E DANNI DERIVANTI DA COSE
3. Ipotesi di responsabilità (originariamente) senza colpa: actio de effusis vel deiectis;
actio de positis et suspensis; actio nautarum, cauponum, stabularionum. Caratteri
comuni.
Alcune ipotesi di danno risarcibile nel diritto privato romano, non disciplinate dalla Lex
Aquilia in quanto carenti del requisito dell’iniuria101, prescindevano dall’accertamento dell’elemento subiettivo. V’era un soggetto ritenuto responsabile in virtù di un legame quasi “oggettivo” con dei “terzi”, cioè con le persone o le cose da cui effettivamente scaturiva il danno102.
Rientravano nel novero di queste particolari forme di tutela l’actio de effusis vel deiectis, l’actio de positis et suspensis e l’actio nautarum, cauponum, stabularionum.
Quanto alla prima, essa veniva esercitata contro l’abitante di un locale – non necessariamente proprietario103 – ritenuto responsabile se dal suddetto locale qualcosa fosse stato gettato o versato, provocando un danno. Si prescindeva da chi fosse stato effettivamente l’autore materiale dell’azione, sebbene fosse consentito all’habitator di liberarsi con la noxae deditio in caso di atto dannoso compiuto da un suo schiavo.
Si trattava di una responsabilità per fatto altrui: il responsabile dell’illecito era un soggetto diverso da chi cagionava il danno. Non era neanche richiesta la prova della volontarietà dell’azione, ovvero della mancata diligenza o prudenza, da parte dell’habitator: questi non avrebbe potuto liberarsi fornendo la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, essendo sufficiente la mera verificazione dell’evento dannoso stesso perché egli rispondesse.
Con la previsione di quest’actio, s’intendeva tutelare i malcapitati danneggiati, che difficilmente avrebbero potuto dimostrare l’iniuria dell’agente; anzi, la difficoltà spesso consisteva addirittura nella stessa individuazione del soggetto che aveva posto in essere il fatto dannoso. Il pretore, quindi, non menzionava la colpa nell’editto relativo all’actio de
101
Cfr. G. CRIFÒ, op. ult. cit., p. 163: la sanzione era riferita ad una data persona pur mancando l’elemento soggettivo. Non essendovi iniuria, non si configurava un vero e proprio torto.
102
Cfr. G. PUGLIESE, op. cit., p. 476.
103
Legittimato passivo dell’azione, secondo l’editto, era l’habitator dell’edificio dal quale erano stati gettati gli oggetti: tale poteva essere tanto il proprietario, quanto un locatario o un soggetto che godeva del bene gratuitamente, pur senza esserne proprietario. Cfr. D.9.3.1.9; D.9.3.5.1.
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effusis vel deiectis104: la mancanza del requisito subiettivo costituisce una cifra qualificante di questa fattispecie, nonché una fondamentale differenza105 rispetto all’illecito aquiliano. Proprio le esigenze di tutela tipiche di una società in piena espansione (prima di tutto urbanistica) comportarono l’eliminazione di un requisito che sarebbe stato difficile provare. Se il danneggiato avesse voluto agire ex lege Aquilia contro chi aveva gettato la cosa che gli aveva arrecato un danno, egli avrebbe dovuto provare l’iniuria, ovverosia tanto l’antigiuridicità quanto la colpevolezza della condotta del danneggiante. Ma doveva essere alquanto arduo fornire tale prova, non essendo semplice per un malcapitato passante rendersi conto di cosa fosse successo in un edificio a lui estraneo, dal quale un oggetto era caduto, cagionandogli un danno106.
Per questo motivo, il pretore nel suo editto decise di concedere actiones esperibili senza dover fornire prova di chi avesse posto in essere la condotta e – a fortiori – se lo avesse fatto con dolo o colpa. Al ripianamento di tale “discriminazione probatoria” si deve l’eliminazione dell’iniuria da questa forma di illecito.
Peraltro, potrebbe a ragion veduta sostenersi che l’actio de effusis vel deiectis non era necessariamente un ipotesi di responsabilità per atto di un terzo: un atto umano poteva anche mancare. Ulpiano, in effetti, nota107 che rispondeva l’habitator se una cosa “cadeva” sotto: ma ciò poteva succedere anche in assenza di uno specifico atto umano che “mettesse in moto” la res, la quale ben avrebbe potuto da sola essere causa efficiente del danno arrecato. Dall’applicazione pratica emerge in effetti una certa indifferenza per la condotta posta in essere, volgendosi piuttosto l’attenzione alla conseguenza dannosa, che sarebbe potuta anche derivare da un fatto delle cose108: responsabile del danno sarebbe stato comunque ritenuto l’habitator dell’edificio.
104 Ma qualche giurista si riferiva alla colpa degli abitanti: cfr. D.9.3 e Pal. 19 ad ed.: Habitator suam suorum
que culpam praestare debet.
105
A sostegno di questa condivisibile opinione, si osservi che Ulpiano (D.9.3.1.4.) metteva in rilievo che “nec adicitur culpae mentio vel in fitiationis, ut in duplum detur actio, quam vis damni iniuriae utrum que exiget.”
106
Scrive in proposito LI JUN, L’actio de effusis vel deiectis nella vigente Legge sulla responsabilità da illecito civile della Repubblica Popolare Cinese, su www.dirittoestoria.it, Come si sarebbero potuti risolvere i casi in cui non fosse stato possibile individuare chi avesse gettato di sotto degli oggetti e nessuno lo avesse confessato? Il pretore si preoccupò che non si verificasse una situazione per cui la vittima avesse dovuto sopportare, appunto, un danno, mentre le persone che abitavano nei piani superiori avessero potuto gettare o versare di sotto le cose senza preoccuparsi del fatto che qualcuno fosse passato proprio lì sotto in quel momento..
107
In D.9.3.1.3.
108 Secondo M. COZZI, op. cit., p. 354, l’actio de effusis vel deiectis configura senz’altro una responsabilità
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L’ actio de positis et suspensis, concessa dal pretore con il medesimo provvedimento riguardante l’illecito precedente, prevedeva la pena di dieci aurei per colui il quale avesse lasciato appeso su un cornicione, un balcone, o una tettoia qualcosa che, in caso di caduta, avrebbe rischiato di danneggiare un eventuale passante.
Poiché la responsabilità sorgeva indipendentemente dall’effettiva caduta della cosa, si deduce la finalità preventiva dell’actio: si voleva tutelare la sicurezza dei luoghi pubblici e di coloro che li frequentavano.
Come nell’actio de effusis vel deiectis, non veniva presa in considerazione la volontà di nuocere o la colpa per non essersi reso conto l’agente del pericolo; anzi, addirittura in questa ipotesi difettava lo stesso requisito del danno. Era sufficiente una potenzialità dannosa del comportamento posto in essere dall’agente perché contro questi venisse irrogata una pena. Conseguentemente, quest’ultima era individuata in maniera fissa, mancando un evento lesivo rispetto al quale quantificarla.
Chi avesse collocato la cosa non doveva rivestire una particolare qualifica soggettiva109, né essere in determinati rapporti con il bene immobile al quale la cosa stessa era appesa o su cui era collocata.
Infine, l’actio nautarum, cauponum, stabularionum puniva il padrone di navi, osterie o stalle qualora all’interno di questi luoghi fossero state danneggiate delle cose dal suddetto padrone-proprietario ovvero da suoi dipendenti liberi.
In questa azione, a differenza di quella precedentemente considerata, la responsabilità non poteva sorgere in assenza di danno: non era sufficiente il mero pericolo dello stesso, ma era necessario l’evento lesivo ai fini della punibilità del soggetto legittimato passivo.
Questi, tuttavia, si ritiene rispondesse non già per culpa, bensì per assunzione del rischio110; in ipotesi di verificazione del danno, egli non avrebbe potuto in alcun modo liberarsi. È evidente, dunque, l’obliterazione dell’accertamento della colpevolezza del responsabile; Gaio, tuttavia, osserva, per il caso dell’armatore, che questi risponde “come” (quatenus) per colpa, dal momento che si è avvalso di “mali homines”111.
109
Ma qualora un servo avesse posto in essere la condotta punibile con quest’actio, vi era la possibilità per il paterfamilias di liberarsi con la noxae deditio.
110
Sostiene questa tesi P. CERAMI, La responsabilità extracontrattuale dalla compilazione di Giustiniano ad Ugo Grozio, cit., p. 112, che si richiama ad Ulpiano D. 4, 9, 7 pr.: la giurisprudenza in queste ipotesi considerava presupposto della responsabilità l’assunzione del rischio e non la culpa.
111
Ivi, p. 114, l’a. sostiene che “si aprì la strada alla (forse eccessiva) valorizzazione della colpa. Gaio non dice che l’armatore risponde per colpa, ma come (quatenus) per colpa, avendo scelto ‘mali homines’. I commissari giustinianei, utilizzando il nostro brano non soltanto nel titolo De obligationibus et actionibus dei Digesta, ma anche nel titolo De obligationibus quae quasi ex delicto nascuntur (Inst. 4, 5), accentuarono
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Tuttavia, quand’anche l’ipotesi di illecito in esame presupponesse una “culpa in eligendo”, comunque si tratterebbe di una presunzione assoluta e il riferimento all’elemento soggettivo appare più una fictio: l’accertamento della responsabilità rimaneva fondato sulla mera sussistenza del danno secondo le modalità poc’anzi descritte.
Pare opportuno osservare, a questo punto, come in tutte e tre le azioni considerate la colpa “non appare necessario presupposto della responsabilità”112
: v’è un soggetto che risponde oggettivamente per il prodursi del danno113.
La scelta pretoria di punire dei soggetti non già “in mancanza”, bensì “a prescindere” dalla considerazione della colpevolezza, era giustificata dall’esigenza di tutela in alcune peculiari situazioni che si erano venute a creare con lo sviluppo sociale, economico, urbanistico.
Non sembra peregrina la tesi secondo cui, in queste ipotesi, la vera svolta non fu la mancata considerazione del requisito soggettivo ai fini della responsabilità, quanto il “mutamento di prospettiva”: non si guardava più alla condotta del danneggiante e al suo manifestarsi (oggettivamente) antigiuridico e (soggettivamente) colpevole, bensì alla posizione del soggetto danneggiato la cui situazione si sceglieva di tutelare.
Cambiava così il fondamento della responsabilità: non più la colpa, ma l’assunzione del rischio. L’habitator rispondeva per i rischi connessi all’edificio di cui godeva; il nauta, il
caupo, lo stabularius per le rispettive attività esercitate nei luoghi all’uopo preposti.
Le caratteristiche di queste ipotesi di illecito avrebbero potuto influenzare in maniera diversa l’ordinamento giuridico romano, così come quelli successivi da esso discendenti. Tuttavia, i giustinianei attenuarono la portata innovativa ed eccezionale di queste norme, condizionandone l’evoluzione. Essi, infatti, che valorizzarono in diversi campi il criterio della culpa, facendolo assurgere a presupposto indefettibile di qualsivoglia tipologia di illecito114, “forzarono” la struttura di queste actiones, richiedendo comunque la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al responsabile.
il rilievo della culpa, condizionando così l’ulteriore sviluppo storico della responsabilità per fatto dei dipendenti.”
112 Vedi G. PUGLIESE, op. cit., p. 477. 113
Invero, nell’actio de positis et suspensis manca addirittura lo stesso presupposto del danno, punendosi l’habitator in via preventiva.
114 G. PUGLIESE, op. ult. cit., p. 477 osserva che “i giustinianei, nella loro tendenza a far dipendere la
responsabilità dagli elementi soggettivi del dolo o della colpa, dicono, nel caso dell’habitator (Inst. 4, 5, 1), che egli per lo più ob alterius culpa tenetur e, nel caso del nauta, caupo, stabularius (Inst. 4, 5, 3), che egli ha la colpa di essersi servito di mali homines, ha cioè quella che la tradizione romanistica e ancora i civilisti moderni hanno chiamato culpa in eligendo, colpa, del resto, che i giustinianei consideravano presunta,
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Tuttavia, non potendo la culpa essere dimostrata (attese le peculiarità delle fattispecie), essa veniva presunta senza possibilità di provare il contrario: non rimaneva che un formalistico ossequio al principio “nessuna responsabilità senza colpa”.
Si tornò così indietro, riportando in auge il criterio “moralistico e soggettivistico” dell’iniuria a discapito di quello “commercialistico e solidaristico”115
che aveva ispirato la formulazione degli editti pretori e la concessione di queste particolari actiones, introducendo ipotesi eccezionali rispetto al sistema generale dell’illecito aquiliano.
4. Ipotesi di responsabilità del dominus per danno prodotto da persone, animali o