FIGURA DEL CUSTODE IN FRANCIA E GERMANIA
3. Esiti generali della ricerca all’esito dell’indagine comparatistica.
3.3. Individuazione del custode (besitz tedesco, gewere saisine e “diritto muto”) e interesse realizzabile: attività-uso e costo della libertà.
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Cfr. M. COMPORTI, Fatti illeciti, cit., p. 26. Con riferimento ad esso, in G. ALPA, M. BESSONE, op. cit., p. 155 s’individua la sua introduzione nell’entrata in vigore della legge prussiana sulla circolazione ferroviaria. Attualmente la Gefährdungshaftung è prevista da una serie di leggi speciali che fanno eccezione alle regole del BGB. Inoltre, la responsabilità per rischio “è ora disciplinata in larga parte con norme estranee al contesto del Codice Civile”, tra cui rilevano in particolare quelle riguardanti la responsabilità delle ferrovie e dei tramways per i danni alle cose, la legge sulla circolazione stradale, la legge sulla circolazione aerea, la legge sulla produzione di energie nucleare.
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Si veda K. LARENZ, op. cit., p. 410 e ss. Inoltre, si rimanda a M. COMPORTI, op. ult. cit., p. 26 (segnatamente alla nota n. 61) per un’elencazione più esaustiva degli autori tedeschi che hanno propugnato la tesi del sistemi autonomo di responsabilità oggettiva basata sul rischio-pericolo per la legislazione complementare.
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“Rileva, invece, il fatto che dall'atto dannoso l'agente abbia ricavato un profitto (e, più in generale, che l'atto dannoso sia elemento di una attività rischiosa esercitata dal responsabile a scopo di lucro). Importa ancora che il soggetto responsabile, appunto perché consapevole dei rischi presentati dall'attività esercitata, sia in grado di contenere i rischi e di ridurre l'entità dei danni; in altre parole, che sia capace di controllare il danno da lui propagato nella società”. Così G. ALPA, M. BESSONE, op. cit., p. 160.
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Ivi, p. 328.
147
Vedi Cap. V, Sez. II, par. 1.3, in cui la legislazione complementare è presa in esame secondo la prospettiva della lettura sinottica delle norme volta a perimetrare la nozione di “cosa” rilevante ai sensi del’art. 2051 c.c.
164
Quanto all’individuazione dei criteri per identificare il responsabile per i danni prodotti da cose, la ricerca sembrerebbe aver evidenziato una certa comunanza – pur con le opportune cautele dovute alla differenza di formulazione delle fattispecie148 – tra il diritto francese e quello tedesco, nonostante le altre differenze normative riscontrate a livello sistemico. Tale figura soggettiva sembra essere riconducibile, volendo utilizzare categorie tipiche del nostro ordinamento, ad una sorta di “ibrido” tra possessore e detentore: il potere di fatto sulla cosa, infatti, spetta all’uno o all’altro, a seconda dei casi specifici; lo stesso vale per i
commoda possessionis e gli incommoda legati alla responsabilità per danni arrecati dalla
cosa149.
Se il possessore è solo animo, non potrà essere considerato custode; specularmente, può essere considerato custode il detentore qualificato, per la rilevanza e la tutela giuridica che l’ordinamento riconosce al suo potere di fatto; ma ciò non può valere per il detentore mero e non qualificato: questi, infatti, non può realizzare in via autonoma un interesse dalla e con la cosa, né può svolgere sulla stessa un’attività autonoma di controllo, essendo all’uopo legittimato solo chi ha consentito la detenzione non qualificata150
.
In realtà, esiste un istituto giuridico al quale può essere costantemente ed interamente ricondotta – senza cioè eccezioni e necessarie differenziazioni di ipotesi – la figura del custode, per come abbiamo visto essere operante nei sistemi tedesco e francese: esso si rinviene proprio nel BGB, ed è il Besitz, vale a dire il possesso, disciplinato dai §§ 854 ed 855 BGB e consistente in un thatsachliche Gewalt, cioè in un potere di fatto che viene tutelato dall’ordinamento.
A ben vedere, tale istituto era già stato utilizzato quale argomento a sostegno della tesi della rilevanza meramente oggettiva della custodia di cui all’art. 2051 c.c.151
, proprio perché suo elemento costitutivo è l’oggettivo controllo e governo della res, senza rilevanza alcuna dell’animus. Ebbene, anche le caratteristiche dei soggetti responsabili per fatti non umani derivanti da cose, così come emersi dall’analisi del sistema francese e tedesco, teoricamente inquadrabili in un ibrido tra gli istituti italiani del possesso e della detenzione,
148
E soprattutto al fatto che un’ipotesi tipizzata di “responsabilità da cose” non è presente nel BGB tedesco, dove sono previste solo le fattispecie di responsabilità per danno cagionato da animali e da edifici.
149 Cfr. P.G. MONATERI, La custodia di cui all’art. 2051 cod. civ., cit., p. 760. 150
Si tratta del proprietario, o del possessore o ancora del detentore qualificato, ovverosia gli stessi soggetti legittimati ad agire con l’azione di reintegrazione ai sensi dell’art. 1168 c.c.; dall’esperimento di quest’ultima actio possessoria, si noti, è espressamente escluso il detentore non qualificato.
151
165
sembrerebbero allo stesso modo assimilabili al possessore di cui al § 854 BGB152, così come lo era il custode di cui all’art. 2051 c.c.
In realtà, il Monateri153 sostiene che ad influenzare gli ordinamenti tedesco e francese, ma anche italiano154, nell’inquadramento dei caratteri rilevanti ai fini della custodia, non sia tanto l’istituto del Besitz, quanto una peculiare figura che del possesso tedesco costituisce proprio l’antenato e che ha operato nei secoli a livello di crittotipo155
: la gewere-saisine, la cui denominazione germanica adombra in realtà un’origine eminentemente romanistica. Essa rappresentava nel modello antico-germanico, fino a qualche secolo fa, l’unica forma di appartenenza nota: per questo “la responsabilità (lato sensu) per la cosa è agganciata […] a tale figura”156. Serviva a designare “il fatto del possesso, analogo all’antico concetto
romano di usus”157 ed anteriore rispetto allo sviluppo della distinzione tra possesso e
detenzione: ciò spiegherebbe la mancanza di riferimenti all’animus di colui che aveva la cosa nella sua sfera di controllo.
La gewere-saisine, dunque, è mantenuta come potere di fatto da un soggetto, finché non si estingua con la perdita della cosa o della sua custodia. Pertanto, essa “ne distinguait pas la
possession de la proprieté, ni la détention de la possessione”; inoltre, è “impossible à definir, parce qu’elle n’entre pas dans le cadre romain”158
.
Tuttavia, ha segnato lo sviluppo del diritto francese e tedesco, lasciando la sua impronta tacita nel primo159 e manifestandosi esplicitamente nel secondo con l’istituto del besitz. La sua influenza è stata rilevante a tal punto da consentirle di operare in entrambi gli ordinamenti per l’inquadramento della figura del custode responsabile. Quest’ultimo, infatti, non è riconducibile, per i motivi che adesso appaiono ben più comprensibili, a nessuna delle relazioni soggetto-cosa espressamente normativizzate negli ordinamenti considerati: per il tramite di un processo storico, “si sarebbe, cioè, mantenuta una regola
152
Peraltro, nell’alveo di tale figura rientra anche quella corrispondente al detentore, ma solo al detentore “qualificato” (§ 855 BGB): le ragioni di servizio sono impeditive del Besitz, per questo il detentore mero e il detentore per ragioni di servizio o di ospitalità non possono essere custodi.
153
P.G. MONATERI, op. ult. cit., pp. 758 e ss.
154
Si era già fatto cenno a questo profilo al Cap. 1, Sez. II, par. 3.2, anticipando l’influenza della gewere- saisine nella configurazione del Besitz di matrice tedesca, che tanta rilevanza sembrerebbe assumere anche per la descrizione delle caratteristiche del custode di cui all’art. 2051 c.c.
155
Per la nozione di crittotipo e l’approfondimento del concetto, cfr. R. SACCO, voce Crittotipo, in Dig. Disc. Priv., V, Torino, 1993, p. 39.
156
P.G. MONATERI, La custodia, cit., p. 760.
157
Cfr. C.F. MICHELET, La régle du non-cumul du possessoire et du pétitoire, Paris, 1973, p. 33.
158 Ivi, p. 32. 159
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nascosta per quel che concerne le relazioni soggetto-cosa che non si inquadra nelle categorie romaniste di proprietà, possesso e detenzione”160.
Il riferimento alla regola nascosta fa emergere l’eco di una peculiare dottrina che ne fornisce una suggestiva chiave di lettura: si tratta del “diritto muto”, recentemente approfondito e rilanciato dall’opera di Rodolfo Sacco161
, che per lungo tempo se n’è occupato.
Il noto comparatista individua nel mondo giuridico una serie di peculiari fenomeni162, ritenuti manifestazione del diritto muto il quale, pur risultando alquanto difficile da definire in maniera esaustiva e non artificiosa163, è inquadrato in via di massima come fonte del diritto non verbalizzata: un “pezzo di norma” che “concrea, insieme ad altre energie, una norma”; la fonte parlata è regola scritta che da sola “non [può] recita[re] una intiera norma”164
senza la scintilla del diritto muto.
Questa realtà silenziosa-fonte del diritto è muta solo originariamente: cessa di essere tale nel momento in cui viene verbalizzata dall’interprete165
. Un tempo, la realtà del diritto muto era certamente preponderante166; ma anche dopo che “l'uomo, impadronitosi del linguaggio articolato, creò un diritto parlato, il diritto muto non fu eliminato dal suo mondo, e si perpetuò fino ad oggi”167
. Pur potendo manifestarsi in diverse forme ed essere inquadrato dai giuristi con una variegata nomenclatura168, non potrà mai essere cancellato o negato169: anche dopo che l’avvento della parola lo ha sopraffatto170, esso continua sempre a mostrare la sua resilienza.
160
Ivi, p. 762.
161
Segnatamente, R. SACCO, Il diritto muto. Neuroscienze, conoscenza tacita, valori condivisi, cit.
162 Tra questi (espressamente definitivi come “figure”: cfr. R. SACCO, op. ult. cit., p. 60 e passim) sono
annoverati proverbi, rinvii, metafore, sineddoche. Tra queste, è presa in esame segnatamente la “sineddoche francese” di cui ci siamo in precedenza occupati (vedi par. 1.3).
163 Egli, infatti, afferma che può sì stipularsi un significato della parola muto, ma che esso rischia poi di
apparire artificioso. Cfr. Ibidem.
164
Ibidem.
165
Operazione complessa, a questo punto, diviene quella di stabilire se la norma definitivamente operante può collocarsi nell’alveo del diritto parlato o del diritto muto. In realtà, la regola fa capo tanto ad una fonte parlante quanto ad una “fonte originariamente muta, poi verbalizzata dall’interprete in mezzo a qualche difficoltà e a incredibili incomprensioni e malintesi”: ibidem.
166 Prima di sviluppare un linguaggio articolato, gli uomini si relazionavano giuridicamente mediante
pratiche sociali vincolanti.
167
Ivi, p. 56.
168 Come crittotipo, o diritto vivente, o mezzo ermeneutico, o precomprensione; o ancora come natura delle
cose; law in action; visione realistica del diritto, effettività. Sono tutti esempi passati in rassegna dall’a..
169
Ivi, p. 87 afferma che non può essere soppresso, pur potendosi negarlo, o chiamarlo con nomi nuovi.
170 A tal proposito, Ivi, pp. 139-140, l’a. scrive che “la parola ha sopraffatto il diritto muto. Anche se
167
Ciò comporta, probabilmente, una maggiore difficoltà ad individuarlo nel suo manifestarsi, essendosi ridotto il suo operare ad alcune aree marginali del mondo-diritto171; tuttavia, senza di esso, molti fenomeni giuridici ben difficilmente potrebbero spiegarsi fenomenologicamente172.
L’esistenza del diritto muto, che è “elemento silenzioso” capace di concreare la norma insieme agli elementi cristallizzati dall’ordinamento giuridico173
, potrebbe in definitiva fornire una giustificazione rispetto alla somiglianza tra fattispecie (o tra singoli elementi strutturali di esse) appartenenti a sistemi giuridici molto distanti nel tempo, laddove gli ordinamenti che in mezzo a quelli si sono susseguiti storicamente non presentino nessun elemento che farebbe propendere per una continuità normativa, nemmeno a livello di principi174.
Una prospettiva ricostruttiva simile, certamente suggestiva, lascia aperto il dubbio che la
gewere-saisine poc’anzi descritta possa assurgere al rango di fonte del diritto muto, dal
momento ch’essa costituiva una forma giuridica nota nelle antiche consuetudini
consuetudine e uso, è diventato diritto inferenziale, è diventato crittotipo, è entrato in uno stato di latenza (ma non ha cessato di esistere).”
171
Ed infatti, l’a. ammonisce dal pericolo di confonderlo e sovrapporlo, appiattendone i connotati, alla consuetudine, alla quale è accomunato solo da una mancanza di formalizzazione scritta (e nemmeno sempre, vista la presenza di “raccolte di usi” in diversi ordinamenti): la peculiarità del diritto muto, infatti, non è (solo) la non cristallizzazione in documenti scritti, bensì (ancor più radicalmente), la mancata verbalizzazione. La consuetudine, infatti è suscettibile di verbalizzazione (dal giudice, dal dotto, dal cittadino)”; il diritto muto no. A tal proposito, si chiede il comparatista (Ivi, p. 61), se possa ritenersi sulla buona strada un approccio di ricerca che definisca “il diritto muto come una consuetudine non (o non ancora) verbalizzata”.
172 Il che spiegherebbe come, allorquando un organo giudicante (dirimendo una quaestio iuris a lui
sottoposta) non dovesse fondare la sua decisione sulla legge, né risultasse esistente una consuetudine idonea a giustificare il decisum, ciò non deve far automaticamente concludere per una violazione del principio di separazione dei poteri da parte del giudice, che si sarebbe pronunciato non applicando, ma creando la norma, quasi fosse un legislatore. Potrebbe anche darsi che “un elemento di diritto [esistente, ma] non scritto è penetrato nell'opinio” (Ivi, p. 47) da cui è scaturita la sentenza. Peraltro, a tal proposito, secondo l’a. (Ivi, p. 120), il motivo per cui il diritto muto inattuato non merita una giustificazione risiede in ciò che fin quando non viene attuato, esso è nascosto, invisibile, “malamente conoscibile anche dal soggetto che lo porta con sé nella propria potenziale spontaneità”; ma anche allorquando un magistrato dovesse giudicare conformemente ad una regola derivante da quell’elemento silenzioso che gli appartiene e che fa parte del suo patrimonio ideale (implicito), gli eventuali processi di legittimazione e giustificazione delle sue idee “dovrebbero riguardare qualcosa di non verbalizzato. E l’ipotesi di analisi rivolte alla giustificazione di questo dato implicito non sembra meritare interesse.”
173 Siano essi formalizzati come legge scritta ovvero come consuetudine generalmente riconosciuta ed
esplicitata.
174
Con riferimento ai principi, il Sacco (ivi, pp. 76-77) specifica che si tratta di fondamenti, caratteri, modelli ispiratori della norma, ma che per l’appunto non sono norme (e non sono neanche diritto). “Non è diritto muto il principio inteso come superregola generale, contrapposta alle cento norme specifiche che la compongono, se le cento regole sono esplicite.” Se ben si comprende, allora un principio non potrà mai essere (frutto e/o manifestazione di) diritto muto. Potranno essere diritto muto solo quelle singole norme non formalizzate, sempre ammesso che non esista già un principio che la conglobi.
168
germaniche, per cui di essa si aveva piena consapevolezza nei sistemi giuridici (invero rudimentali) in cui veniva applicata. Di certo, ha lasciato un’impronta forse non evidente
ictu oculi – in quanto non codificata – ma certamente indelebile nella cultura giuridica di
un ordinamento (quello francese) in cui è rimasto saldo il riferimento al potere di fatto per inquadrare alcune categorie soggettive.
Questa sua influenza, allora, consente di ritenerla, lì dove non era stata espressamente normativizzata, una fonte di diritto non scritto, ma “biologicamente o culturalmente legat[a]”175
al sistema giuridico.
E poiché “in ogni ordinamento giuridico, accanto alla norma parlata, sopravvivono, poco visibili ma efficienti, reticolati di norme latenti”176
, la gewere-saisine può essere collocata nel novero di questi: elemento strutturale quasi “invariante”177
, è apparentemente venuta meno in seguito alla sua mancata codificazione formale, per poi riemergere in una direzione, tra quelle possibili, che l’evoluzione giuridica ha manifestato.
Si tratta di una norma non scritta, ma comunque operante, sopravvissuta accanto a quelle formalizzate, che si fa viva nel momento dell’interpretazione della legge scritta178
.
Invero, ciò che davvero può essere qualificato come elemento (rilevante ed) invariante non è tanto la custodia in sé, quanto l’interesse che da questa si desume. Il costo della responsabilità è infatti imputato a chi rispetto alla cosa abbia la maggiore libertà di agire, quale estrinsecazione del potere di governarla: in ciò si condensa la nozione di potere di fatto ed uso nell’interesse proprio179
, che abbiamo visto essere il criterio identificativo del custode in entrambi gli ordinamenti considerati (francese e tedesco). La responsabilità del custode si configura allora come costo della libertà, sganciandosi da un atto specifico
175
Ivi, p. 149.
176
Ibidem. Queste norme latenti, secondo l’a., sono chiamate in diversi modi: mezzi ermeneutici, concetti scientifici, principi generali, valori, crittotipi, diritto vivente, law in action ed altri ancora.
177 Nel senso che presenta i connotati tipici di quelle strutture che condizionano la vita del diritto e la sua
evoluzione: infatti, la rilevanza del potere di fatto su una cosa si mantiene sempre uguale a sé stessa, pur nel mutare dei sistemi giuridici e degli istituti. Cfr., per la nozione di struttura invariante, A. GORASSINI, Lezioni di Biodiritto. Appunti del corso di lezioni (a cura di F. Tescione), Giappichelli, 2007, pp. 4 e 20 e ss., dove vengono individuate le strutture invarianti “fondamentali”, in quanto ontologicamente fondative del fenomeno diritto, nella regola di comportamento, nel soggetto e nella relazionalità.
178 Osserva R. SACCO, Il diritto muto, cit., p. 150 come questa tipologia di norme non scritte, che
sopravvivono accanto a quelle parlate, sono “norme mute che si fanno vive nel momento dell’interpretazione della legge scritta”. Esse non solo sarebbero fondative della fenomenologia giuridica, ma addirittura esisterebbero quasi ontologicamente: esse, infatti, «hanno una loro esistenza non solo nel mondo delle norme e del Sollen, ma nel mondo di quel Sein dove si fabbrica il diritto muto.” Per questo si può affermare che “la parola ha sopraffatto, ma non ha estinto, le fonti del diritto muto.”
179 Con prevalenza del primo sul secondo nelle situazioni incerte, in cui questi due elementi di fatto non
169
Potrebbe sostenersi la tesi secondo cui il custode non è tenuto ad un facere determinato, ma a sopportare i costi di una più generica attività, esercitabile o meno, sulla cosa, sia per soddisfare i propri interessi (economici e non solo), sia, auspicabilmente, per prevenire i danni potenziali.
Queste conclusioni, formulate come singolare tesi a partire dai risultati convergenti sulla responsabilità da cose nel diritto francese e tedesco, nonché suffragate dalla teoria di una radice comune nella gewere-saisine, potrebbero rappresentare una chiave dogmatica di lettura della fattispecie di responsabilità da cose in custodia anche nel nostro ordinamento, se l’approfondimento del dato applicativo confermerà i medesimi risultati180
.
In ogni caso, per come si è già evidenziato anche con riguardo ad altre ipotesi, la responsabilità per danni da cose è interpretata ormai in termini oggettivistici. Il custode delle cose che abbiano cagionato un danno non può liberarsi dimostrando di non essere in colpa.
Questo potrebbe essere un punto di non ritorno181 nell’evoluzione dei sistemi di responsabilità civile; il tempo consentirà di verificare la bontà della tesi.
3.4. Il “seme” – o il “fiume carsico” – della responsabilità oggettiva riemerso dopo secoli