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SPDC di un ospedale della prima cintu ra milanese, anno 2009.

I. IL VARCO. Per entrare bisogna suonare il citofono alla sinistra della porta. Risponde qual- cuno dalla sala infermieri. Risponde qualcuno che apre comunque, come non si potesse mai sapere: la porta pesante si apre a prescindere: chi infatti ha la presunzione di bussare alle porte del Reparto fuori orario visite deve avere anche il coraggio di entrarci.

I familiari, loro invece rispettano, di solito, il tempo e lo spazio riservato ai congiunti.

L’ufficio del Caposala, il tavolo, le bacheche, le lavagne cancellabili e le sedie, si trovano subito a sinistra dell‘ingresso. Una volta aperta la porta si viene squadrati dall’infermiere di turno al var- co, colui che ha la responsabilità degli ingressi e delle uscite, il cancello del fortino.

Il vetro oscurato si fa trasparente e la porta vie- ne infine spalancata.

6 Anche lo stesso Freud ammetteva essere l’oggetto stesso del suo dire a governare la forma e a dirigere il particolare stile del suo scrivere e argomentare. Il mon- do e il soggetto non possono così essere separati se non con grave nocumento della realtà.

Si è passato il controllo del pretoriano che resta a vegliare la porta osservando con velata nostalgia i corridoi di fuori sino a che il varco torna muto.

II. DIVERSE DECLINAZIONI DELLA PRE- SENZA. Alcune anime barcollano al centro del lungo corridoio (panopticon) sul quale affacciano tutte le camere, il braccio ospedaliero della psi- chiatria. Qualche paziente viene immediatamen- te a controllare chi sia l’ospite temporaneo tra le mura, se possa in qualche modo rappresentare un pericolo o se, per caso, non sia già conosciuto di percezione o intuizione, rivelazione o conferma7. Mani quindi si congiungono in quello che è un comune destino di follia e perdita, possibilità umana, nel farsi simili nel respiro e negli sguardi spersi ora appartenenti ad entrambi8.

Le figure più rallentate si riconoscono da lonta- no, lasciano parlare il corpo trascinato e si perdo- no in fondo al corridoio, come a svanire nella luce in lontananza, verso la porta-finestra illuminata. Alcuni non si muovono neppure ed alzano a ma- lapena lo sguardo, non lo fanno perché incuriositi ma perché così si fa. Adesi essi stessi alle norme sulla melancolia. Saluterebbero quasi, ne avessero la forza e la voglia. Distanziano e sono distanziati, lontani da tutto.

Procedendo oltre si intuiscono in unità le assen- ze, si riconoscono in negativo i pazienti allettati, sempre in numero considerevole. Eternamente in pigiama, a rodere il tempo e questionare solitari tra lenzuola, coperte e qualche cibaria portata dai parenti. Catatonici dell’ultima ora, melanconici o assediati. Gravi isterici.

Qualcuno schizza invece in mia direzione, la mano tesa e la parola già servita andando, di slan-

7 Nel pensiero psicopatologico (si veda tra gli altri Kimura Bin, 2005), il delirio di conferma è conosciuto per essere prettamente melanconico (temporalità post-

festum, del già stato), mentre quello di rivelazione è

invece più specificatamente schizofrenico (temporalità

ante-festum, del non ancora).

8 “A stento si poteva credere che fossero creature terrestri. Navigavamo ormai da cinque mesi, un perio- do abbastanza lungo da farci sembrare tutti gli esseri viventi come mostruosi, nella nostra fantasia. Se tre doganieri spagnoli fossero saliti a bordo, non è escluso che li avrei toccati e palpati ripetutamente proprio come fanno i selvaggi quando qualche visitatore del mondo civile mette piede sulle loro terre”, Melville H.: Gala-

pagos, La Spiga, Milano, 1854, p. 34.

cio, di eccesso. Di pieno, a buen ritmo. Come ad intrattenere ed intrattenersi allo stesso momento, furie sempre nuove, senza sosta nel dire, nel ri- cordare. Nel raggiungere e nel perdere, sempre in combutta con il baratro, come sempre al principio però d’una disfatta.

Si riconoscono questi ultimi spesso dalle ferite ancora fresche, dai lividi, segno di scorribande e momenti senza pensiero, che dalla muta disfatta fuggono nell’estasi della disfatta9.

III. IL TEMPO DEL BARBIERE, LA COE- RENZA DELLE CAMERE. Il Reparto è un luogo che si lascia osservare10. Un contenitore di uma-

nità e di psicopatologia necessariamente stagno, una mirabile raccolta delle più diverse situazioni di partenza come di arrivo, è il regno dell’indistin- to che si fa diagnosi e poi silenzio, dopo il botto. In Reparto arriva solo l’eco del botto, lo sposta- mento d’aria, ancora vivo anche dopo diversi anni dall’implosione.

I medici sono in studio a chiacchierare di que- stioni istituzionali, politiche. Di psichiatria poi, di colleghi e del nuovo ingresso della prima mat- tinata, della sua probabile reazione alla notte in arrivo.

Una volta preso dentro il girone dei ricoverati, divenuto e fattomi quindi uno di loro, sono libero di muovermi senza meta per il corridoio.

Non rappresento più una novità. Non sono neppure, ad un primo e poi un secondo sguardo, così minaccioso. Non porto il camice, non posso quindi esaudire desideri e decidere destini. Porto con me però il marchio della curiosità. Pericolo immenso, massima attrazione 11.

9 “Anzi, quanto meglio funzionano i servizi sul ter- ritorio, quanto più risultano corrette le indicazioni al ricovero, tanto maggiore risulta la gravità dei soggetti ricoverati, fino a rappresentare la cartina al tornasole dei fallimenti sul piano esistenziale, delle situazioni di convivenza familiare e sociale insostenibili e dei fal- limenti terapeutici (...) esso (l’SDC, NdR.) può essere riguardato come una sorta di deposito della tetralogia psicopatologica e sociale”, De Martis D.: Il reparto di diagnosi e cura in un’ottica relazionale, Rivista Speri-

mentale di Freniatria CX/ 4, 1986, 698.

10 “L’invito presente nella domanda di senso della fenomenologia è quello di fermarsi”, Armezzani M., Op. Cit., p. 162.

11 “Curiosità vuol dire attesa di saperne di più e quindi rinuncia al distacco abituale e partecipazione

M’avanzo così in direzione casuale. Due pol- trone di cuoio nero subito sulla sinistra, le riviste patinate ammucchiate su di un tavolino. Si ha su- bito l’idea come di una sala d’attesa di barbiere d’altri tempi, consumate le poltrone e sfogliate le riviste12. Dovrebbero queste far passare il tempo

ma oramai nessuno più qui crede alla favola del passaggio del tempo, nessuno s’aspetta più pas- si il tempo. Si viene sempre colpiti di sorpresa. Come si è entrati in questo luogo così se ne esce. Chi come sempre lo stesso giorno, chi senza idea sia passata una settimana o un mese di ricovero.

Così si viene tirati fuori. Spesso senza averci idea. S’entra che non si è qui. Se ne esce che qui non si è mai stati.

Il refettorio, ovvero la stanza dove tengo il gruppo, è a destra, di fronte all’ufficio dei me- dici. Poco più avanti, sullo stesso lato, la saletta per il caffè ed il the coi biscotti il pomeriggio, il microonde ed il tavolino dove prendere fiato dopo i discorsi e gli incontri nella terra di nessuno del corridoio e nella trincea del gruppo.

Quindi sullo stesso lato principiano le camere, sei in tutto per dodici posti letto. Ampie, illumi- nate dietro le tende parasole, con un bagno sulla sinistra subito all’ingresso ed i letti di ferro, da ospedale ma colorati. Come a rispettare una certa, corretta, coerenza.

I comodini fianco i letti ed un tavolo al centro della parete bianca. Alcuni generi di prima neces- sità, bottiglie d’acqua e santini in attesa. Vestiti sulle sedie, abbandonati e vuoti come villaggi fan- tasma dopo il passaggio della prima linea.

Colori predominanti: il turchese ed il bianco non proprio tale, le coperte sono calde e spesse. Sempre come a rispettare una certa, corretta, co- erenza.

empatica”, Calvi L.: Il consumo del corpo, Mimesis, Milano, 2007, p. 63.

12 Tutti si ha esperienza dell’attesa dal parrucchie- re o dal barbiere. Dell’ambiente e della frequentazione della più varia, sempre la stessa. Del tempo che ci vuole per una barba, il tempo per un taglio alle forbici, come una volta si faceva ed ancora il mio orgogliosamente fa, e quello invece rapido da macchinetta, da rasoio. Le ri- viste quindi che in quei luoghi si trovano sono lì per un preciso e strategico motivo. Non far pensare a quanto s’ha da attendere oltre, nonostante l’appuntamento pre- so con una settimana circa d’anticipo sui tempi. Sono lì per smistare occhi e orecchie, non far interessare l’inte- ressato, distrarre e rendere inoffensiva la critica.

In fondo, sul lato delle camere, lo spazio del primario. Ampio, ricco di quadri e di carte, cartel- le accatastate sulla scrivania pesante, il telefono ed il telefax, il piccolo computer a fianco della sedia.

Ufficio sempre tranquillamente aperto, ad at- tendere correnti e nuove. Discorsi e dialoghi da corridoio, lo sbattere delle porte ed i passi degli infermieri, i trilli dei richiami.

Infine, al fondo del corridoio, la porta-finestra. Affaccio provvisorio alla vita, ampia e chiusa sul balconcino dall’alto parapetto dove i pazien- ti accompagnati dagli infermieri possono fumare ad intervalli stabiliti. La prima aria proveniente dall’esterno, così, sarà aria di tabacco, profumo di tabacco misto a quello di nebbia alta e di letame proveniente dalle cascine dintorno.

IV. L’AMBASCIATA DI FUORI. All’altezza della terza camera, sul lato sinistro, si apre di lar- ghe vetrate la stanza ricreativa. Un tavolo ampio e malandato copre tutto un lato della stanzona.

Le pareti sono completamente coperte di scrit- te, dichiarazioni d’amore, di gioia e di rabbia. Spesso motti incomprensibili, oscuri proverbi e modi di dire storpiati. Strati di presenze andate, deliranti e allucinate, che riempiono gli occhi, che risvegliano la coscienza del passare del tempo, solo ci fosse qui tempo da far passare.

Questa stanza rappresenta un tentativo di fissa- re le esistenze, stratificarle per poi riscoprirle una volta fermi, una volta svegli nuovamente e ricom- posto il presente di passato e quindi di futuro. Un tentativo di rimettere in moto il tempo, preparare allo spazio di fuori, far correre lo sguardo sulle cime degli alberi del parco.

Misurare nuovamente lo spazio e quindi riap- propriarsi del tempo che ci vuole a percorrerlo13.

Il televisore dai suoi quasi tre metri d‘altezza pare governare quest’angolo di Reparto. Acceso dalla tarda mattinata alla sera, volume ragguarde- vole ed un telecomando in attesa, è sistemato in alto, sul soffitto. Ci si deve fare obliqui per poterlo guardare, per riuscire a seguire e commentare, in- fine dialogare con qualche programma14.

13 “Il presente vive del passato che muore e non può far morire che un passato realmente esistito”, Paci E.:

Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano, 1961, p.

15.

La stanza ricreativa riceve l’esterno, tutto ciò che riesce a passare nonostante il vetro. La notizia non richiesta, l’ultimo telegiornale ed il sempre inutile notiziario sportivo regnano incontrastati. L’esterno, il mondo fuori il Reparto ha nella sala ricreativa quindi propria Ambasciata.

Non tutti però sono in grado di frequentarla, almeno nei primi giorni di ricovero e soprattutto durante le ore nelle quali la luce è troppo forte e decisa. Per potervi sostare si deve di nuovo avere in tasca il passaporto per l’esterno, si devono po- ter riconoscere nuovamente le mura del Reparto e quindi di sé stessi. Separare un dentro dal fuori, non fare più confusione tra dentro e fuori15.

La stanza ricreativa è un ufficio passaporti e un‘incubatrice per l’ironia, necessaria virtù per l’esterno: quando le scritte sui muri iniziano a dar da pensare, sorridere, allora si è vicini a riacqui- stare la vista, l‘insostituibile occhio altro su se stessi.

V. DUE ATMOSFERE. L’aria quindi spesso è satura, a momenti davvero piena, difficile da respirare. L’atmosfera spessa, difficile da inter- pretare. Noi che siamo dentro, ricoverati e rico- veranti, ospiti e lavoratori, tutti siamo costretti a restare come sorpresi, immobili farci abbagliare dalla luce di fuori, ad anelarla ed a temerla allo stesso tempo. Fonte di vita e di deragliamenti esi- stenziali in una volta sola. Lampada del faro, indi-

terapia del Centro Psico-Sociale, ricoverata in Reparto per una riacutizzazione del suo malessere di marca de- pressiva e persecutoria, mi disse al suo rientro al gruppo che una sera, seguendo in Reparto una trasmissione alla televisione, aveva letto nei titoli che scorrevano alla base delle immagini la seguente frase, il seguente inci- tamento: “Forza Sandra, non mollare. Ti aspettiamo al gruppo!”. Messaggio commissionato naturalmente dal sottoscritto dott. Colavero, come testimoniato dalla mia firma apparsa a chiudere il testo.

15 Ricordo ancora molto bene quando durante uno dei gruppi in reparto una signora da poco ricoverata s’era messa in piedi perplessa. Aveva quindi iniziato a dialogare con una signora lontana, che s’intravede- va appena fuori dalla finestra, lontana, affacciata da una stanza nell’ala nuova dell’ospedale. Dopo qualche battuta smise di parlarci, non riceveva più risposta ed interesse da parte dell’altra signora. L’altra era rien- trata nell’edificio lasciandola senza indirizzo se non il gruppo, allora troppo vicino, troppo prossimo per poter anche solo rappresentare un polo di dialogo, per poter essere altro da lei.

spensabile alla navigazione, ed allo stesso tempo lampo inatteso del fulmine, prima del tuono, luce di conoscenza come faro abbagliante contromano. Si può in questo senso comprendere l’aura di nemici e salvatori allo stesso tempo, rappresen- tanti ed ambasciatori dell’incomprensibile, pos- seduta dai visitatori, familiari e consulenti esterni quando tra le mura del Reparto; le reazioni contra- stanti ed ambigue, non solo banalmente difensive, che provocano l‘immediato inserimento del nuo- vo arrivato nelle dinamiche deliranti o deliroidi dei ricoverati, reazioni queste che tutti, pazienti e curanti, manifestano ed hanno manifestato ad ogni mio ingresso dalla porta opacizzata.

Altre volte l’aria invece è sospesa come un’at- mosfera; a momenti davvero rarefatta, difficile da respirare. Ci si trova a volte ad aver a che fare con il silenzio. Con un nulla rumoroso quanto un urlo. Si è alle prese allora con quello che per molto tempo s’è definito negativo della psicosi e che in- vece può e deve essere preso come uno stile d’esi- stenza, una modalità di vita e d’essere al mondo di alcuni soggetti. Quelle volte s’è nel campo della sospensione, del non ancora, della perturbazione per la perturbazione, del silenzio imperscrutabile se non per la via degli occhi. C’è da andare cauti allora, come una guida che rispetti il territorio che dovrebbe conoscere ma che invece riscopre tutte le volte grazie a chi in quella sua terra prova, osa addentrarsi: la guida esperta non può che osserva- re attraverso gli occhi del viaggiatore che si trova ad accompagnare.

S’è più vicini alla sostanza matriciale, alla radi- ce ed al fulcro, al movimento della base su cui va oscillando l’edificio del soggetto sulla via d’espe- rienze psicotiche.

VI. LA CURA DEL REFUGIUM. I nuovi in- gressi, se non salutano felici i conoscenti o se in- vece non ricorrono subito al tribunale del prima- rio, si trincerano veloci sotto le coperte oppure in atteggiamenti vistosamente eccessivi ed euforici; si muovono come agli estremi.

Sono i nuovi arrivati, quasi sempre spaesa- ti, perplessi, adirati e delusi, presi in giro o spa- ventati. Convinti tutti proprio come me in questo momento, e non potrebbe essere altrimenti, delle proprie buone ragioni e della loro posizione all’in- terno del paese-mondo, del cosmo.

Per un lungo periodo, d’altronde, ad ogni mio ingresso mi accoglie una certa diffidenza sparsa,

non mi guardano bene gli infermieri. Mi sento un invasore esterno, non richiesto. I medici mi sop- portano, alcuni iniziano a farmi qualche discorso già ascoltato. Le prime volte, quindi, l’atmosfera al mio ingresso puzza di bruciato. Non sono cono- sciuto né posso essere quindi riconosciuto. Sono sospetto, passibile di scompiglio16.

Il Reparto, in questo senso, manifesta la sua identità nell’acuzie stessa del paziente e direi pro- prio grazie ad essa: vissuto paranoicamente o qua- le momentanea sosta, scelta o subita, il Reparto promuove nel confronto/ conflitto con l’esterno la propria identità, a torto o ragione condivisa, di refugium peccatorum, di contenitore sufficiente- mente saldo da permettere una riflessione lonta- no da ciò che resta fuori e che il soggetto porterà senz’altro dentro, una sosta ed uno sguardo al pro- prio interno che è, in fondo, luogo interno.

Il mondo delirante, in qualche modo, ed il mondo del Reparto, con le loro coordinate vissute spazio-temporali di marca persecutoria, di perdita e recupero secondario, delirante, del senso, sem- brano a me affiancarsi e farsi simmetrici e proprio per questo farsi promessa, certo sotto la continua minaccia dello scacco dell’incontro (Callieri), di convivenza17 nonché di possibili e forse inattesi

movimenti intenzionali terapeutici.

Ripresa

C’è allora da tenere presente il luogo, quando ci si avventura. C’è anche, è qui tutto il senso di questo mio breve contributo, da tenersi presenti quando in Reparto o più semplicemente quando con i nostri pazienti.

Bisogna sospendere gli automatismi, parteci- pare alle cose e saper governare le proprie reazio- ni (coinvolgersi), divenire consapevoli della dire- zione del proprio sguardo, del proprio desiderio e di quello dei pazienti, desiderio che riconosce, che ingravida il mondo rendendolo tale quale ci appare. Solo la curiosità e la consapevolezza del- la nostra posizione nel mondo, legata a quella del paziente, può dar vita ad una comunità scientifica

16 “Uno psicologo che voglia rispettare i criteri di scientificità della sua disciplina non può, generalmente, permettersi di continuare ad essere un fenomenologo”, Armezzani M., Op. Cit., p. 6.

17 “Meglio stare con gli stranieri se Atene diventa straniera a se stessa”, Paci E., Op. Cit., p.12.

di mondo, fatta di immagini, metafore condivise, singoli vite (noi e l’altro da noi) di corpi, esistenze e mondi (Callieri).

Chi vuole così davvero incontrare l’Altro deve mettersi in gioco, deve mollare gli ormeggi che lo legano ad una visione mondana e stereotipata del- le cose, delle cure come della prognosi, dei luoghi come della propria identità, per potersi permettere la libertà di vedere davvero, l’altro, il suo mondo, e comprenderne così le domande, la posizione e la situazione, i timori e gli annunci che altrimenti potrebbero risultare incomprensibili (jaspersiana- mente parlando) ed essere così lasciate nel buio del pregiudizio e del già noto. Il vero incontro si ha nella reciproca sospensione dei pregiudizi, nell’accostamento all’altro, o ai luoghi nei quali l’altro si manifesta per quello che davvero è, sen- za eccessivi orpelli teorici o tecnici, in modo da poter intercettare la sua esistenza attraverso una immagine stupefacente e inattesa (la c.d. figura antropologica).

Come recita il mio Maestro primo Lorenzo Calvi (2002): “E valga il vero. Nessuno dovreb- be passare con indifferenza accanto ad una cosa qualsiasi del mondo, animale o vegetale o mine- rale che sia, perché qualsiasi cosa può entrare col suo nome in una metafora”.

Bibliografia

Armezzani, M. (1998). L’enigma dell’ovvio, Unipress, Padova.

Callieri, B. (2007). Corpo, esistenze, mondi, EUR, Roma.

Calvi L. (2002). Ricordo di Danilo Cargnello. Com-

prendre 12, La Garangola, Padova.

Calvi L. (2007). Il consumo del corpo, Mimesis, Mi- lano.

De Martis D. (1986). Il reparto di diagnosi e cura in un’ottica relazionale. Rivista Sperimentale di Fre-

niatria CX/ 4.

De Monticelli R. (2000). La conoscenza personale, Guerini, Milano.

Husserl E. (2007). Filosofia prima, Rubettino, Soveria Mannelli.

Kimura B. (2005). Scritti di psicopatologia fenomeno-

logica, Fioriti, Roma.

Melville H. (1854). Galapagos, La Spiga, Milano. Paci E. (1961). Diario fenomenologico, Il Saggiatore,

Milano.

“Questo lavoro è dedicato alla memoria del prof. Lo- renzo Calvi, uomo sorprendente. Maestro di psicopato- logia, fenomenologia e visionarietà”

Secondo dati recenti otto milioni di italiani sof- frono di attacchi di panico.

Il Disturbo da Attacchi di Panico DAP si può senz’altro considerare una patologia dei nostri tempi. Tra ritmi stressanti a cui siamo sottoposti e sol- lecitazioni di ogni tipo siamo spesso incastra- ti in una dinamica di elevato controllo dove manca il tempo per dedicarsi micro pause. Ma i pilastri profondi all’origine di questo di- sturbo sono dovuti al deterioramento di alcuni Funzionamenti dell’organismo, che si produce

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