Per molto tempo i padri sono rimasti nell’om- bra rispetto alla possibilità di coinvolgersi in pri- ma persona nella ricerca di aiuto professionale in merito ai problemi di un figlio, come se non fosse possibile per loro autorizzarsi a prendersi cura della parte emotiva di sé che, per ragioni sociali, hanno sempre dovuto reprimere, e che attraver- so una terapia familiare sarebbe emersa (Andolfi, 2017). Gli uomini, dunque, hanno preferito per lungo tempo restare in retroguardia mentre le ma- dri, più determinate ed attive, richiedevano aiuto per i propri figli. Oggi invece, osserva Andolfi, i padri appaiono più recettivi e motivati, soprattutto quando la posta in palio è molto alta e, per esem- pio, i figli presentano disagi seri e drammatici o quando loro stessi riconoscono di aver perso stima nei propri confronti, mascherando per lungo tem-
po malesseri divenuti profondamente dolorosi. Oggi, osservano Cirillo, Selvini e Sorrentino (2017), siamo davanti alla riscossa di tanti padri che in passato, psicoterapeuti e osservatori, ave- vano bollato come deboli, assenti, “mammi” ecc. Gli autori sottolineano come ci ritroviamo di fron- te, nella pratica clinica, a padri attivi protagonisti nella metà dei casi rispetto alla richiesta di aiuto di un figlio problematico.
Selvini ha condotto una ricerca, alla fine de- gli anni 90 e replicata nel 2016, in cui venivano confrontati i padri in terapia con i padri degli spe- cializzandi della scuola di psicoterapia (dunque padri non in terapia), cercando così di studiare il “fenomeno padre”. Confrontando le due ricerche fatte l’una a distanza di circa 15 anni dall’altra, si è potuto rilevare un consistente aumento di interesse e partecipazione da parte dei padri alla terapia e attualmente la situazione rispetto alla ri- chiesta di terapia per le problematiche di un figlio è la seguente:
• nel 15% dei casi la richiesta è condivisa da entrambi i genitori;
• nel 26% dei casi il richiedente prevalente è il padre;
• solo nel restante 59% la protagonista esclu- siva è la madre.
I dati restano pressoché gli stessi se prendiamo in considerazione le famiglie divise, essendoci oggi un nuovo modo di vivere la separazione che vede, nella maggior parte dei casi, entrambi i ge- nitori co-responsabili della prole.
Nella prima ricerca condotta da Selvini, risa- lente agli anni 90, si era giunti ad una classifica- zione dei padri in tre categorie:
• padri tradizionali: autoritari e distanti, de- legano alla madre l’accudimento e l’educa-
zione dei figli, provvedendo principalmente al sostentamento economico ed entrando nel merito solo delle decisioni più importanti ri- guardanti la prole. Non hanno una relazione personale diretta con i figli, soprattutto nella loro prima infanzia;
• padri di transizione: padri che iniziano ad occuparsi dei propri figli nell’accudimento e nell’educazione, ma che mantengono un ruolo subalterno ed inferiore rispetto alle madri;
• nuovi padri: condividono equamente, con la propria moglie, la responsabilità genito- riale.
Confrontando queste categorie di padri, emerse dallo studio degli anni 90, con i padri dell’ultima ricerca replicata lo scorso anno, gli autori han- no evidenziato quanto segue: i padri tradizionali sono crollati dal 60% al 24%; i padri di transizio- ne sono esplosi al 76% mentre nella prima ricerca risultavano essere uno su tre; non si incontrano ancora nuovi padri all’interno delle stanze di te- rapia.
Il tutto, spiegano Cirillo, Selvini e Sorrentino, va di pari passo con cambiamenti nell’assetto del- le famiglie, dove calano le coppie tradizionali in cui la madre non lavora fuori casa ed aumentano le coppie a doppia carriera (alcune volte con una carriera più importante della madre). In questo nuovo quadro di riferimento i padri tradizionali vanno scomparendo nella pratica clinica e i padri di transizione si rivelano una migliore risorsa in terapia, di quanto fossero nel passato. I “mammi”, osservano gli autori, paiono essere un importante fattore di protezione se sono quasi assenti nella pratica clinica!
Padri più presenti oggi, quindi e che rappresen- tano maggiormente una risorsa in terapia. Quan- to siano cambiati loro nella società, più pronti, disposti a mettersi in discussione e a giocare la partita in campo piuttosto che in panchina e quan- to, invece, i terapeuti sono diventati più capaci di valorizzarli, è un quesito che gli autori lasciano aperto ad una riflessione. Di certo sono attivi en- trambi i fattori!
Secondo Andolfi (2001), la reintegrazione del padre nel contesto terapeutico costituisce un po- tente fattore di cambiamento per tutta la famiglia. Ciò che in ambito clinico risulta essere una consa-
pevolezza forte è che, in una società come quella che viviamo oggi, nella quale ci si trova di fronte alla maternalizzazione della figura paterna e ad una estensione inglobante di quella materna, deve essere ricercata in terapia una sana relazionalità nella coppia, che deve permettere a padre e madre di trovare nuovi punti di equilibrio rispetto ai ruoli e funzioni da rivestire1. La rigidità dei ruoli paren-
tali, infatti, conduce ad una polarizzazione ed una divisione rigida dei generi in cui padri distanti ed impositivi fronteggiano madri inglobanti ed iper- coinvolte nella vita familiare e dei propri figli.
Dunque Andolfi ci pone davanti alla conside- razione di quanto il piano della genitorialità sia strettamente connesso al piano della coniugalità e di quanto le funzioni di padre, figlio e coniuge siano tra loro strettamente connesse, al punto da determinare, dalla loro articolazione dinamica, il funzionamento della famiglia. Elementi, questi, da non trascurare in ambito terapeutico.
Se, per esempio, un uomo resta ancorato alla propria famiglia d’origine, attendendosi ancora da lì ogni forma di accudimento e facendo la stessa cosa con la propria coniuge, che dovrà occupar- si di lui da un punto di vista emotivo, mediando persino nei rapporti con la sua famiglia d’origine, sarà difficile che riesca ad esercitare una funzione paterna positiva, poiché è difficile, pressoché im- possibile, fare da figlio nella propria famiglia d’o- rigine, da figlio nella relazione coniugale e, con- temporaneamente, riuscire ad essere realmente padre con il proprio figlio. Tale difficoltà raggiun- ge il suo apice alla nascita del figlio, momento in cui i bisogni del bambino sono talmente prioritari da portare ad una crisi profonda della coppia se il marito ha emotivamente sposato una madre più che una moglie.
La crisi nella coppia e nella funzione genito- riale paterna è tanto più probabile quanto più ci si trova davanti ad un figlio cronico (Andolfi, 2003) piuttosto che ad un uomo che riveste la funzione
1 La riflessione di Andolfi, risalente al 2001, è stata ripresa da Cirillo, Selvini, Sorrentino (2017) che parla- no, in riferimento ad una ricerca svolta da Selvini nel 2016, di una attuale macrocategoria di padri che resta- no psicologicamente tradizionali, cioè subalterni alla madre nell’educazione dei figli, facendo riferimento ai concetti esposti da Andolfi nel 2001 in merito all’argo- mento e, dunque, ancora attuali.
di padre. La condizione di figlio cronico è quella che si manifesta quando un individuo non riesce a fare il salto evolutivo necessario per la conquista di un ruolo adulto, restando bloccato nella posi- zione di figlio in una fase di sviluppo personale.
Se da un lato della coppia vi è un figlio cro- nico, dall’altro è probabile che ci sia una donna che ha appreso con diligenza a fare da madre in ogni circostanza nella propria famiglia d’origine, secondo l’implicita convinzione che i maschi (pa- dri, fratelli, mariti) “non cresceranno mai” e ne- cessiteranno sempre di una donna super efficiente e super responsabile che si occupi di loro, capace di compensare l’immaturità genetica del genere maschile, da cui sono “affetti” (Andolfi, 2001).
Ecco che, in questo modo, si vengono a cre- are coppie rigidamente composte e polarizzate nella distribuzione di compiti e responsabilità, sia genitoriali che coniugali, che non permettono quell’interscambio, compensazione e reciprocità di funzioni, richieste oggi dalla società ed impor- tanti, secondo Andolfi, affinché i padri possano sperimentare con i propri figli nuovi sentimenti e responsabilità paterne che le precedenti genera- zioni non conobbero.
Secondo l’autore il nuovo auspicabile quadro familiare, che vede padre e madre giocare la par- tita della crescita dei figli nella stessa squadra, scambiandosi i ruoli quando necessario e mante- nendo una posizione simmetrica tra loro, richiede terapeuti elastici, pronti a tale cambiamento, che seguano alcuni assunti di base, come:
• non dare per scontato un unico modello di mascolinità e, di conseguenza, di paternità; • riconoscere ed accettare le diversità di ti-
pologie di famiglie e, quindi, di paternità, arricchendo così la pratica clinica. Oggi, infatti, si ha sempre più a che fare con fami- glie separate, ricostituite, monogenitoriali, omogenitoriali;
• avere un atteggiamento curioso e fare del contesto terapeutico un campo di ricerca empirico ed eccezionale, dove si possano ricercare, esplorare e comprendere le nuove modalità di essere padre;
• scoprire nella paternità una risorsa per po- ter innescare cambiamenti in tutto il sistema familiare.
Come sottolineano Cirillo, Selvini e Sorrentino
(2017) citando William Doherty, le tre virtù che un terapeuta deve possedere sono: la partecipa- zione, la prudenza e il coraggio e uno dei campi in cui deve maggiormente dimostrare il proprio coraggio è nel cercare di “agganciare” alla cura anche gli uomini, i padri, malgrado questi possano apparire ostili e riluttanti all’idea, anziché accon- tentarsi di prendere in carico solo le mogli, spesso più disposte ad interrogarsi su come intervenire per recuperare il benessere del figlio.
Oggi, quindi, la ricerca di “nuovi padri” verso cui ancora si è in viaggio, ci pone di fronte alla ricerca di “nuovi terapeuti”, che superino l’abitu- dine consolidata di terapie parallele madre/figlio e siano pronti a coinvolgere il paterno, superando gli ostacoli interni fatti di pregiudizi e risonanze accecanti.
Bibliografia
Andolfi, M. (a cura di) (2001). Il padre ritrovato. Mila- no: Franco Angeli.
Andolfi, M. (2003). Manuale di psicologia relazionale.
La dimensione familiare. Roma: A.P.F.
Andolfi, M. (2017). Scacco matto al re. Come reinven- tare il padre. Terapia familiare. Rivista interdisci-
plinare di Ricerca e Intervento Relazionale, 113,
13-38.
Attili, G. (2001). Il padre come contesto di attaccamen- to nello sviluppo del bambino. In M. Andolfi (Ed),
Il padre ritrovato (pp. 41-57). Milano: Franco An-
geli.
Attili, G. (2017). Il ruolo del padre e l’evoluzione del- la paternità. Terapia familiare. Rivista interdisci-
plinare di Ricerca e Intervento Relazionale, 113,
39-51.
Cirillo, S., Selvini, M., Sorrentino, A. Vecchi e nuovi padri per vecchi e nuovi terapeuti. Terapia familia-
re. Rivista interdisciplinare di Ricerca e Intervento Relazionale, 113, 121-142.
D’Elia, A. (2017). Le ombre dei padri. Terapia familia-
re. Rivista interdisciplinare di Ricerca e Intervento Relazionale, 113, 161-177.
Garfield, R. (2017). Infrangere il codice maschile. Tera-
pia familiare. Rivista interdisciplinare di Ricerca e Intervento Relazionale, 113, 52-65.
Recalcati, M. (2013). Il complesso di Telemaco. Mila- no: Giangiacomo Feltrinelli Editore.
Recalcati, M. (2016). Jacques Lacan. La clinica psi-
coanalitica: struttura e soggetto. Milano: Cortina
Raffaello.
Stern, D. N. (1987). Il mondo interpersonale del bam-
Riassunto
La Psicologia del Lavoro fa riferimento alle relazioni tra persona, lavoro e contesti organizzativi con riguardo ai fattori personali, interpersonali e situazionali che in- tervengono nella costruzione delle condotte individuali e collettive. La selezione del personale è una funzione fondamentale per lo sviluppo economico dell’organiz- zazione e determina la qualità delle persone che vengo- no inserite in azienda, da cui dipendono l’efficienza e la potenzialità delle aziende stesse.
Parole chiave: selezione del personale, collo- quio individuale, colloquio di gruppo, assessment center, test psicometrici.
Introduzione
La psicologia del lavoro e delle organizzazioni è quella branca della psicologia che si occupa del- lo studio dei comportamenti delle persone all’in- terno del contesto lavorativo, in particolare quei comportamenti che riguardano il ruolo, i compiti da svolgere, i risultati da ottenere e le modalità relazionali che le persone mettono in atto nel pro- prio lavoro.
Occorre tuttavia sottolineare che, sebbene la Psicologia del Lavoro e la Psicologia delle Orga- nizzazioni siano due discipline unite nel loro com- plesso, si differenziano per le seguenti peculiarità: • la psicologia del lavoro si occupa principal- mente della “risorsa uomo” e quindi dell’a- nalisi psicologica delle interazioni tra indi- viduo ed attività lavorativa;
• la psicologia delle organizzazioni si occupa dell’analisi psicologica del comportamento di individui e gruppi in relazione al funzio- namento delle organizzazioni intese come delle entità a sé, con i propri bisogni e ne- cessità, tra i quali anche il benessere eco- nomico.
Una delle prime applicazioni della psicologia del lavoro è quella della selezione del personale,
ovvero il processo in cui vengono accertate le ca- ratteristiche individuali di una potenziale risorsa nello svolgimento di determinati compiti all’in- terno dell’organizzazione: è finalizzata ad indivi- duare le persone più adatte per incarichi o posti di lavoro, valutando sia le competenze attuali che il potenziale ancora inespresso.