dobbiamo utilizzare quindi, questi mesi in modo serio per arrivare ad un risultato.

Innanzitutto, secondo me, valutare le ricadute pratiche, significa documentare il miglioramento dei processi assistenziali, quindi il primo problema è attrezzarci per trovare le modalità con cui documentare il miglioramento dei processi assistenziali, miglioramento che può essere favorito dall’apprendimento di nuove competenze professionali e comportamenti organizzativi. Ho voluto mettere insieme competenze relazioni e comportamenti organizzativi perché credo che le due cose non possano che andare avanti di pari passo, se vogliamo realmente ottenere miglioramenti di qualità. La formazione sul campo si esplica con più modalità, infatti, se si vanno a consultare i manuali in cui sono previsti i punteggi ECM per accreditare la formazione sul campo, si vede che sono citati l’affiancamento, la partecipazione a varie tipologie di gruppi di lavoro, ecc.

Cerchiamo però, di vedere come valutare seriamente le cinque o sei modalità con cui la formazione sul campo si concretizzata.

È sufficiente valutare l’affiancamento e l’attività di addestramento? O si deve valutare l’acquisita abilità, non posseduta in precedenza e sottolineo non posseduta, perché la formazione sul campo deve creare dei cambiamenti, deve introdurre nuove tecnologie, nuove attività specifiche, nuovi strumenti o anche migliorare le capacità relazionali dei singoli operatori? Non può quindi soffermarsi soltanto al tutoraggio, all’affiancamento, senza andare a vedere se questo è in grado di promuovere nuove abilità. Concedetemi un esempio banale: se faccio il tutoraggio ed insegno a misurare la pressione arteriosa ad un infermiere che la sapeva già misurare benissimo prima, sto facendo affiancamento, ma è perfettamente inutile perché non cambio nulla nel comportamento professionale. Dobbiamo quindi capire che cosa è posseduto in precedenza e quali sono le novità che vogliamo che siano possedute dopo l’affiancamento del soggetto che si sta formando sul campo.

È sufficiente documentare la partecipazione a comitati aziendali e commissioni di studio?

Credo proprio di no. In questi anni si sono formati diversi comitati (come ad esempio, contro le infezioni, per il buon uso del sangue, l’ospedale senza dolore, per il buon uso degli antibiotici, ecc..) che hanno prodotto anche dei documenti di buona qualità (questo aspetto, tra l’altro, è una delle prime cose da andare a valutare, perché i gruppi potrebbero produrre dei documenti, ad esempio, non basati sull’evidenza, o con un insufficiente esame della letteratura prodotta sull’argomento, quindi non di buona qualità), ma l’aspetto più importante da tenere sotto controllo in questi gruppi, è la loro capacità di incidere sul comportamento degli operatori dell’azienda, essendo questa la loro principale finalità.

Personalmente non mi importa che venga prodotto un bellissimo documento, ad esempio, “sulla prevenzione delle infezioni ospedaliere” e poi quel gruppo sia così estraneo al modello organizzativo della propria azienda da non riuscire ad influire su nessuna delle procedure che quella azienda sta attuando per controllare le infezioni. Questo meccanismo si verifica purtroppo sempre più spesso,

soprattutto sugli argomenti più recenti A titolo di esempio siamo andati ad esaminare i dati che gli ospedali della regione erano in grado di darci sulla misurazione del dolore all’interno degli ospedali in cui fosse presente il comitato “ospedale senza dolore”. Questi ospedali, nonostante avessero seguito le indicazioni della Regione che richiedevano la formazione di un comitato “ospedale senza dolore” e lo svolgimento di una serie di riunioni, al momento in cui è stato chiesto loro di individuare i reparti ospedalieri in cui effettivamente si stesse misurando il dolore, hanno risposto in meno del 20% dei casi. Il problema dunque, sta nel fatto che dobbiamo mettere in piedi meccanismi in grado di prevedere oltre alla semplice partecipazione ai comitati aziendali ed alle commissioni di studio, anche la capacità di valutare sia il prodotto scientifico che la capacità d’incidere sul modello organizzativo dell’azienda.

È sufficiente documentare la partecipazione ai momenti di audit clinico?

Naturalmente, a tutte queste domande, che sono di tipo retorico, il Direttore dell’A.Re.S.S. risponde no e chiede, invece, alla commissione, di andare a creare degli strumenti che permettano di valutare le modalità d’individuazione delle aree cliniche di maggior interesse e dei problemi assistenziali più critici. Dal momento che può accadere di promuovere audit clinico su argomenti non rilevanti, o per meglio dire, su questioni non realmente utili per cambiare sostanzialmente il modo di lavorare di una determinata unità operativa, oppure su problemi non prioritari rispetto alle indicazioni di cambiamento indicate nel piano socio-sanitario regionale. Ad esempio, vi sono certamente alcuni aspetti che devono essere valutati, come le modalità di raccolta delle informazioni, la definizione degli standard, l’attivazione delle strategie al miglioramento, la definizione degli indicatori da utilizzare per la rivalutazione del processo. Se mancano queste caratteristiche, non è sufficiente dire di fare dell’audit clinico, discutere dei casi clinici, organizzare degli incontri, è necessario esaminare, con attenzione, le finalità con cui l’audit clinico viene perseguito.

È sufficiente partecipare a gruppi di lavoro per il miglioramento della qualità o di promozione della salute? Non si deve, piuttosto, valutare se i temi scelti siano congrui agli obiettivi del piano socio- sanitario regionale, oppure se la qualità del lavoro e della documentazione prodotta è buona, oppure se esiste un’evidenza scientifica dell’utilità di che cosa si sta facendo?

Molto spesso, i servizi di miglioramento della qualità intra-ospedalieri, per il fatto stesso di esistere, ritengono che qualunque cosa venga realizzata, sia di per sé valida e che, di conseguenza, se si riuniscono e fanno qualcosa per migliorare la qualità, effettivamente poi la qualità migliori. Purtroppo, non è così, anzi alcuni studi hanno dimostrato che alcune misure introdotte dai gruppi di miglioramento di qualità in alcuni ospedali hanno peggiorato l’outcome finale, anziché migliorarlo. Di conseguenza, è possibile che migliori una parte del processo su cui quel gruppo di miglioramento della qualità stava lavorando, ma se si va a vedere l’outcome finale non è per nulla migliorato, anzi si possono creare ulteriori problemi.

È necessario anche compiere un approfondimento su quello che viene fatto nell’ambito degli interventi della promozione della salute; infatti, molti interventi di promozione della salute potrebbero essere definiti “buonismo spontaneista” degli operatori che, ad esempio, promuovono le campagne contro il fumo, limitandosi a incontri in cui si sottolineano semplicemente i danni derivanti dallo stesso.

Il risultato di questo tipo d’intervento non strutturato e non meditato non cambia, di solito alcun comportamento e non promuove realmente la salute.

È sufficiente partecipare a ricerche, studi, inchieste e sperimentazioni? O si deve valutare se i temi scelti rispondono a domande importanti? (Infatti, se si fa una ricerca sull’unghia incarnita del piede, non dovrebbe essere particolarmente valorizzata in quanto non risponde ad una necessità importante di ricerca sanitaria). Non si deve valutare forse, anche se la ricerca è condotta con rigore etico e scientifico? La partecipazione ad una ricerca realizzata senza i necessari requisiti, quali l’approvazione del comitato etico aziendale e l’accertamento dei presupposti scientifici principali, non dovrebbe essere valorizzata con un punteggio ECM. Non è utile valutare come vengono resi noti i risultati della ricerca? Ad esempio, se si partecipa ad una ricerca in cui i risultati sono di proprietà di un’azienda farmaceutica, mi interessa premiare il ricercatore che ha fatto parte di quella ricerca, oppure devo pretendere che i risultati siano pubblici, delle Aziende Sanitarie e del ricercatore?

Quale ruolo, il singolo, svolge nel progetto di ricerca? Infatti, uno può partecipare alla ricerca essendone l’ideatore, il ricercatore che svolge il maggior lavoro, oppure può partecipare arruolando pochi pazienti in un trial che ne includeva migliaia. È chiaro che si debba graduare il punteggio previsto per il ricercatore, in base all’importanza del suo impegno.

Intendiamo valutare anche la partecipazione a progetti di cooperazione con paesi in via di sviluppo? Mi sembra che il partecipare ad un’opera di tutoraggio nei confronti di operatori sanitari nei paesi in via di sviluppo debba essere in qualche modo premiato. Ad esempio, la nostra rete oncologica sta realizzando un intervento di affiancamento a operatori sanitari bosniaci che stanno lavorando per l’apertura di un reparto di oncologia a Zenica. Gli infermieri ed i medici che andranno ad aiutare i

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colleghi della Bosnia ad aprire questo reparto, avranno diritto o no ad essere premiati con punti ECM? Nonostante il mio parere sia favorevole sarà comunque la commissione che prenderà questa decisione. La partecipazione a circoli di discussione, soprattutto su tematiche innovative come i programmi di prevenzione, la Clinical Governance nelle sue diverse espressioni (dall’evidence based nursing al Risk Management) sono da premiare, oppure no?

Le discussioni su tematiche che creano la possibilità di introdurre innovazioni, devono essere in qualche modo premiate oppure no? E come le valuto, dal momento che si stanno esplorando campi nuovi che non hanno ancora criteri codificati di misurazione? Naturalmente, per poter fare tutto questo, è necessario che vi sia un sistema regionale di sanità elettronica, poiché se non riesco a monitorare gli indicatori ed a permettere il dialogo tra le diverse esperienze, la formazione sul campo non vive. Senza integrazione, senza possibilità di una rapida valutazione per via informatica, senza la possibilità di scambiare le esperienze tra le varie aziende in cui si svolge la formazione sul campo, credo sia difficile far nascere il sistema. A questo proposito, l’Agenzia si sta fortemente impegnando per riunire ad un tavolo di discussione l’Assessorato alla Sanità, l’Assessorato all’Innovazione e Ricerca, il CSI e la Rete Epidemiologica Regionale. Solo dall’incontro tra questi diversi operatori, potrà nascere il sistema di sanità elettronica, che in Piemonte arriva con un ritardo di alcuni anni.

Alla commissione chiedo quindi, di analizzare la situazione attuale, di ricercare le modalità con cui attribuire in futuro i punti ECM, ricordando sempre di non far diventare il sistema ECM un “puntificio”, cioè un semplice distributore di punti anziché una concreta valutazione di nuove esperienze formative. Uno dei principali nemici, in campo educativo, è lo spreco. Infatti, è necessario che tutto questo sistema venga semplificato, perché la complessità di per sé è spreco. Inoltre, occorre tenere in considerazione il gruppo, perché la non cooperazione è spreco.

È necessario diventare autonomi, perché la dipendenza è spreco. Si deve essere pragmatici nella misura, perché volere troppo è spreco. Bisogna diffondere il sistema, perché l’isolamento è spreco. Occorre gestire l’interfaccia politica, perché l’ingenuità è spreco. Pensiamo a che cosa è accaduto nella conferenza stato-regioni, quando si è trattato di affrontare il nuovo sistema ECM: la trattativa è stata interminabile.

C’è quindi bisogno che gli operatori si attrezzino, cercando, non tanto di cambiare la politica, che ha le sue regole e i suoi tempi, ma di utilizzarla al meglio per raggiungere gli obiettivi che ci si è posti. I pazienti sono alleati del cambiamento, poiché tenere i pazienti in silenzio è spreco.

Alcuni momenti della formazione sul campo dovrebbero prevedere la valutazione dei pazienti e delle loro organizzazioni. In fondo è con loro che si deve vedere il risultato e quindi, in qualche modo, è necessario averli come alleati nella misurazione dell’efficacia del processo.

Questi sono i principi a cui vorrei che il nuovo gruppo, che si sta formando in A.Re.S.S. si attenga nel discutere i problemi della formazione sul campo.

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