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VIOLA 1CMORO 1C

Progetto di prevenzione e contrasto ai Disturbi del Comportamento Alimentare, rivolto a genitori, insegnanti, studenti, della scuola secondaria di primo grado

VIOLA 1CMORO 1C

MORO 1B

pUNteGGio staNdaRd 74,79 75,84 75,82 75,91 87,86 76,19 467,62 CLassiFiCaZioNe NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media pUNteGGio CLasse 75,05 75,57 69,14 72,38 87,62 74,24 454,00 CLassiFiCaZioNe NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media

GeNeRaLe iNteRpeRsoNaLe CoMpeNteNZa eMoZioNaLe sCoLastiCa FaMiLiaRe CoRpoRea

75,05 75,57 69,14 72,38 87,62 74,24 0,00 10,00 20,00 30,00 40,00 50,00 60,00 70,00 80,00 90,00 100,00

INTERPERSONALE COMPENTENZA EMOZIONALE SCOLASTICA FAMILIARE CORPOREA Punteggio della classe

75,05 75,57 69,14 72,38 87,62 74,24 0,00 10,00 20,00 30,00 40,00 50,00 60,00 70,00 80,00 90,00 100,00

INTERPERSONALE COMPENTENZA EMOZIONALE SCOLASTICA FAMILIARE CORPOREA Punteggio della classe

Conclusioni

La partecipazione degli studenti è cresciuta nel corso dell’esperienza. Inoltre questi momenti di confronto extracurriculari hanno visto un coin- volgimento progressivo anche in quegli alunni portatori di difficoltà varie ai quali è stata offerta la possibilità di trovare uno spazio di esperien- za e sperimentare modalità comportamentali più adattive che hanno come logica conseguenza una maggiore interpretazione da parte del gruppo dei pari. L’attenzione attraverso la visione sulla LIM dei risultati del questionario è stata maggiormente stimolata rispetto al precedente progetto che non lo prevedeva. La conoscenza del gruppo classe da parte degli insegnanti che hanno seguito il pro- getto è migliorata e sono emerse imprevedibili risorse personali degli alunni. La socializzazio- ne all’interno del gruppo dei pari è diventata più empatica, inclusiva e solidale. I pattern comuni- cativi, comportamentali e di coping messi in atto verso la fine del progetto risultano più variati e maggiormente utilizzati. Lo stile comunicativo, in prevalenza passivo e/o aggressivo, caratteristico di questa fascia di età, si è spostato verso un atteg- giamento mentale proattivo, tendente cioè alla ri- soluzione delle situazioni che provocano disagio, e ad una modalità più assertiva ed espressiva. Bibliografia

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VIOLA 1D

pUNteGGio staNdaRd 74,79 75,84 75,82 75,91 87,86 76,19 467,62 CLassiFiCaZioNe NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media pUNteGGio CLasse 72,25 73,06 66,81 70,69 89,69 73,06 445,56 CLassiFiCaZioNe NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media NeLLa Media

GeNeRaLe iNteRpeRsoNaLe CoMpeNteNZa eMoZioNaLe sCoLastiCa FaMiLiaRe CoRpoRea

72,25 73,06 66,81 70,69 89,69 73,06 0,00 10,00 20,00 30,00 40,00 50,00 60,00 70,00 80,00 90,00 100,00

INTERPERSONALE COMPENTENZA EMOZIONALE SCOLASTICA FAMILIARE CORPOREA Punteggio della classe

72,25 73,06 66,81 70,69 89,69 73,06 0,00 10,00 20,00 30,00 40,00 50,00 60,00 70,00 80,00 90,00 100,00

INTERPERSONALE COMPENTENZA EMOZIONALE SCOLASTICA FAMILIARE CORPOREA Punteggio della classe

Riassunto

I comportamenti prosociali si costruiscono attraverso l’apprendimento, ma se carenti, possono essere in- segnati attraverso metodo- logie specifiche.

Un training di insegna- mento delle abilità sociali deve passare attraverso processi di apprendimento da generalizzare agli am- bienti di vita per favorire l’integrazione (Peterson et

al., 2006; Gresham et al., 2006; Maison et al., 1999).

Obiettivi:

Esprimere se stessi senza occupare gli spazi altrui; Ridurre i comportamenti inadeguati;

Sviluppare l’autoregolazione; Favorire i comportamenti funzionali;

Generalizzare gli apprendimenti a diversi contesti.

Fasi:

Formazione di operatori e famiglie;

Baseline effettuata con scale di misurazione Q.I., scala

“VABS” (Vineland Adaptive Behaviour Scale), osser- vazione clinica e colloqui mirati all’individuazione di abilità sociali potenziabili;

Applicazione di tecniche cognitivo-comportamentali:

modeling, feedback, token economy e generalizzazione; Home-work da effettuarsi nei contesti di vita;

Incontri di verifica e feedback in presenza delle fami- glie, per favorire la trasferibilità dell’apprendimento; Realizzazione di attività per sperimentare in altri conte- sti le abilità apprese.

Tempi:

Il training, svoltosi in un Servizio di Riabilitazione del- la ASL, è stato articolato in due sedute settimanali per la durata di dodici mesi.

Risultati:

Registrazione di cambia- menti in pazienti e famiglie e partecipazione di altri ca- regiver alle sedute, così da poter acquisire capacità di supporto.

Nei follow-up a sei e dodici mesi, risomministrazione dei test con rilevazione dei cambiamenti favoriti dal training: autocontrollo, apprendimento di compor- tamenti adeguati, comuni- cazione e ascolto di emozioni e di bisogni ed esigenze proprie e altrui, cooperazione, respite-care nelle figure di accudimento.

Conclusioni:

I risultati del lavoro di ricerca confermano i dati della letteratura, i quali sottolineano l’esistenza, nel processo evolutivo, di interazioni tra ambiente e individuo. L’intervento riabilitativo, quindi, non può seguire un approccio settoriale, ma deve essere di tipo olistico ed è fondamentale la presa in carico globale.

Parole chiave: abilità sociali, disabilità intel- lettiva, disturbi comportamentali, apprendimento, riabilitazione.

Introduzione

Le competenze sociali in una persona descrivo- no un atteggiamento improntato a responsabilità e fiducia in sé e negli altri che porta ad affermare i propri diritti, senza negare quelli altrui. È l’e- spressione diretta della capacità di comunicare desideri, intenzioni e giudizi, evitando ogni forma

Applicabilità ed Efficacia di un Training di Abilità

Sociali in soggetti con disabilità intellettiva e

disturbi comportamentali: una ricerca-azione

Giovanna Teresa Pontiggia*, Ilaria Gallicchio**, Laura Prospero***

*Dirigente Psicologo-Psicoterapeuta ASL/BA, Segretario Ordine Psicologi Regione Puglia, Professore a contrat- to Università degli Studi di Bari e Istituto Skinner/Università Europea di Roma

**Psicologa, Esperta in Neuropsicologia clinica, Specializzanda in Psicoterapia cognitivo-comportamentale a indirizzo neuropsicologico

di aggressività e minaccia.

Significativa appare l’interpretazione operati- va che ne danno Kazdin e collaboratori (1983), i quali definiscono l’assertività come un repertorio di comportamenti verbali e non verbali, acquisiti attraverso l’apprendimento, per mezzo del quale un individuo ricerca risposte di altri in contesti interpersonali. Questo repertorio agisce come un meccanismo che permette al soggetto di influen- zare il proprio ambiente ottenendo risultati desi- derabili, oppure rimuovendo o evitando risultati indesiderabili. Il livello di capacità di ottenere tali risultati, senza infliggere sofferenza o calpestare gli altri, descrive il limite entro il quale egli può essere considerato socialmente abile o assertivo.

Volendo andare più in profondità nella defi- nizione, dobbiamo chiederci quali sono le com- petenze che concorrono a delineare una persona come assertiva. A questo proposito, insieme a Meazzini, Cottini ha elaborato una sorta di identi- kit della persona socialmente abile, descrivendola come capace di (Meazzini & Cottini, 1995; Cotti- ni & Meazzini, 2003):

comportarsi adeguatamente nell’ambiente; • gestire le relazioni interpersonali; • considerare positivamente se stesso; • atteggiarsi adeguatamente davanti agli altri. I soggetti con disabilità manifestano carenze nei repertori di abilità indicati e questo condi- ziona pesantemente sia le possibilità di controllo dei comportamenti inadeguati, sia l’adozione di atteggiamenti positivi nelle situazioni di appren- dimento, sia le prospettive di interazione nel con- testo sociale (Gresham, 1991; Waterhouse, 2002). Infatti, di fronte a situazioni che determinano ansia o frustrazione, la persona evita di adottare soluzioni comportamentali scorrette, facendo rife-

rimento al proprio bagaglio di abilità sociali. Allo stesso modo, la motivazione e la perseve- ranza manifestate davanti ai compiti, soprattutto se questi sono avvertiti come complessi, dipendo- no fortemente da una positiva considerazione di se stessi. Anche la possibilità di vivere adeguata- mente nel contesto sociale, adottando all’interno dello stesso relazioni positive, poggia fortemente sul possesso di quelle abilità che concorrono a de- finire l’ambito dell’assertività.

Diverse ricerche hanno dimostrato come bam- bini con differenti disabilità (intellettiva, d’ap- prendimento o altro) non entrino in relazione in modo spontaneo con i propri coetanei (ad esempio Bryan, 1978; Bruininks, 1978).

Questi studi riportano che tali bambini non apprendono per modellamento e osservazione le abilità sociali (come normalmente avviene), salvo che non siano istruiti ed allenati a farlo. Secondo Gresham (1981) è necessario intervenire in questi casi utilizzando alcune tecniche efficaci in ambi- to educativo: il controllo degli antecedenti e delle conseguenze, il modellamento e le tecniche cogni- tive comportamentali. Secondo l’autore, i soggetti con disabilità hanno particolare difficoltà nello sfruttare gli stimoli ambientali non strutturati per iniziare un’interazione e apprendere come intera- gire con i coetanei in modo adeguato; quindi, è utile prevedere curriculum specifici di insegna- mento di queste abilità che possano renderli più autonomi. Secondo Smith (2001), la mancanza di condotte sociali adeguate o la non consapevolezza delle richieste del contesto avrebbero come con- seguenza l’attuazione da parte di questi bambini di comportamenti addirittura inappropriati e inac- cettabili all’interno delle interazioni sociali.

Webber (2001) afferma che spesso il fatto che i soggetti con disabilità non posseggano adeguate abilità sociali deriva sia dal fatto che nel contesto familiare non vi è stata la possibilità di trasmettere loro alcun insegnamento in merito a queste, sia dal fatto che questi bambini sono rifiutati dai pari nei contesti interattivi a causa dei loro comporta- menti inadeguati, rifiuto che non permette loro di imparare in modo diretto e attraverso il modella- mento le risposte più funzionali.

Altre ricerche hanno sottolineato come i bam- bini con disabilità siano scarsamente accettati dai loro compagni normodotati e spesso le difficoltà

incontrate dipendono dal tipo di deficit (Wallan- der & Hubert, 1987). Nel caso del ritardo mentale, ad esempio, è stato riscontrato che questi bambini ricevono minori attenzioni sia da parte degli adulti che da parte dei pari, sono oggetto di considera- zione minore e sono loro rivolte una minore quan- tità di domande (si veda anche il caso esposto nel capitolo 3 a tal proposito).

Nello specifico dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, è stata osservata una marcata difficoltà o inabilità da parte di questi soggetti nell’inter- pretare messaggi comunicativi di tipo emoziona- le o stati interni altrui, mancanze che sono state attribuite ad uno sviluppo deficitario della Teoria della Mente (ToM), deficit che limita l’abilità di questi bambini nell’interazione sociale (Baron- Cohen, Leslie & Frith, 1986), oltre ad influenzar- ne la capacità di comprensione degli stati mentali e di previsione delle azioni altrui (Kerr & Durkin, 2004).

I bambini che presentano disturbi dell’ap- prendimento hanno difficoltà specifiche, invece, nel cogliere gli stimoli comunicativi derivanti dall’ambiente e, quindi, nell’apprendere le regole degli scambi interattivi soprattutto verbali, abilità indispensabile affinché le interazioni con i pari ac- quisiscano forme sempre più complesse (Frengut, 2003). Inoltre, questi soggetti, quando avvertono pressioni derivanti dal contesto interattivo in cui si trovano, tendono ad assumere atteggiamenti e comportamenti aggressivi; ciò è da tenere in con- siderazione nella scelta di una particolare metodo- logia di insegnamento delle abilità sociali per que- sti bambini, in quanto spesso le istruzioni dirette e l’apprendimento mediato dai pari non si rivelano efficaci, ma controproducenti (De George, 1998). Infine, nel caso dei soggetti che presentano di- sturbi emozionali e del comportamento, la proble- matica principale deriva dalle difficoltà che questi incontrano nell’iniziare lo scambio interattivo, come inserirsi in un discorso o un’attività ludica; essi sono anche meno empatici verso gli altri e mostrano un minor numero di comportamenti in- terattivi. Tutte queste mancanze portano i bambi- ni con disturbi emozionali e del comportamento a sentirsi insicuri e inefficaci sul piano sociale, con conseguenze negative anche sulle modalità di interazione, poiché spesso divengono aggressivi nei confronti degli altri (Allsopp, Santos & Linn,

2000; Morris 2002).

Dopo la pubblicazione della rassegna di orien- tamento comportamentista pubblicata da Gresham (1981), altri autori hanno proposto approcci diffe- renti per l’insegnamento delle abilità sociali (So- cial Skills Training). Di Salvo & Oswald (2002) ne hanno identificati tre: una categoria di metodo- logie riguarda la strutturazione e la modificazione del contesto relazionale per la promozione delle interazioni con i pari, come gli spazi di gioco co- muni, la formazione di coppie di gioco e il tuto- raggio; una seconda categoria comprende l’incre- mento delle iniziative comunicative da parte dei pari verso i bambini con disabilità, la creazione di “reti di relazioni e di riferimento” fra pari e l’insegnamento di risposte-chiave appropriate a ciascuna interazione; infine è prevista la categoria dell’insegnamento diretto delle abilità attraverso il prompting.

Esistono poi altre metodologie di Social Skills Training molto utilizzate nell’ambito della ricerca italiana, come ad esempio il Cooperative Lear- ning (Trubini, 2005; Bonfigliuoli, Trubini & Pi- nelli, 2008), l’utilizzo della Token Economy (Pe- rini, 1997; Lambert, 2008) e il role-playing (Hill & Coufal, 2005). È inoltre da sottolineare come negli ultimi anni le ricerche si stanno orientando sull’uso del video modeling (apprendimento da un modello videoregistrato), e sull’uso del video self-monitoring (quando la scena videoregistrata vede come protagonista il paziente stesso), che sembrano produrre risultati più efficaci per la ge- neralizzazione delle abilità acquisite (Bellini & Akullian,2007; McCoy & Hermensen, 2007).

È utile a questo punto riflettere sull’efficacia dei diversi tipi di training per l’insegnamento del- le abilità sociali: Gresham e collaboratori (2001) hanno effettuato una meta-analisi su diversi studi presenti in letteratura riguardanti il Social Skills Training con soggetti con disabilità, ed hanno sot- tolineato come vi sia in realtà una notevole etero- geneità nei risultati ottenuti, tale per cui non si può affermare che questi trattamenti abbiano un’effi- cacia comprovata. Gli autori propongono alcune motivazioni: prima di tutto vi sarebbero problemi di confrontabilità tra i diversi studi a causa dell’e- terogeneità dei gruppi di soggetti utilizzati (dif- ferenze notevoli di disabilità); secondariamente in molti studi risulta debole l’associazione fra il

deficit dei soggetti e il tipo di training proposto; in terzo luogo, in molti interventi il tipo di com- portamento che si era indagato non corrispondeva poi al comportamento insegnato durante il tratta- mento; infine, la problematica saliente riguarde- rebbe la generalizzazione ed il mantenimento dei risultati, che negli studi sul Social Skills Training mostrano diverse carenze e debolezze. Alla luce di questi dati Gresham e collaboratori propongo- no che gli interventi sulle abilità sociali siano più frequenti e più duraturi nel tempo, sottolineando la necessità di un attento assessment dei compor- tamenti sociali deficitari e richiesti secondo il tipo di disabilità e di una generalizzazione funzionale delle abilità acquisite, soprattutto in riferimento al contesto in cui i soggetti esercitano le loro “Social Skills”.

Da tutto questo deriva l’importanza di svilup- pare programmi di intervento per lo sviluppo di competenze assertive che possano coinvolgere an- che soggetti con disabilità intellettiva. Essi spesso mostrano modalità di relazione disfunzionali, col- legate a comportamenti aggressivi o passivi che aumentano il senso di inefficacia, frustrazione e isolamento, rivelandosi un fattore di rischio per l’insorgenza di problemi psichiatrici. Pertanto, nei soggetti con tale disabilità l’insegnamento delle abilità sociali assume un ruolo significativo non solo come terapia, ma anche come prevenzione. Secondo Cottini e Meazzini (2003), i programmi di intervento dovrebbero fondarsi su diversi as- sunti fondamentali:

• le problematiche relazionali e comporta- mentali di bambini in situazione di disabilità vanno affrontate non soltanto con tecniche di contenimento, ma soprattutto attraverso la costruzione di abilità sociali in grado di sostituire modalità inadeguate di affrontare relazioni interpersonali;

• un curricolo per l’insegnamento di abilità socialmente rilevanti deve necessariamente prendere lo spunto da un raffinato sistema di valutazione, il quale permetta una preci- sa delineazione della situazione iniziale, sia per quanto riguarda l’entità del problema che relativamente alle cause da cui lo stesso deriva (Bielecki & Swender, 2004);

• l’intervento educativo deve fondarsi sull’u- tilizzo integrato di diverse strategie, le quali

perseguano finalità di contenimento delle problematiche comportamentali, soprattutto se sono di grossa rilevanza, insegnamento diretto di abilità sociali attraverso strategie di derivazione cognitivo-comportamentale, strutturazione della capacità di affrontare adeguatamente le relazioni con gli altri at- traverso l’uso di strategie di problem-sol- ving interpersonale).

Il programma di insegnamento delle abilità so- ciali, che ad oggi rappresenta una guida metodo- logica più approfondita e operativa, è il metodo di McGinnis e Goldstein (1986) (adottato anche nel caso clinico esposto nel capitolo 3) che consiste nelle seguenti fasi:

• osservazione / valutazione globale delle competenze interpersonali e delle abilità sociali del paziente attraverso specifici stru- menti, anche di autovalutazione, per aumen- tare la consapevolezza e la motivazione; • insegnamento delle abilità sociali, ciascuna

analizzata nelle singole componenti, attra- verso l’utilizzo del modello psicoeducativo denominato “Apprendimento Strutturato”, di tipo comportamentale, che prevede le se- guenti procedure:

• task analysis: analisi del compito, ovvero suddivisione dell’abilità in passi compor- tamentali;

• token economy (o economia simbolica): attribuisce un costo alla risposta del sog- getto, dotandola di valore e significato; • modeling: osservazione di un modello

che emette un comportamento;

• role-playing: simulazione di un ruolo da parte dell’osservatore;

• feedback: informazioni di ritorno sul comportamento emesso;

• generalizzazione: applicazione degli ap- prendimenti a contesti di vita reali e di- versificati.

Gli autori hanno selezionato cinque gruppi di abilità sociali il cui possesso, secondo la ricerca scientifica, è correlato a prestazioni efficaci e ad un soddisfacente adattamento all’ambiente, quali:

• abilità pre-requisite per la vita di gruppo; • abilità di costruzione e/o mantenimento del-

le amicizie;

• abilità di controllo dell’aggressività; • abilità di gestione dello stress.

In relazione a quest’ambito, un altro contribu- to utile è quello di Cottini (2007), che ha pianifi- cato un intervento condotto utilizzando un pac- chetto di strategie, le quali si indirizzano sia al contenimento delle problematiche relazionali e comportamentali, sia alla costruzione di modalità adeguate per affrontare le relazioni interpersonali e le situazioni sociali, e che possono essere utiliz- zate in maniera integrata nel rispetto del principio fondamentale di mirare alla costruzione di com- petenze assertive.

Le abilità sociali sono, quindi, strettamente connesse alla comunicazione assertiva, alla ca- pacità di riconoscimento ed espressione delle emozioni, alle competenze di coping per gestire i problemi e alle abilità cognitive e metacognitive, pertanto sono necessari interventi anche a questi livelli.

Considerata la tendenza dei soggetti con ritar- do mentale a farsi guidare dagli altri nelle scelte e nella risoluzione dei problemi (Ziegler, 2002) e la possibilità di manifestazione di rabbia e ag- gressività in caso di disagio e frustrazione per il mancato soddisfacimento di un bisogno, a livello terapeutico-riabilitativo potrebbe essere utile, per il soggetto, apprendere modalità più funzionali di affrontare problemi e conflitti, in termini di auto efficacia percepita, aumento dell’autostima e del- la soddisfazione personale.

L’insegnamento delle abilità di problem sol- ving è pertanto efficace e consiste nelle seguenti fasi (Marmocchi, Dall’Aglio & Zannini, 2004):

• individuazione il problema; • proposta di possibili soluzioni;

• valutazione delle soluzioni emerse in termi- ni di vantaggi e svantaggi;

• individuazione della soluzione migliore; • pianificazione delle azioni per attuare la so-

luzione scelta;

• verifica della soluzione individuata.

Considerate le difficoltà cognitive dei pazienti con disabilità intellettiva, è possibile che venga messa in dubbio la loro capacità di comprende- re tale strategia; tuttavia alcuni autori (Ziegler, 2002; Baldi, 2004) sostengono che i bambini con ritardo mentale riescano a produrre autonoma- mente delle strategie di problem solving a con-

dizione che:

• comprendano esattamente in che cosa con- siste il compito;

• acquisiscano la consapevolezza degli obiet- tivi del compito in modo che esso risulti il più possibile vicino a ciò che l’operatore si attende;

• riescano a costruirsi una buona rappresenta- zione mentale del problema.

Questo ci può far dedurre che, qualora un pro- blema relativo ad una situazione sociale, lavorati- va, scolastica o di altro tipo produca ansia nell’in- dividuo, è necessario affrontare lo stesso con le modalità più adatte che inducano a preservare il più possibile la percezione di self-control e di controllo delle circostanze. Il soggetto deve esse- re aiutato ad affrontare il problema nel modo più adeguato, considerando con attenzione le varie fasi che costituiscono il processo di soluzione e

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