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Dalla Riforma Berlinguer alla Riforma Gelmin

La ricerca sugli insegnanti dagli anni “Sessanta” ai giorni nostr

1.8 Dalla Riforma Berlinguer alla Riforma Gelmin

Costretti a vivere tra la costante ricerca di una dimensione e di un‟identità professionale e la negazione del prestigio sociale ed economico, i docenti vedono peggiorare con il tempo la loro condizione lavorativa. Le riforme si susseguono ritmicamente, caratterizzandosi immancabilmente per l‟abrogazione di alcuni provvedimenti emanati dal governo precedente. In poco meno di dieci anni si assiste all‟alternarsi di quattro riforme: la “Riforma Berlinguer”, la “Riforma Moratti”, la breve parentesi della “Riforma Fioroni” e la “Riforma Gelmini”.

Il progetto di riforma promosso dal ministro Berlinguer, così come si concretizzò nella Legge 30/2000 (Legge Quadro in materia di riordino dei cicli dell‟istruzione), intervenne radicalmente nella struttura del sistema scolastico modificandone l‟articolazione tradizionale (5 anni di scuola elementare + 3 anni di scuola media + 5 anni di scuola superiore) in una nuova (7 anni di scuola di base + 5 anni di scuola secondaria). In questa maniera si realizzava un abbassamento sia dell‟età di ingresso nel ciclo secondario, da 14 a 13 anni, che dell‟età di uscita dalla scuola (18 anni), ma si produceva anche un prolungamento dell‟obbligo scolastico che veniva a coincidere con il nuovo biennio di scuola superiore, biennio che, acquisendo dunque un carattere orientativo, si configurava come unico per tutti e teso a favorire il più possibile azioni di ri-orientamento e l‟eventuale transito da una tipologia di scuola secondaria superiore all‟altra.

Il governo di centro-destra sospese immediatamente l‟applicazione della Legge 30, attraverso l‟emanazione della Legge-delega 53 del 2003 (Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull‟istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale), la cosiddetta “Riforma Moratti” e propose un modello alternativo, definito del “doppio canale”, che prevedeva l‟articolazione della scuola del 2° ciclo in due sistemi paralleli: il sistema dei licei e quello dell‟istruzione e della formazione professionale.

Al termine della scuola secondaria di I grado ( ex scuola media inferiore), gli studenti e le famiglie avevano due possibilità per assolvere al diritto-dovere di istruzione e formazione: il sistema dei licei, che includeva anche gli istituti tecnici, ed il sistema dell‟istruzione e della formazione professionale. Quest‟ultimo comprendeva una variegata serie di tipologie scolastiche: gli istituti professionali, i corsi di formazione professionale, la formazione in apprendistato e in alternanza scuola-lavoro. I due sistemi sarebbero dovuti essere gestiti da due enti diversi: il primo continuava a far capo allo Stato, mentre il secondo diventava di competenza regionale. La riforma suscitò molte polemiche, soprattutto per la canalizzazione precoce dei percorsi formativi, ritenuta in assoluto contrasto con la linea seguita dalla precedente “Riforma Berlinguer” che spostava nel tempo ( il termine del biennio superiore) il momento delle scelte. A molti sembrò di fare un salto nel passato, un ritorno all‟ideologia gentiliana. In realtà, proprio per prevenire le critiche, il legislatore si era sentito in dovere di ribadire, nel testo della Legge 53, la “pari dignità” dei due canali formativi. Inoltre, l‟immagine di un sistema formativo all‟apparenza così fortemente “rigido” veniva stemperato dal richiamo, costantemente sottolineato nella stessa Legge 53, alla possibilità di modificare il proprio percorso formativo, passando da un canale all‟altro, attraverso il sistema delle “passerelle”, attraverso cioè opportuni percorsi di accompagnamento didattico e ri-orientamento di cui le stesse scuole si sarebbero dovute fare carico. Bisogna comunque cercare di andare oltre il contingente, per cogliere gli aspetti più veri e più innovativi che ispirano la riforma; come fa notare M. G: Riva, “la questione del doppio canale rimanda alla dialettica tra istruzione e formazione, tra sapere e saper fare. L‟affermazione della pari dignità del canale dell‟istruzione e della formazione professionale contiene anche un richiamo alla dignità del fare, del sapere pratico e operativo contro le pretese egemoniche del sapere astratto.[…] Essa rimanda a una intenzione rivalutativa della dimensione operativa, prassica, concreta, della scuola “del fare” contro quella del solo “sapere”.73 L‟obiettivo è quello di moltiplicare le opportunità di scelta da offrire agli studenti quattordicenni, partendo dal presupposto che alla fine degli otto anni del primo ciclo i bisogni e le aspettative dei ragazzi e delle loro famiglie sono già sufficientemente delineate e che si rivela poco produttivo costringere gli studenti a restare in un unico percorso indifferenziato, come prevedeva la Riforma Berlinguer. Di contro, si intende garantire a tutti la possibilità di scegliere anche percorsi formativi professionalizzanti, che siano operativi, vicini all‟esperienza lavorativa e per questo più attrattivi e motivanti, nel tentativo di garantire a tutti la possibilità di permanere nel sistema formativo. La Riforma Moratti, dunque, nelle parole della Riva, si caratterizza proprio per “la presa d‟atto realistica di una situazione di fatto: le diversità esistono e se da una lato è illusorio immaginare che la scuola possa intervenire a modificarle, dall‟altro il nuovo modello di stato e di società impone che lo Stato non si faccia carico impropriamente di tutelare cittadini e famiglie socialmente

maggiorenni, imponendo scelte e uniformando in modo illegittimo e illibertario i percorsi e le opportunità”74. Certo, suscita sempre un certo fascino l‟idea, progressista ed utopica, di una scuola capace di svolgere una funzione egualitaria, di riallineamento delle opportunità, di tendenziale correzione degli squilibri sociali, di promozione e di garanzia di mobilità sociale, ma la possibilità per tutti di accedere a qualsiasi percorso di istruzione secondaria e di proseguire qualsiasi percorso universitario rimane “in gran parte una prospettiva utopica, sostanzialmente irrealizzata, per alcuni velleitaria”75. D‟altro canto, persino nello stesso art. 34 della Costituzione, in cui si fa riferimento al “diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi” si ribadisce che tale diritto riguarda i “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi”, non tutti, quindi. La diversificazione dei percorsi traduce in senso operativo il concetto di “personalizzazione” presente nella Riforma Moratti. Tutte le scelte didattiche e organizzative proposte dai decreti attuativi, le indicazioni nazionali, le circolari ministeriali, sorte a seguito della promulgazione della Legge 53, sono finalizzati a favorire la massima diversificazione dei percorsi formativi individuali, ossia la personalizzazione delle attività educative76 e dei Piani di Studio.

Dalla scuola “uguale per tutti”, cardine della pedagogia democratica, alla scuola “diversa per ciascuno”. E‟ questo il punto più importante del modello pedagogico che sostiene il disegno di riforma; esso nasce dalla combinazione di due tradizioni filosofiche antitetiche tra loro: il personalismo e l‟individualismo. Il corpus normativo della riforma si ispira al personalismo: “Il termine „persona‟ ricorre costantemente in tutti i documenti così come costante è il richiamo all‟obiettivo di personalizzare: piani di studio, obiettivi, unità di apprendimento, portfolio. Al contrario, nei documenti della riforma non appare mai il termine „individuo‟ o la prospettiva dell‟individualizzazione” 77. L‟impronta personalistica si deve al contributo di Giuseppe Bertagna, docente di Pedagogia all‟Università di Bergamo, il quale venne chiamato nel 2000 dal Ministro a presiedere una commissione di esperti allo scopo di definire la Riforma Moratti. Esiste, dunque, una sottile ma fondamentale differenza tra “personalizzazione” e “individualizzazione”, tale per cui solo la personalizzazione può “aprire, accrescere, liberare, moltiplicare l‟affermazione mai perfetta dell‟identità personale di ciascuno, l‟individualizzazione invece richiama più l‟atteggiamento dell‟uniformità, del dare a tutti le stesse cose. La personalizzazione è dare a ciascuno magari anche lo stesso, ma in modo proprio, che è unico e irripetibile al punto da trasformare lo stesso in cosa mia, tua, sua, ecc. in fondo a fare diverso pure lo stesso; l‟individualizzazione, invece, può legittimare, con il suo richiamo all‟individuo, il dare semplicemente a tutti lo stesso, facendolo diventare uguale e ripetibile”78. Il modello personalistico contrappone ad una scuola che svaluta i

74 Ivi, p. 39 75 Ivi, p. 40

76 Cfr. D.Lvo 59/04 art. 3, comma 2 77 Riva M. G., op. cit., p. 42

talenti e annulla ogni tensione meritocratica, una scuola che punta alla qualità, che concilia efficacia ed equità ed è in grado di corrispondere in maniera differenziata ai diversi bisogni e alle diverse domande di formazione, attraverso percorsi tanto diversi quanto diversi sono gli studenti, ma che abbiano pari dignità ed efficacia formativa.

Al ministro Moratti successe Giuseppe Fioroni, il quale non ritenne di abrogare la Riforma Moratti che non condivideva, in quanto non aveva né la coesione politica, né la forza parlamentare necessarie per sostituirla. Si limitò a modificarne o a neutralizzarne taluni aspetti; egli stesso espresse questa linea usando l‟immagine di ritocchi fatti con il “cacciavite”, per sottolineare la limitazione degli interventi. Egli rimase in carica circa due anni come membro del governo Prodi II (durato dal 17 maggio 2006 all‟8 maggio 2008) che, al Senato , risultava dotato di una ridottissima maggioranza, fatto che condizionò l‟attività della XV legislatura. Fioroni nominò una commissione ministeriale con l‟incarico di riscrivere le Indicazioni per il primo ciclo, le quali furono pubblicate nell‟agosto del 2007, presentandosi come un “documento di lavoro aperto” e rispettoso dell‟autonomia delle scuole (D.M. n. 68 del 31/07/2007 Nuove Indicazioni nazionali per la scuola dell‟infanzia e per il primo ciclo di istruzione) a cui fu data la possibilità di avviare una sperimentazione che sarebbe dovuta durare due anni, ma che, in seguito alla caduta del governo, durò poco meno di un anno. Tra i provvedimenti assunti vi fu l‟eliminazione della figura del tutor, fu modificata la composizione delle commissioni per gli esami di stato, reintroducendo la formula dei tre commissari esterni associati a tre commissari interni e ad un presidente esterno; e, con un successivo decreto legge (convertito nella legge n.40 del 2 aprile 2007, art. 13), si ripropose la funzione degli istituti tecnici e professionali come ordine di scuola facente parte non più del “secondo canale”, gestito dalle regioni, ma del sistema statale dell‟istruzione secondaria superiore. Infine, durante la gestione ministeriale di Fioroni venne reintrodotto nell‟ordinamento nazionale il biennio obbligatorio di istruzione fino a16 anni, rientrante nel più vasto diritto-dovere all‟istruzione ed alla formazione fino al compimento del 18° anno di età stabilito dalla Legge 53/2003.

Il ministro Gelmini ereditò una scuola ed un‟università cariche di problemi che si esprimevano in una vera e propria “emergenza educativa” a tutti i livelli, rivelata da ampi settori della società italiana e dagli stessi studenti e famiglie. L‟azione di governo dovette muoversi in un quadro di crisi economica a livello europeo e mondiale, crisi che impose anche in Italia una linea di politica economica basata sul contenimento e sui tagli alla spesa pubblica. I suoi provvedimenti si traducono nel contenimento di 10 mila cattedre (Legge Finanziaria del 2008), nella mancata assunzione dei giovani precari, nel ritorno al maestro unico con orario scolastico di 24 ore settimanali, nel ritorno al voto in decimi (e al voto in condotta che contribuisce alla media), in un maggiore rigore didattico e nel ritorno all‟educazione civica. Con il ministro Gelmini, la revisione degli ordinamenti del secondo ciclo, avviata con la riforma Moratti (Legge 53/2000 e D.Lgs 226/2005), e modificata da Fioroni con la Legge 40/2007, viene finalmente portata a compimento in

data 4 febbraio 2010 con l‟approvazione definitiva da parte del Consiglio dei Ministri dei tre regolamenti recanti la revisione dell‟assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali.

Nell‟ambito della Riforma Gelmini, i provvedimenti che maggiormente sconvolsero il mondo dei docenti, nel senso che apportarono nell‟organizzazione scolastica cambiamenti nuovi e tali da esasperare ancor più la condizione di precarietà e confusione in cui da tempo vivono, furono due: Il completamento delle 18 ore settimanali di tutte le cattedre della scuola secondaria di I e II grado, a seguito della riduzione della spesa produttiva e la reintroduzione del maestro unico nelle scuole primarie, con relativa limitazione del numero dei docenti e sfoltimento delle compresenze superflue. Per quanto riguarda il primo punto, occorre partire dal presupposto giusto e doveroso che in tempi di crisi economica e di revisione della spesa pubblica lo Stato non può più permettersi sprechi di qualsiasi natura. Tuttavia, è anche vero che non si può mettere in atto un‟ operazione di risparmio della spesa pubblica a danno della qualità del servizio. Prima della Riforma Gelmini c‟era la possibilità per le scuole di disporre di docenti di lettere, i quali avevano una cattedra orario che, per l‟organizzazione generale della scuola, consentiva la presenza di un limitato numero di ore cosiddette “a disposizione”, cioè non rientranti in attività di lezione frontali, e che solitamente venivano utilizzate dalla scuola per eventuali sostituzioni in caso di assenze improvvise di colleghi. Si trattava di ore preziose che potevano essere adoperate per qualsiasi evenienza, ma anche per realizzare attività in compresenza o progetti di recupero, in orario scolastico, rivolti ad alunni in particolari difficoltà. E‟ chiaro che con il nuovo ordinamento queste ore sono scomparse e con esse la possibilità di avvalersi di un organico „funzionale‟; ma quello che più ha leso il senso di dignità del docente è stato il fatto che, a fronte delle nuove disposizioni normative, i dirigenti sono stati costretti ad utilizzare gli insegnanti in maniera puramente strumentale, prestando attenzione esclusivamente alla rigida ricomposizione di un prospetto orario che deve necessariamente quadrare e che non può tener conto di altri fattori importanti, quali la continuità didattica, le caratteristiche socioculturali degli alunni o le competenze degli insegnanti. Tutto ciò ha comportato, tra l‟altro, l‟insorgenza di problemi concreti legati alla difficoltà di reperire dei sostituti in caso di assenze improvvise dei colleghi, problemi che, il più delle volte, costringono i docenti ad accettare, quasi obbligatoriamente, cambi di ore o ore eccedenti e soprattutto l‟idea che l‟organizzazione scolastica si riduca essenzialmente ad una questione di coperture numeriche o di necessità immediate.

Per quanto concerne il secondo punto, la reintroduzione del maestro unico, la questione è stata dibattuta ampiamente e all‟epoca sollevò una marea di polemiche e contrasti di natura politica e sociale. In molti si chiesero: perché il maestro unico?

Mi preme riportare il giudizio sostanzialmente positivo, riguardo alla questione, dato da Giuseppe Bertagna in un‟intervista rilasciata il 4 settembre del 2008 su “Il sussidiario.net” una rivista on line, in cui Bertagna mette in evidenza in primo luogo l‟idea assolutamente errata di pensare “a una

corrispondenza assoluta fra il maestro e la sua classe dal primo giorno di scuola fino alla fine”, laddove, “con l‟autonomia delle istituzioni scolastiche, la classe non è più l‟elemento organizzativo unico”, motivo per cui “le scuole se vogliono possono benissimo lavorare superando le rigidità della classi e anche prevedere momenti di superamento per livelli e per compiti diversi”79.

In secondo luogo, Bertagna evidenzia come “la reintroduzione del maestro unico, anche solo per il recupero della parola maestro, metta in luce il bisogno di testimonianza personale ed educativa che manca oggi nella scuola”. Nelle sue parole, il concetto di “emergenza educativa” si esplica in “emergenza di avere figure significative che incidano sulla crescita e sulla formazione delle persone”. Il recupero della figura del maestro unico diviene, dunque, secondo lui, necessario per garantire la presenza di “una figura che faccia da tutor ai ragazzi con continuità, non solo culturale ma anche educativa e personale, e che garantisca l‟unità organizzativa”.80

Naturalmente le critiche negative sulla reintroduzione del maestro unico furono di gran lunga superiori a quelle positive. Matteo Alfredo Bocchetti81 in un testo dal titolo “Perché non va il maestro unico”82 dimostra con rigore scientifico, da un lato, la validità educativa e formativa del lavoro di équipe e, dall‟altro, l‟inadeguatezza del maestro unico sia alle esigenze psicologiche e di vita dell‟alunno che alle istanze di una società moderna, aperta e dinamica. Tuttavia, il 29 ottobre 2008 il Senato approva definitivamente il decreto n.137 del 2008, che all‟art. 4 così recita “… le istituzioni scolastiche della scuola primaria costituiscono classi affidate a un unico insegnante e funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali. Nei regolamenti si tiene comunque conto delle esigenze, correlate alla domanda delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo- scuola”. L‟articolo è abbastanza chiaro, parla di maestro unico, di un tempo scuola di 24 ore e non prevede moduli.

Una critica forte venne persino dal Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione che, nella seduta del 12 febbraio 2009 espresse “viva preoccupazione sulle scelte operate che, se confermate, comportano […] una destrutturazione del sistema scolastico pubblico ed una netta riduzione quantitativa e qualitativa dell‟offerta formativa […] che con la sostituzione del precedente assetto di fatto interferisce con l‟autonomia delle istituzioni scolastiche […] che le opzioni a 27 o 30 ore settimanali risulteranno fortemente condizionate dall‟effettiva disponibilità di organico [….] che la soppressione delle ore di compresenza/contemporaneità è un peggioramento drastico dell‟offerta, della flessibilità organizzativa e induce a ricercare risorse compensative esterne all‟istituzione scolastica non sempre garantite”83.

79 Cfr. http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2008/9/4/Bertagna-con-il-maestro-unico-torna-al-centro-la-

questione-educativa/5146/

80 Ivi

81 Esperto in problematiche pedagogiche, aggiornatore e formatore, cura in particolar modo i settori della

programmazione didattica, dell‟insegnamento scientifico e dell‟apprendimento come ricerca.

82 Bocchetti M. A., Perché non va il maestro unico, Armando Editore, 2009 83 Ivi, p. 27

Bocchetti riporta anche un‟intervista di Mario Reggio a Frabboni tratta da “La Repubblica” in cui l‟illustre pedagogista così si esprime:

“Lo scenario che vedo all‟orizzonte è il seguente: nella scuola pubblica con il maestro unico a 24 ore nella maggioranza delle classi, il tempo pieno diventerà il centro di raccolta dei ragazzi che hanno problemi, quindi richiedono due insegnanti. Un po‟ come succede negli Stati Uniti, dove la scuola pubblica assorbe le fasce povere della popolazione… se il progetto andrà in porto, a guadagnare saranno le scuole cattoliche, ma non solo. Anche le private accessibili alla media borghesia e quelle di élite, che potranno rispondere alle giuste esigenze delle famiglie, ma solo di quelle che dispongono di un ricco portafoglio. E togliere ossigeno alla scuola elementare pubblica, a mio avviso, ha proprio questo obiettivo”84.

E Benedetto Vertecchi, in un articolo apparso su “L‟espresso” il 6 settembre 2008, dice:

“[…] è una vera patacca ad uso e consumo dell‟opinione pubblica, una pura propaganda. Quando tenteranno di farlo si accorgeranno che anziché degli attuali tre, i maestri diventeranno cinque… il maestro unico dovrebbe essere competente ed in grado di insegnare la lingua italiana, le norme sul traffico, la salute, la matematica, le scienze, la geografia, e chi lo dice sarebbe un ciarlatano. Allora dovranno trovare altri maestri che siano in grado di insegnare la lingua straniera, la musica, la ginnastica e coprire l‟ora di religione. In tutti i paesi moderni esiste un sistema di presenze multiple di insegnamenti, perché a differenza di 30 o 40 anni fa la società è mutata e le conoscenze si sono moltiplicate. Leggere, scrivere e far di conto non basta più” 85.

La reintroduzione del maestro unico viene vista quindi come una misura che inverte la tendenza che si era affermata negli ultimi anni, secondo cui in un contesto di molteplicità dei saperi, la pluralità di maestri e il lavoro di èquipe possono garantire maggiore apprendimento per i bambini. A livello organizzativo non si può negare, comunque, l‟esistenza di seri problemi per le scuole che praticano il tempo pieno, impegnando ed utilizzando gli insegnanti anche nelle mense per il controllo degli alunni; si pensi a quanto potrebbe essere problematico utilizzare un unico insegnante per coprire tutto l'arco della giornata scolastica. Inoltre le materie, oggetto di studio nella scuola primaria, sono molteplici e richiedono, per un miglior insegnamento ed apprendimento, specializzazioni, come per l'inglese, l'informatica, l‟educazione civica, ambientale e stradale, che sono assolutamente indispensabili ai giorni nostri; l'insegnante unico, non avendo una preparazione adeguata, potrebbe appiattire il livello didattico e culturale.

84 Ivi, p. 23 85 Ibidem

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