Giovanna Mochi, curatrice della particolarissima edizione italiana di The Whole Family, lo sintetizza in maniera efficace:
Un grande romanzo? Probabilmente no, se lo si affronta con le aspettative che almeno tre secoli di «arte del romanzo» ci hanno insegnato a coltivare – aspettative di coerenza, di unità e compattezza di una forma, quale che sia, compiuta e autosufficiente.70
Con le aspettative dell’«arte del romanzo» lo giudicò ad esempio il New York Times dell’epoca che vide in The Whole Family nulla più di «a comedy of confusion»71 o, decenni più tardi, Laura Brady che giunse a parlare di una
«Whole Family Fallacy»72 per indicare gli inevitabili fallimenti di una
scrittura collettiva che non contempla la condivisione dell’ideazione e della composizione e privilegia invece una separazione meccanica. Probabilmente, con le stesse aspettative dell’«arte del romanzo» lo dovettero giudicare molti dei suoi stessi scrittori, non proprio entusiasti di quanto stava accadendo nella “loro” famiglia. John Kendrick Bangs al principio del suo capitolo:
On the whole I am glad our family is no larger than it is. It is a very excellent family as families go, but the infinite capacity of each individual in it for making trouble, and adding complications already sufficiently complex, surpasses anything that has ever before come into my personal or professional experience.73
E il giudizio finale del The Friend of The Family di Henry Van Dyke fa eco a queste parole aggiungendovi anche un po’ di malizia:
It was all extremely complicated and unnecessary […] Everything has turned out just as it should, like a romance in an old-fashioned ladies’ magazine.74
70 G. Mochi, “Grandi Famiglie”, La grande Famiglia, Venezia, Marsilio, 2014, p.10.
Particolarissima l’edizione italiana del romanzo perché, sulla scorta della scrittura originale, la traduzione è stata affidata a dodici persone diverse: un traduttore per ciascun capitolo.
71 Citato in J. Howard, Publishing the Family, cit., p.54.
72 L. Brady, “Collaboration as Conversation: Literary Cases”, cit., p.303. 73 The Whole Family, cit., p.57.
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Metaletteratura, ovviamente. Del resto si è già osservato come all’interno del testo non manchino rimandi ai capitoli precedenti, alle loro scelte di trama, di stile e quindi ai loro stessi scrittori. Far intravedere la natura letteraria di ciò che si stava scrivendo era una maniera per discutere con i propri colleghi e con il loro operato e spesso polemizzarvi. Nei due estratti sopra riportati, tanto Bangs quanto Van Dyke manifestano infatti il fastidio dello scrittore individuale nell’avere a che fare con la collettività e con le sue decisioni. Le ultime parole con cui si chiude il romanzo, scritte sempre da Van Dyke, sono emblematiche:
Your father and mother are going to lunch with me at Delmonico’s – but we don’t want the whole family.75
«We don’t want the whole family» perché, si potrebbe completare uscendo dalla storia, la «whole family» ha prodotto un romanzo incerto, ricco di polemiche e quasi sicuramente inferiore a come sarebbe stato se fosse stato scritto da un singolo. Eppure ha prodotto un romanzo.
Quando Henry James partecipa a The Whole Family è anche impegnato nel progetto di revisione della propria opera che sfocerà nella New York Edition che, come noto, è una collected edition dei suoi romanzi ma anche una riflessione sulla forma del romanzo, sulla sua capacità di includere tutto:
As I read over what I have written the aspects of our situation multiply so in fact that I note again how one has only to look at any human thing very straight […] to see it shine out in many aspects as the hues of a prism; or place itself, in other words, in relations that positively stop nowhere.76
Pensieri e stile tipicamente jamesiani. Queste parole non provengono però da una delle famose prefazioni della suddetta New York Edition. Sono invece le parole che Charles Edward, il personaggio di James in The Whole Family, pronuncia ripensando all’intera vicenda. Diverse voci che moltiplicano la storia e la rendono difficoltosa da vedere e raccontare: relazioni infinite, infinite rifrazioni, come si fa a rappresentarle? Che ne è del soggetto – continua a chiedersi Charles Edward – di fronte alla sensazione che tutto sia parte di qualcos’altro? Come si fa a scrivere di una realtà così vasta? «Stopping, that’s art», gli risponde la moglie. Fermarsi, questa è l’arte.
75 Ivi, p. 139, corsivo mio.
76 Ivi, p. 75. A proposito dell’interesse “teorico” di James per il progetto di The Whole Family
cfr. S. Ashton, Collaborators in Literary America. 1870-1920, cit., p.163, dove viene peraltro sottolineata la somiglianza delle parole di Charles Edward con la prefazione di James al suo
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E benché quasi mai contenti o soddisfatti di farlo, gli scrittori di The Whole Family si fermano davvero, devono fermarsi al proprio capitolo per lasciare spazio agli altri e far sì che il romanzo contenga le voci di tutti.
«I am large – I contain multitudes», scrive Walt Whitman in una delle poesie simbolo dell’identità americana. E, in un certo qual modo, The Whole Family era proprio un testo che si proponeva di «contenere moltitudini»: dodici scrittori diversissimi per stili, idee, età, alle prese con uno romanzo “serio” e, all’interno del romanzo, con questioni scottanti come il ruolo della donna nella società, lo stato della famiglia borghese, l’educazione scolastica. Inevitabilmente, per includere tutti, The Whole Family avrebbe allora dovuto mostrare differenze e contrasti sia nella storia esterna al romanzo, tra le lettere e i ricordi degli scrittori coinvolti, sia soprattutto nella storia del romanzo, tra le parole e i pensieri dei suoi personaggi. Tutto ciò può apparire – come in effetti apparve – un difetto ma al contempo consentì di avere un romanzo a staffetta che contenesse una molteplicità di voci e visioni in grado di raccontare una storia, benché non priva di molte contraddizioni. «Do I contradict myself? / Very well, then I contradict myself/ (I am large, I contain multitudes)».