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La relazione tra fratelli come elemento di resilienza

Parole chiave: Fratria, Terapia Familiare, Re- lazione, Sottosistemi, Resilienza

Tanti sono i contributi alla ricerca riguardante gli elementi protettivi per la salute psichica di una per- sona, raramente viene considerata la relazione tra fra- telli all’interno del ventaglio di tali elementi.

Avere una relazione d’attaccamento sicura con le proprie figure di riferimento sembra essere l’unica protezione degna di nota, viceversa il tema del lega- me tra fratelli è spesso considerato solo all’interno del campo della competizione, del rifiuto e del con- flitto.

Propongo di considerare la qualità e il valore del- la relazione d’attaccamento tra fratelli come fonda- mentale elemento del benessere psico-sociale di una persona.

Avere un fratello è una realtà tanto vicina e quo- tidiana, quanto ambigua e diversificata. Ci capita di vedere situazioni di fratelli tanto uniti, tanto simili, come situazioni di fratelli tanto litigiosi e opposti. Quali sono gli elementi che conducono verso l’uno a l’altro destino?

La fratria ha preso piede non solo nelle ricerche tecniche ma anche nella cultura di massa, rappresen- tata per esempio dalla filmografia degli ultimi tempi come Mio fratello è figlio unico (2007), Brothers (2009), Tutta colpa di Freud (2014), Indivisibili (2016) solo per citarne alcuni. Che si debba gestire l’azienda di famiglia o la lontananza per la guerra, la ricerca del partner o un corpo condiviso la presen- za dei fratelli diventa il vero protagonista di queste

pellicole. Anche la Disney, con il film di animazio- ne Frozen (2013), ha contribuito ad abbandonare finalmente l’accento sulla relazione di coppia (per la verità già con Ribelle (2012) o Rapunzel (2010), centrati sulla relazione madre/figlia) per evidenziare la relazione tra due sorelle, la loro diversità, i loro punti di forza e debolezza e per sottolineare come insieme si possano superare anche gli ostacoli che si credono insormontabili. Nella storia solo un atto di “vero amore” può sciogliere i cuori e rendere mag- giormente padroni delle proprie scelte, di vero amo- re fraterno.

I fratelli sono i testimoni dei legami familiari, la loro relazione è la più lunga di quella con qualsi- asi altro membro della famiglia, spesso sopravvive ai genitori e alle vicende relazionali personali. Si parla a tal proposito di “sottosistema della fratria”, importante perché all’interno della famiglia ma con una relativa autonomia rispetto al sistema parentale. I legami tra fratelli, secondo Andolfi, “mantengono nel corso del tempo una loro precisa configurazio- ne autonoma pur nell’evoluzione dell’intero sistema familiare e della storia personale” (Andolfi, 2003).

Inoltre presentano, accanto alla quota di vita con- divisa, una quota di vita autonoma, fornendo dunque non solo una propria differente interpretazione della storia nota e comune ma anche elementi nuovi, per- sonali, identitari.

E’ intuitivo come tutto questo patrimonio possa essere utilizzato in un setting terapeutico familiare nel quale le differenze sono una ricchezza per la co- struzione di letture alternative a quelle che la fami- glia porta in seduta. Solo attraverso questa strada è possibile rimettere in movimento il ciclo vitale della famiglia stessa. E’ una relazione a metà tra il fami- liare e l’amicale.

La relazione tra fratelli come elemento

di resilienza

Alessandra Monno

Minuchin sostiene che: “La relazione tra fratelli costituisce il primo laboratorio sociale in cui i figli possono cimentarsi nelle loro relazioni tra coetanei. In questo contesto i figli si appoggiano, si isolano, si accusano reciprocamente ed imparano a negoziare, a cooperare, a competere” (Minuchin, 1976).

Coloro che hanno fratelli sono da subito lancia- ti nelle normali dinamiche del mondo reale, dove si deve continuamente mediare il proprio punto di vista con quello degli altri e costruire compromessi funzionali, ma anche difendersi dalle angherie e far valere le proprie ragioni. Si impara a gestire il non sentirsi unici, come accadrà nel gruppo classe o nel gruppo di amici, ma comunque sentendosi importan- ti e amati.

Genitori che mediano ogni aspetto della relazio- ne tra fratelli non permettono tale laboratorio socia- le, errori come dare a prescindere ragione a uno o all’altro solo perché maschio o femmina, piccolo o grande, e così via o trovare sempre per loro soluzioni agli ostacoli e ai litigi non è utile alla loro crescita ed autonomia relazionale.

“La relazione fraterna permette di mediare rispet- to ai genitori e all’esterno, regolarizza le emozioni come l’odio o l’entusiasmo e li rielabora, funge da controllo reciproco sia in senso normativo che emo- tivo, agevola processi di identificazione e sviluppo, promuove il sostegno reciproco mediante meccani- smi di attaccamento, accudimento e aiuto, permette la sperimentazione di intimità, complicità e affettivi- tà tra pari” (Bank e Kahn, 1975).

La mia tesi quindi è che la relazione di fratria può e deve essere protettiva anche all’interno di una re- lazione con i genitori e tra i genitori disfunzionale, e che la terapia individuale e familiare deve avere un momento dedicato a tale relazione, promuovendone lo sviluppo e il miglioramento.

Ma, come precedentemente accennato, torniamo a domandarci: quali aspetti possiamo annoverare af- finché tale relazione vada su un versante funzionale piuttosto che su uno patologico?

Un primo elemento che pesa sulla costruzione sana o disfunzionale della fratria è la capacità di differenziazione della famiglia, ovvero la capacità dei genitori di costruire un rapporto unico e origi- nale con ciascuno dei figli, rispettando la loro età, i loro interessi, il loro temperamento e così via. Tale rapporto unico e speciale permette a ciascun figlio di sentirsi amato e accettato per quello che è, di co- noscersi meglio ed entrare in relazione coi genitori senza doversi contendere con l’altro fratello il loro

amore. Ciò a sua volta, permette a quel figlio di en- trare in relazione con l’altro con lo stesso interesse e rispetto che ha sperimentato perché utilizzato nei suoi confronti.

Un secondo elemento è il ruolo e l’identità che ciascun figlio acquisisce all’interno della sua fami- glia. “Nella maggior parte delle famiglie un solo soggetto può occupare un certo spazio psicologico in un determinato periodo di tempo” (Bank, Kahn, 1982). Ciò vuol dire che il primo figlio acquisisce come un diritto di prelazione su una determinata posizione funzionale, che di solito non potrà essere occupata da un fratello successivo se il primo non l’avrà lasciata libera.

Secondo Andolfi nelle famiglie normali questi ruoli vengono definiti da aspettative dei genitori, temperamento, esperienza della gravidanza (“mi ha dato da subito fastidio” vs “è stato bravo fin da dentro la pancia”), somiglianze o identificazioni genitori/fi- gli (non solo fisiche ma anche emotivo/caratteriali), ma si tratta di ruoli modificabili e flessibili. Vicever- sa, nelle famiglie rigide e patologiche tali funzioni diventano stabili e strutturano il figlio capro espiato- rio/ paziente designato o viceversa il figlio inviante prestigioso (Selvini Palazzoli). Ciò inevitabilmente porterà i figli a conoscersi poco, a sperimentare poco altre forme di sé, a sentirsi unicamente in quel ruolo e ad entrare in relazione con i genitori e con i fratelli per quell’unica caratteristica (l’onesto vs il bugiardo, il buono vs il furbo, il genio vs lo stupido, il malato vs il sano, ...) e finirà per condizionare la relazione di fratria per anni (Andolfi, 2003).

Spesso in terapia si sente parlare di caratteri di- versi, addirittura opposti e soprattutto in tenera età questa diventa una sorta di profezia che si autoav- vera: il figlio è etichettato come X, si sentirà X e si comporterà come X, mentre un altro sarà sempre Y, si sentirà e comporterà Y. Se mai al figlio “Y” viene in mente di fare X tale comportamento verrà com- mentato con un riduttivo “stai diventando come tuo fratello!”, come se uno fosse per forza X o Y e non fosse libero di essere X e Y!

Un terzo elemento è quello che Bank e Kahn defi- niscono come il «livello di accesso» ad eventi di vita comuni, ovvero “ad una storia condivisa sul piano delle frequentazioni scolastiche, amicali e quello dei genitori. [...] I fratelli che hanno condiviso molto del- la loro storia sono dunque caratterizzati da un intenso legame affettivo il quale può essere presente anche per altri motivi, come ad esempio un›insufficiente presenza dei genitori. In questi casi si sviluppa tra

fratelli una profonda lealtà. Laddove tale lealtà sia reciproca essa sarà caratterizzata dalla presenza di un codice speciale, privato comprensibile principal- mente ad essi; un linguaggio che li distingue da altri parenti e amici”.

Gli autori sottolineano, viceversa, alcune caratte- ristiche di un “basso livello d’accesso” tra fratelli: “sono spesso separati da una differenza di età di più di 8 - 10 anni, e quindi agiscono quasi come mem- bri di generazioni differenti; hanno condiviso poco tempo, spazio o storia personale, hanno frequentato scuole, amici ed anche genitori “diversi” (i genitori sono diversi a differenti età); mancano, almeno in parte, della consapevolezza di una storia condivisa; spesso non hanno avuto bisogno l’uno dell’altro” (Bank e Kahn, 1982).

Altre volte, invece, saranno la rigidità genitoriale o la triangolazione di un genitore su un fratello gli elementi che portano i fratelli ad allontanarsi, a non sentirsi di sostegno l›un l›altro. E› il caso di fratelli paragonati e messi a confronto, oppure di un fratello genitorializzato che fornisce sostegno a senso uni- co, senza ricevere cioè a sua volta calore e supporto. “Ci sono tre differenze significative di questo tipo di relazione: 1) il “caretaker” dà senza avere niente in cambio, 2) il suo ruolo e la sua identità sono rigidi e chiusi, 3) il calore nello scambio che caratterizza i gruppi in cui c’è fratellanza reciproca qui è relativa- mente carente. Una mancanza che ha effetti negativi di lunga durata sia su chi dà che su chi riceve” (De Bernart, 1992).

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