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Textopia, [murmur] e la “locative literature”

Attivando sulla mappa di Mr. Beller’s Neighborhood la funzione street view di Google Maps, è possibile muoversi con una visuale in prima persona. Si può così camminare per le strade di New York e imbattersi, accanto a un taxi o a un grattacielo, in un puntino rosso che indica una storia ambientata in quello scorcio di città. In teoria, è uno dei modi più affascinanti di esplorare il sito ma, nella pratica, è anche un modo assai “macchinoso” e perciò poco adoperato: muoversi attraverso la street view richiede un caricamento della pagina pressoché continuo e la ricerca delle storie risulta lenta e poca pratica. Ci sono però dei progetti narrativi collettivi che

81 http://mrbellersneighborhood.com/what 82http://mrbellersneighborhood.com/what

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bypassano questo problema trasportando, per così dire, la ricerca dei “puntini rossi” nella città reale, laddove questioni di caricamento e consumo dei dati non costituiscono un problema. Fuor di metafora, questi progetti rendono disponibili le storie di una città non su una mappa – cartacea o digitale che sia – ma nei luoghi fisici in cui avvengono e sono localizzate. Si tratta di una pratica che ormai si è soliti definire locative literature83 e di cui

Anders Sundnes Løvlie, con il progetto Textopia, offre un notevole esempio adeguato alla tecnologia contemporanea:

Locative media, such as mobile applications which allow for texts to be geotagged to physical places in the world, make it possible to create locative literature: Texts which can be browsed by literally walking through them. Imagine that you are walking through the city you live in, on streets that you have passed a hundred times, but in your headphones you are bombarded with texts – stories, poems, little drama pieces – which all take place in the street that you are walking down, portraying the street in an ever new light, bringing out all the possible and impossible lives that have been touched by this very space.84

Lanciato nel 2008 ad Oslo e per le strade di Oslo, Textopia si basava su un sito wiki nel quale erano raccolti testi letterari riguardanti dei luoghi della città, alcuni estratti da testi classici ormai di pubblico dominio, altri invece nuovi e componibili da chiunque. Il sistema di Textopia si costituiva poi di un’applicazione per dispositivi mobili che, a seconda della posizione registrata dal cellulare, trovava il testo “del luogo” e lo riproduceva in forma orale. Come evidente, l’idea in sé ricorda molto il funzionamento delle audio-guide disponibili in musei e siti storici, con una differenza però fondamentale: quelli di Textopia non erano testi esplicativi o didattici bensì letterari e, soprattutto, frutto delle mani di diversi cittadini di Oslo.

Sin dal suo esordio, Textopia cercò infatti di ottenere la partecipazione del maggior numero di persone possibili. Nel 2008, al suo pubblico battesimo, propose un concorso che invitava chiunque a caricare un proprio locative text sul data base del sito wiki dal quale una giuria avrebbe poi scelto un vincitore. Nel 2010, spostatosi su una piattaforma blog sul modello di Wordpress, Textopia propose invece un gioco, «the flâneur game», che

83 Uno degli studi fondamentali del settore è Mobile Interface Theory: Embodied Space and

Locative Media (2011) di Jason Farman. Nel suo studio, pur sottolineando quanto molto

abbiano da offrire le nuove tecnologie, Farman è però restio a celebrare la locative literature come un nuovo genere. Di fatto, da quando la parola scritta si è combinata con supporti trasportabili (il papiro, la pergamena…), una letteratura “sul” luogo è sempre stata possibile.

84 A. S. Løvlie, “Flâneur, a Walkthrough: Locative Literature as Participation and Play” in S.

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regolamentava la scrittura e la partecipazione collettiva: i locative texts avrebbero dovuto essere composti a partire da frammenti testuali sparsi nella città (segnali, manifesti, pubblicità, graffiti…) e potevano essere giudicati solo dagli altri partecipanti. L’obiettivo era la costituzione di una solida e ampia comunità di locative literature che però non si concretizzò. I testi caricati dai cittadini di Oslo non superarono le poche decine e la loro partecipazione non andò oltre il singolo momento del concorso o del gioco. Terminata la competizione e l’esibizione, la gente non proseguì la sua attività di locative writing. Di fatto, Textopia non riuscì a formare grandi e duraturi gruppi di scrittura e sorte migliore non sembra avere avuto il suo sito wiki esteso su scala globale. Al netto del suo motto accattivante – “Textopia: the world is full of good stories” –, il planisfero correlato mostra infatti ben poche storie distribuite in ben poche città.

Qualche anno prima, nel 2003, un altro progetto aveva ugualmente cercato la partecipazione attiva di una cittadinanza per tentare di raccontare l’ambiente urbano da una prospettiva geo-fisica. Dopo aver raccolto oralmente decine di racconti e ricordi degli abitanti di Toronto, il progetto [murmur] li caricò online sul suo sito, disponendoli su una mappa, ma anche per le strade della stessa città. La presenza di un testo in un determinato luogo di Toronta era segnalata da un apposito cartello – un orecchio stilizzato – di modo che chiunque passasse di là e fosse interessato, poteva ascoltarlo attraverso il proprio cellulare. [murmur] fu poi replicato in altre città e, più in generale, sono molti i progetti di questo tipo che hanno visto la luce negli ultimi anni grazie alla grande diffusione delle tecnologie di geo- localizzazione. Le regole e gli obiettivi possono differire da caso in caso – in [murmur] sembra predominante il carattere documentario, in Textopia quello artistico-letteriario – ma, in comune, vi è l’irruzione dei testi nello spazio urbano e forse anche il contrario. In effetti, nella locative literature combinata con gli attuali sistemi di telecomunicazione, lo spazio cittadino rappresenta sia l’opera collettiva che i partecipanti sono chiamati a costituire sia, in un certo senso, il suo autore collettivo. Da Textopia e il suo flâneur game:

Velkomme! Velkomm Grønland, her er det noen for enhver, her er det tilfluktsrom til venner. Can I feel welcome here? Yes! ja! da! oui! sim! Yes! Her er det lett å spille! Lett å vinne! Her er det vilt & vakkert. Her er det Bistro du Paris. Her er det Italia. Hilsen Oslo kommune. Er nå på Facebook.85

Il testo, evidentemente multilinguistico, è costituito da parole e frasi che si possono leggere, in varie forme e supporti, nel quartiere multilinguistico di

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Grønland a Oslo. È dunque il quartiere di Grønland a parlare in questo testo, a dettare e determinare ciò che si dice. L’esempio è estremo perché il flâneur game richiedeva di adoperare parole tratte dai «raw materials that are found in the urban environment»86 ma non è certo un esempio estraneo alla locative

literature e al racconto collettivo di un ambiente urbano. Chi è infatti che “parla” nelle descrizioni collettive di Seattle o in quelle di New York che si trovano in Invisible Seattle e Reena Spaulings? I loro abitanti o lo spazio stesso? E quanto, per esempio, la storia di un amore iniziato a Central Park presente sulla mappa di Mr. Beller’s Neighborhood deve alla mano di chi l’ha scritta e quanto al mito del posto come luogo di incontri casuali e destinali?

Un certo cortocircuito tra la voce umana e quella spaziale è una costante di tutti i testi, collettivi e non, che raccontano un luogo. Nel momento in cui però le storie prendono ad apparire realmente nei luoghi, il ruolo attivo dello spazio incrementa in modo esponenziale. Nella locative literature si assiste infatti a uno slittamento dall’idea di una comunità chiamata a raccontare delle storie su dei luoghi a una comunità chiamata a pensare a delle storie che possano essere raccontate dai luoghi. Quale collettività finisca poi col raccontare l’altra, se quella umana quella spaziale o viceversa, non sempre appare chiaro ma, probabilmente, questa indeterminatezza è esattamente il fascino ricercato da una certa collective locative literature.

“Netprov”

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