DELLA FATTISPECIE DI CUI ALL’ART 2051 C.C.
2. La nozione di cosa.
2.2. La pericolosità della res.
Tra le caratteristiche che la cosa potrebbe in ipotesi avere, una è stata – ed è tuttora, sia pure in misura minore – oggetto di accesi dibatti in dottrina e giurisprudenza: la pericolosità. Ciò in quanto tale caratteristica, in effetti, più di altre peculiarità delle cose influenza il giudizio sulla produzione del danno.
La disputa tra i sostenitori e i detrattori della necessaria pericolosità della res (ai fini della configurabilità dell’ipotesi normativa ex art. 2051 c.c.) ha visto in epoche anteriori prevalere le opinioni dei primi sui secondi.
V’era chi riteneva essere “necessario, all’effetto della responsabilità ex art. 2051, che questa intrinseca pericolosità concretamente sussist[esse], in misura apprezzabile, nella cosa inanimata che ha cagionato danno.”140
Tale tesi risaliva già alla precedente formulazione codicistica (risalente al 1865), che quanto alla responsabilità da cose in custodia si presentava identica a quella successiva del 1942 e direttamente mutuata dal Code Civil del 1804: non ci si poteva riferire, secondo qualcuno, al “concetto di cosa contenente in sé la causa del danno [senza] richiamare il concetto di pericolo”141
.
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I beni “animati”, che non siano soggetti (gli animali), sono oggetto di altra, pur affine, fattispecie di responsabilità, disciplinata dall’art. 2052 c.c.
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Cfr. R. SCOGNAMIGLIO, voce Illecito cit., p. 644; G.G. GRECO, D.M. PASANISI, B. RONCHI, I danni da cose in custodia, Giuffrè, 2004, p. 51. Gli autori citano anche la dottrina che, unanimemente, riconosce tale circostanza.
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Così A. DE CUPIS, Il danno, cit., p. 199. L’a. corroborava la sua tesi in questi termini: “deve porsi I’ accento sul punto che la responsabilità per difetto di custodia, severamente regolata sul piano probatorio dagli artt. 2051 e 2052 c.c., presuppone la pericolosità della cosa sottoposta a custodia. Le cose animate (animali) hanno sempre un certo grado di naturale pericolosità. E quanto a quelle inanimate, esse possono avere in se stesse tale pericolosità […]”. Ebbene, secondo l’a., solo quelle dotate del carattere della pericolosità potevano essere fonte di danno e quindi di responsabilità civile.
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Così M. COZZI, La responsabilità civile per danni da cose, Padova, 1935, p. 32, il quale si domandava retoricamente: “Che infatti vuol dire che una cosa ha propensione al danno se non che essa è una cosa pericolosa?”. Egli non aderiva alla tesi della pericolosità della cosa, ponendosi quale voce fuori dal coro rispetto alle tesi maggioritarie del suo tempo, ma riprendeva tesi di autori francesi, quali il Voirin e il Ripert. Nelle pagine successive dell’opera, inoltre, coglieva un elemento molto importante concernente la questione della pericolosità della cosa: la relatività dell’accertamento, dipendente da un necessario esame del caso concreto da parte del giudice (p. 41). E sottolineava come "in verità, qualunque via si segua, è
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Di diverso avviso è la dottrina più recente, la quale, come si dirà a breve, ha tentato anche di fornire un correttivo alle pronunce giurisprudenziali che invocavano quale ineludibile requisito della pericolosità della cosa, riferendosi però nei fatti a questioni relative al nesso di causalità tra cosa ed evento142.
Si è sostenuta l’inconferenza della tesi della pericolosità della cosa sulla base, innanzitutto, del mero dato testuale della norma, la quale non richiede affatto una simile caratteristica della res, “laddove vale soltanto la circostanza, da constatare a posteriori, che la cosa stessa ha cagionato danno”143. La distinzione tra cose pericolose e non, peraltro, sarebbe priva di fondamento anche perché la pericolosità non è un connotato immanente della cosa, ma una caratteristica che possono assumere tutte le cose, in date circostanze di fatto144.
La dottrina maggioritaria145 sostiene l’irrilevanza della pericolosità della res ai fini della configurabilità dell’ipotesi normativa in esame, sulla base soprattutto di due argomenti: il primo si basa sull’impossibilità di “enucleare in astratto una categoria definita di cose pericolose”146
, dal momento che la pericolosità è caratterizzata da una certa dose di relatività, dipendendo strettamente dalle circostanze del caso singolo e ben potendo riguardare qualunque oggetto147; il secondo è fondato sul ragionamento più tecnico-
impossibile trarre dalla natura della cosa un criterio di determinazione del pericolo. È ben lo avvertiva il Voirin. Ogni cosa è pericolosa in rapporto ad un'altra che lo è ancora di meno, e quest'altra è pericolosa in rapporto ad un'altra che lo è ancora di meno. Invano si cercherebbe di individuare la barriera, oltre la quale le cose divengono inoffensive, collo aiuto del criterio oggettivo, perché tutte si dimostrano pericolose, è solo una differenza di più o di meno v'è tra di loro.”
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Tale assunto è constatato da M. FRANZONI, L’illecito, cit., p. 463, che cita diversa giurisprudenza la quale ha costruito i ragionamenti sulla responsabilità da cose in custodia sulla base della sussistenza, in capo alla cosa stessa, di un “dinamismo” ad essa “connaturato”, ovverosia sulla base dell’ “insorgere di un agente dannoso” in essa. Si tratta di un orientamento largamente accolto per lungo tempo da giudici, sia di merito che di legittimità: su questa premessa si fonda l’opinione per la quale vi sarebbe un criterio di imputazione, comune a tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva, fondato sul concetto di “cose seagenti”. Osserva tuttavia l’a. citato che “affermare che il dinamismo connaturato alla cosa ha causato un danno non ha significato diverso dall’affermare che la cosa ha concorso eziologicamente nella verificazione dell’evento”. Si tratta di una precisazione che sembrerebbe corroborare la tesi della rilevanza a fini meramente probatori della pericolosità della cosa, non già ai fini della sussistenza della fattispecie stessa di responsabilità. In ogni caso, si rinvia alla parte successiva del lavoro (cap. IV): approfondendo con maggiore organicità il momento applicativo, con una doviziosa analisi della giurisprudenza, se ne potranno meglio delineare i criteri orientativi e gli approcci ermeneutici, più o meno corretti e rispondenti alla ratio legis.
143
Così R. SCOGNAMIGLIO, voce Responsabilità civile, cit., p. 644.
144
Cfr. M. FRANZONI, op. ult. cit., p. 459 ss..
145 Cfr. tra gli altri G.G. GRECO, D.M. PASANISI, B. RONCHI, I danni da cose in custodia, cit., p. 61; V. GERI, La
responsabilità civile da cose in custodia, animali e rovine di edificio, cit., p. 107; C.M. BIANCA, Diritto Civile, V, La responsabilità, Giuffrè, 1995, p. 714. Questi stessi autori riportano altra bibliografia citando altra dottrina favorevole alla tesi.
146
G.G. GRECO, D.M. PASANISI, B. RONCHI, op. ult. cit., p. 60.
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Non sfuggirà come, paradossalmente, proprio lo stesso argomento della relatività del concetto di pericolosità era stato utilizzato da altra dottrina, più risalente, per giustificare la tesi della necessaria pericolosità della res. Vedi supra la nota n. 141 relativamente a quanto riportato da Cozzi.
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scientifico secondo cui tutti i corpi sono pur sempre soggetti alla forza gravitazionale e, in quanto tali, potenzialmente idonei a causare pregiudizi a terzi148.
Che la cosa non debba avere precipui connotati non equivale a sostenere che la sua eventuale pericolosità sia priva di rilevanza. Al contrario: pur potendo essere fonte di danno anche le cose non astrattamente insidiose, il carattere eventuale di pericolosità di una res, che sia insito in un determinato oggetto, acquisterà rilievo nell’ ottica della prova liberatoria149. Il che val quanto dire, da una diversa prospettiva e pur anticipando (per il momento) apoditticamente quanto si chiarirà meglio oltre150, che la rilevanza causale di una cosa nella produzione di un evento dannoso potrebbe essere più facilmente dimostrabile151, ma anche desumibile presuntivamente152, rispetto alla prova del nesso causale con riferimento ad oggetti astrattamente innocui.
Un simile argomento facilita anche la comprensione del “correttivo” di quelle sentenze nelle quali si legge che il dinamismo connaturato della cosa ha causato un danno: tale espressione non è altro che una perifrasi per sostenere che “la cosa ha partecipato attivamente alla verificazione dell’evento dannoso”153
.
Anche sotto la vigenza del vecchio codice era stato sottolineato il deficit della dottrina che riteneva la cosa necessariamente pericolosa154.
148
Osservava a tal proposito U. BRASIELLO, Cose pericolose e cose seagenti, in Riv. Trim. dir. e proc. Civ., 1956, p. 27 che “la pericolosità non è una caratteristica immanente della cosa, ma una caratteristica che possono assumere tutte le cose”.
149
Cfr. M. FRANZONI, L’illecito, cit., p. 461.
150
Vedi Cap. V, Sez. I , par. 4.
151
M. FRANZONI, op. ult. cit., pp. 454 e ss., sostiene diversi argomenti per dimostrare come, nell’ipotesi di cosa pericolosa, il custode incorrerà in maggiori difficoltà per dimostrare il caso fortuito. Ciò in quanto vi è intrinsecamente una maggiore prevedibilità delle possibili conseguenze negative qualora la cosa sia pericolosa.
152 Il meccanismo presuntivo sarà più facilmente azionabile e ritenersi perfezionato allorquando la cosa sia
pericolosa, perché in tal caso potrà ritenersi maggiormente fondato il collegamento tra fatto noto e fatto ignoto avendo a disposizione argomenti più incisivi, che rendano appunto gli elementi a disposizione gravi, precisi e concordanti.
153
Così M. FRANZONI, op. ult. cit., p. 70. L’invocato “dinamismo”, se riferito ad un specifica caratteristica della cosa, si rivela essere un obiter dictum, o comunque una perifrasi per affermare che vi è rapporto di causa-effetto tra la cosa e l’ evento dannoso. Conseguentemente, sostiene lo stesso M. FRANZONI, La responsabilità oggettiva. Il danno da cose e da animali, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale (diretto da F. GALGANO), 1988, p. 174: “le motivazioni che negano la responsabilità del custode sul presupposto che la cosa è priva del dinamismo richiesto, in realtà, contengono una motivazione ben differente che può essere individuata nella mancanza di riscontro probatorio del rapporto di causalità tra la cosa e il danno”.
154 Vedi M. COZZI, La responsabilità civile per danni da cose, cit., p. 38, secondo cui “l'articolo 1384 non
distingue tra cose pericolose e non. Il concetto di custodia è molto più largo e si estende a tutte le cose”. Gli argomenti per sostenere la tesi della non necessaria pericolosità della res si estendevano anche al concetto di custodia: "pure le cose comunemente ritenute inerti ed inoffensive hanno bisogno di custodia; […] esse, se non fossero diligentemente custodite, potrebbero, sebbene con diversa probabilità, essere di danno per
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Nonostante la validità delle tesi sin qui riportate sulla non necessaria pericolosità delle cose ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 c.c., tale assunto, per come si è già anticipato, potrà essere definitivamente corroborato solo dalle indagini successive155. Allo stato attuale, l’argomento letterale della mancata previsione espressa della pericolosità nella disposizione in esame, quale elemento costitutivo della fattispecie156, si rivela quello dotato di maggior pregio. Rileverebbe infatti, in questo caso, il principio dell’ubi lex voluit,
ibi dixit: quando il legislatore lo ha ritenuto opportuno, ha espressamente previsto il
connotato della pericolosità ai fini della qualificazione giuridica dei fatti produttivi di effetti risarcitori; l’art. 2050 c.c. ne è prova evidente, richiedendo che l’attività sia “pericolosa”. Tale ultimo argomento rende la tesi cui si aderisce difficilmente confutabile157, quantomeno sulla base di un ermeneusi letterale del dato a nostra disposizione.
Riassumendo, le “cose” previste dall’art. 2051 c.c. saranno quegli elementi materiali del mondo esterno, presi in considerazione dall’ordinamento in quanto idonei a realizzare l’interesse dell’uomo; per questo, esse forniscono la base materiale del bene giuridico, che a sua volta è oggetto di situazioni giuridiche soggettive. Le cose sono, oltre che dotate di materialità, anche inanimate158, dotate delle più svariate caratteristiche (mobili o immobili, in qualsiasi stato della materia) e non necessariamente pericolose, purché idonee a costituire la causa efficiente del danno prodotto, così da rendere responsabile a fini risarcitori il loro custode.
gli altri. D'altronde è chiaro che il legislatore con la semplice parola cose non ha potuto affatto riferirsi unicamente alle cosiddette cose pericolose, le quali nel 1804 non esistevano ancora o almeno erano ben poche”. Notevole risulta altresì un ultimo, decisivo argomento sulla non pericolosità necessaria delle cose da parte dell’a. il quale (p. 52), nell’eliminazione di ogni dubbio circa l'applicabilità dell'art. 1384 comma 1 alle cose immobili (non vi era allora una disposizione analoga all’attuale art. 2053 c.c.), vede un “nuovo scacco per la tesi che fonda l'applicazione dell'art. 1384 1 comma sul carattere pericoloso della cosa danneggiatrice. L'immobile è per natura sua statico ed inerte, simbolo fedele di un mondo che non conosceva lo sfruttamento delle forze più potenti della natura. Più aperto disconoscimento del criterio della cosa pericolosa non potevasi, invero, immaginare.”
155 Ci si riferisce ai rilievi storici, comparatistici ed anche applicativi attuali. 156
Cfr. G.G. GRECO, Responsabilità da cose in custodia della struttura alberghiera, cit., p. 581.
157
Vedi C. SEVERI, La condotta del custode nella fattispecie di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., in Resp. civ. e prev., 2011, 7-8, p. 1472, che osserva come non venga richiesta la prova dell’intrinseca dannosità o pericolosità della cosa; ciò vale, viceversa, per la diversa fattispecie prevista dall’art. 2050 c.c.
158
Stiamo parlando sempre delle cose previste dall’art. 2051 c.c. Qualora dovessimo riferirci più genericamente alle cose, in questa categoria rientrerebbero anche gli animali (oggetto della più specifica previsione dell’art. 2052 c.c. nella responsabilità extracontrattuale); anch’essi, infatti, si inquadrano fenomenologicamente nell’oggetto, pur essendo esseri animati. Le piante, esseri viventi ma inanimati, rientrano nell’alveo delle cose di cui all’art. 2051 c.c. Cfr. in tal senso, anche S. PUGLIATTI, voce Cosa, cit., p. 27.
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