Il lavoro psicologico all’interno dei Progetti SPRAR non si conclude con la presa in carico dei beneficiari, ma ha un ruolo di rilevante importan- za anche nella supervisione di gruppo offerta agli operatori coinvolti, supervisione affidata ad uno psicologo esterno all’équipe.
Il contesto lavorativo dell’équipe impegnata nell’accoglienza dei “migranti forzati” colloca, ciascun operatore, nel campo delle cosiddette re- lazioni professionali di aiuto alla persona (o, più semplicemente, professioni di aiuto). Caratteristi- ca distintiva e peculiare di queste professioni è il coinvolgimento della soggettività dell’operatore nel lavoro: quest’ultimo è chiamato a svolgere la sua attività all’interno di una relazione asimme- trica, nella quale l’utente vi entra con il ruolo di chi chiede, mentre l’operatore è nella posizione di chi offre aiuto, assistenza. Tale relazione intersog- gettiva inevitabilmente comporta l’insorgere di momenti conflittuali o di impasse che necessitano di una appropriata elaborazione, in assenza della quale l’operatore rischia di andare incontro a fe- nomeni di burn-out, mettendo a rischio il proprio equilibrio psicofisico e l’assolvimento dei delicati compiti lavorativi.
Lo strumento di lavoro che supporta le profes- sioni di aiuto è, dunque, la supervisione, ovvero uno spazio di condivisione, confronto ed elabo- razione di esperienze e vissuti, finalizzato a ga- rantire il benessere degli operatori, attraverso la riduzione dei fattori potenzialmente stressanti. Il buon funzionamento del gruppo di lavoro è, di fatto, fondato su una comunicazione chiara fra gli operatori e, in quest’ottica, Correale (1998) defi- nisce la supervisione come lo strumento più noto per garantire una comunicazione fluida, necessa- ria ai fini dell’equilibrio psichico del singolo e del gruppo degli operatori nel suo insieme.
È bene chiarire che tale lavoro di supervisione di gruppo non ha per oggetto la soggettività dell’operatore in sé (come accade nell’ambito di interventi psicoterapeutici), ma si focalizza sugli aspetti soggettivi dell’operatore che entrano in gioco nella relazione con l’utente. Tali aspetti possono essere espressi in modo esplicito, verbale o in maniera implicita, non consapevole.
Rientrano, ad esempio, nel materiale sottoposto a supervisione, gli “scarti” della relazione, ovvero momenti di incertezza, di “non senso” che l’ope- ratore può avvertire alla fine di uno scambio con l’utente. In quest’ultimo caso, la supervisione si muove nella direzione della ricerca di senso, al fine di trarre l’operatore fuori da una condizione di stallo che genera spesso comportamenti e ruo- li rigidi, ripetitivi e, quindi, poco funzionali allo svolgimento del proprio compito.
Come precedentemente accennato, lo stress non correttamente gestito (distress o stress nega- tivo), può portare a conseguenze patologiche, a partire dal rischio di burn-out, «una malattia pro- fessionale degli operatori dell’aiuto, che colpisce soprattutto quelli più motivati…una reazione alla tensione emozionale cronica creata dal contat- to continuo con altri esseri umani, in particolare quando essi hanno problemi o motivi di sofferen- za» (Maslach C., Leiter M.P., 2000).
Nel burn-out si possono individuare tre dimen- sioni:
• esaurimento emotivo (la sensazione di non aver più niente da offrire);
• depersonalizzazione (atteggiamenti di di- stacco, freddezza, cinismo, ostilità nei con- fronti degli utenti);
• ridotta realizzazione personale (sensazioni di inadeguatezza e incompetenza, caduta dell’autostima).
Quali sono i fattori di stress legati allo specifico ruolo professionale dell’operatore che si occupa dell’accoglienza dei migranti?
Sicuramente, in primis, si è portati a pensare alle difficoltà nella gestione dei rapporti quoti- diani con i beneficiari del progetto (limiti, regole da far rispettare, frustrazione derivante da incom- prensioni linguistiche, richieste eccessive da parte degli utenti). A tali problematiche si associa, inol- tre, il rischio notevole per l’operatore di ricadere nel cosiddetto triangolo del conflitto Aggressore/ Salvatore/ Vittima (Losi, N. e Papadopoulos, R., 2004), nel quale vi è l’assunzione rigida e spes- so inconscia di uno dei tre ruoli. Questa visione è frutto di una rielaborazione di un concetto intro- dotto da Karpman (1968): le dinamiche tra i tre ruoli possono istaurarsi frequentemente quando si lavora con soggetti traumatizzati, come rifu- giati e richiedenti asilo (secondo quanto esposto
nell’articolo di Losi e Papadopoulos appena ci- tato). In questo modello relazionale, le soluzioni proposte dagli operatori, che inconsapevolmente assumono il ruolo di Salvatore, determineranno solo una ripetizione degli eventi negativi in cui sono stati drammaticamente coinvolti i beneficia- ri dei progetti SPRAR, intrappolati, ancora una volta, nel ruolo di Vittime. Il rischio a cui si va incontro è, dunque, l’impossibilità per i rifugiati e i richiedenti asilo di una autentica riconquista della propria autonomia e dignità, col perpetrar- si della dipendenza da un sistema di accoglienza esclusivamente assistenzialista e privo di opportu- nità di effettiva integrazione sociale. L’intervento principale per arginare o prevedere tali condizioni estreme, durante il percorso della supervisione di gruppo, resta quello di esplicitare e indebolire il ruolo che imbriglia più frequentemente l’operato- re, ossia quello del “Salvatore”.
Cruciale, durante le supervisioni, è anche un’attenta valutazione di possibili traumi vicari. La traumatizzazione vicaria (McCann e Pear- lamm, 1990) si riferisce alla trasmissione di stress traumatico attraverso l’osservazione e/o l’ascolto di storie di eventi traumatici.
Nonostante il rischio di traumi vicari, la fun- zione degli operatori rispetto alle persone coin- volte in eventi traumatici può essere fortemente terapeutica. A tale proposito, Caldarozzi (2010, p.43) scrive:
«La persona logorata e ferita, dal punto di vista psicologico, ricostruisce le facoltà psichiche, dan- neggiate o deformate dall’esperienza traumatica, soltanto entrando in relazione con altre persone, sperimentando di nuovo la sensazione di fiducia di base, il senso di identità e di competenza. Tutte le persone che incontrano, durante il lungo e tor- tuoso percorso di riconoscimento di diritti negati nel loro paese di provenienza, possono avere un “ruolo terapeutico”: agenti di polizia di frontiera, operatori del privato sociale, medici, psicologici, amici, ecc..».
Questa importantissima risorsa dovrà essere riconosciuta, favorita e attivata nel lavoro di su- pervisione con gli operatori.
Alla luce di quanto esposto, è possibile sin- tetizzare, nei seguenti punti, gli obiettivi da rag-
giungere attraverso il lavoro di supervisione svol- to con gli operatori coinvolti nei progetti SPRAR: • Facilitare i processi comunicativi e l’elabo- razione di vissuti emotivamente più difficili da tollerare;
• Monitorare l’andamento del gruppo rispetto alle capacità di ascolto, collaborazione e ge- stione delle problematiche emerse nel con- tatto quotidiano con l’utenza;
• Garantire supporto professionale, sia favo- rendo una visione positiva e incoraggiante delle esperienze verbalizzate, sia promuo- vendo un ampliamento del senso di respon- sabilizzazione e una maggiore definizione del Sé professionale;
• Potenziare le competenze relazionali; • Migliorare il benessere psicofisico, attraver-
so la riduzione dello stress, la prevenzione del burn-out e della traumatizzazione vica- ria;
• Facilitare la coesione del gruppo e l’emer- gere di processi di pensiero creativi, anche mediante l’integrazione delle diverse com- petenze professionali.
Il fine ultimo della supervisione è, dunque, il miglioramento della capacità di lavorare in grup- po: la crescita professionale viene costruita sulle proprie esperienze e su quelle degli altri, mentre si impara a cooperare attraverso la gestione delle differenze individuali e dei conflitti.
Conclusioni
In questo contributo è stata presentata una bre- ve esposizione dei riferimenti teorici e operativi a disposizione dello psicologo impegnato nel la- voro con i rifugiati, i richiedenti asilo e gli ope- ratori, all’interno dei progetti SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Una lettura degli approcci proposti in letteratura ha permesso di evidenziare, negli interventi con i beneficiari dei suddetti progetti, l’importanza degli aspetti relativi alla cultura di appartenenza e delle possibili condizioni traumatizzanti relati- ve non solo ai contesti di provenienza, ma anche all’arrivo nei paesi occidentali. Lo stesso concet- to di trauma, pertanto, va rivisto e adattato alla specifica condizione del migrante “forzato”. Per prevenire in modo efficace il perpetrarsi di even-
ti dolorosi nel cosiddetto trauma post- migrato- rio, è necessario un intervento mirato che tenga conto della necessità di favorire una integrazione autentica, con l’ampliamento progressivo degli spazi di autonomia della persona. A questo lavo- ro psicologico effettuato con i rifugiati e i richie- denti asilo, si affianca un’attività programmata di supervisione di gruppo, svolta da uno psicologo esterno all’équipe con gli operatori coinvolti nei progetti SPRAR. La supervisione rappresenta uno strumento fondamentale per tutelare l’equilibrio psicofisico degli operatori impegnati nella rela- zione di aiuto e per consentire il superamento di eventuali situazioni conflittuali fra questi ultimi e i beneficiari.
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Legge 30 luglio 2002, n. 189: “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo” (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 199 del 26 agosto 2002 - Suppl. ord.)
Note
Errata corrige. Il presente contributo risulta accettato per la pubblicazione sul numero di Dicembre 2016 della Rivista e pubblicato sul numero di Giugno 2017 per mero errore tecnico.
Riassunto
Nel presente lavoro si fornisce un quadro dettagliato del fenomeno della violenza nei contesti lavorativi, tramite la rivisitazione di diversi studi scientifici fornendo una analisi delle diverse tipologie, delle possibili cause e dell’incidenza del fenomeno su scala Europea e mon- diale. Sono presentate, inoltre, a conclusione del lavoro possibili soluzioni preventive e alcuni metodi di rile- vazione dei fenomeni di violenza nelle organizzazioni sanitarie.
Parole chiave: violenza, posto di lavoro, ma- lattie psicologiche, lavoratori, salute.
Introduzione
Questo lavoro ha l’obiettivo di fornire un contri- buto alla riflessione sulla violenza psicologica nei contesti lavorativi, analizzando le dinamiche che possono originarla, sia di gruppo che individuali, portando alcune riflessioni sul suo impatto e deline- ando una possibile strategia preventiva. La violenza psicologica sul posto di lavoro è una forma di abuso, un comportamento non etico che, se esercitato sul lavoratore, lo trasforma in vittima. È un fenome- no che tutt’oggi, è poco conosciuto e sottostimato ma in continuo aumento. Esso può produrre conse- guenze molto negative sulla qualità della vita e sul- la salute del lavoratore per via del coinvolgimento dell’area emozionale, psicosomatica e del compor- tamento (Cassitto, Fattorini, Gilioli, Rengo; 2003). In Italia, una ricerca ISTAT degli anni 2008-2009 ha dimostrato che dei oltre 29 mila lavoratori che nel corso della loro vita lavorativa hanno avuto su- periori o colleghi o persone a loro sottoposte, il 9% dichiara di aver subito vessazioni, demansionamen- to o privazione dei compiti. Il 6,7% ha sperimentato
una tale situazione negli ultimi tre anni, mentre il 4,3% negli ultimi dodici mesi. Una parte di questi lavoratori (198mila) si può definire “altamente a ri- schio”, poiché sono stati oggetto di comportamenti vessatori più volte al mese per una durata inferiore a sei mesi. La violenza sul posto di lavoro è defini- ta dal National Institute of Occupational Safety and Health (NIOSH, 2002) come “atti violenti, incluse aggressioni fisiche e minacce di aggressione, diret- te verso soggetti sul lavoro o in servizio”. In Euro- pa, la violenza sul lavoro è definita dall’EU-OSHA (European Agency for Safety and Health at Work, 2010), come ogni tipo di episodio violento avvenuto durante il lavoro, e, in questi, include la “violenza imputabile a terzi”: cioè minacce, violenza fisica o psicologica effettuata da persone, e “molestie”, precisando che, con questo termine, si riferisce in particolare al mobbing, che include comportamenti protratti nel tempo, non ragionevoli, rivolti contro un dipendente o un gruppo di dipendenti da parte di un collega, un superiore o un subordinato che hanno l’obiettivo di perseguitare, umiliare, intimidire o mi- nacciare. Il documento europeo sull’Accordo quadro sulle molestie e sulla violenza sul luogo di lavoro del 26 aprile 2007 (appendice 3.2) afferma che: “Varie sono le forme di molestie e di violenza che possono presentarsi sul luogo di lavoro. Esse possono: essere di natura fisica, psicologica e/o sessuale; – costituire incidenti isolati o comportamenti più sistematici; - avvenire tra colleghi, tra superiori e subordinati o da parte di terzi, ad esempio clienti, pazienti, studenti, ecc.; - andare da manifestazioni lievi di mancanza di rispetto ad altri atti più gravi, ad esempio reati che richiedono l’intervento delle autorità pubbliche”. (Accordo Quadro Europeo sulle molestie e sulla vio- lenza sul luogo di lavoro, 2007)