Psicologa Psicoterapeuta Libero Professionista
ne di attività di accompagnamento sociale, fina- lizzate alla conoscenza del territorio e all’effetti- vo accesso ai servizi locali, fra i quali l’assistenza socio-sanitaria. Sono previste, inoltre, attività per facilitare l’apprendimento dell’italiano e l’istru- zione degli adulti, l’iscrizione a scuola dei minori in età dell’obbligo scolastico, l’assistenza psico- logica, nonché ulteriori interventi di informazione legale sulla procedura per il riconoscimento del- la protezione internazionale e sui diritti e doveri dei beneficiari in relazione al loro status. Ogni singolo beneficiario inserito nei progetti SPRAR viene guidato lungo un per-
corso di (ri)conquista della propria autonomia, anche at- traverso l’inserimento socio- economico, grazie a percorsi formativi e di riqualificazione professionale, oltre a misure per l’accesso alla casa.
Ai fini di una maggiore chiarezza espositiva rispet- to al tema trattato in questo articolo, appare doveroso fornirne brevemente alcune definizioni che permettano un inquadramento, sul piano giuridico, delle persone coin- volte in questo processo di ac- coglienza e integrazione.
In particolare, il richiedente asilo è un cittadi- no straniero o apolide (privo di cittadinanza) che cerca protezione fuori dal Paese di provenienza e, dopo aver manifestato la propria volontà di chie- dere asilo, resta in attesa di una decisione definiti- va delle autorità competenti su tale istanza.
La protezione internazionale include lo status di rifugiato e lo status di protezione sussidiaria.
La definizione generale di rifugiato contenuta nel diritto internazionale, e recepita anche in am- bito italiano ed europeo, è quella dell’art. 1 A, n. 2, par. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, in base alla quale è considerato rifugiato chi:
«…temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appar- tenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di
questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra».
Pertanto, in termini giuridici, il rifugiato è chi ha un ragionevole timore di poter essere, in caso di rimpatrio, vittima di persecuzione.
Secondo la legge italiana, invece, può essere beneficiario di protezione sussidiaria:
«il cittadino straniero che non possiede i requi- siti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, corre- rebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese» (Art. 2, comma 1, lettera g, D. Lgs. 251/07).
Il grave danno, a cui fa riferimento la prece- dente definizione e che concorre a determinare un riconoscimento di protezione sussidiaria, può consistere in:
a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte;
inumano o degradante ai danni del richie- dente nel suo Paese di origine;
c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla vio- lenza indiscriminata in situazioni di conflit- to armato interno o internazionale. (Art. 14, comma 1, D. Lgs. 251/07).
Alle precedenti forme di protezione appena de- scritte, si associa un’ ulteriore tipologia denomi- nata protezione umanitaria. Quest’ultima è stata inquadrata giuridicamente nella seguente defini- zione:
«La situazione giuridica dello straniero che ri- chieda il rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie ha consistenza di diritto sog- gettivo, da annoverare tra i diritti fondamentali con la conseguenza che la garanzia apprestata dall’art. 2 Cost., esclude che dette situazioni pos- sono essere degradate a interessi legittimi per ef- fetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo …» (Cassazione, Sezioni Unite Civili, ordinanza del 9 settembre 2009, n. 19393).
Orientamenti teorici nel lavoro psicolo-
gico con Rifugiati e Richiedenti Asilo
In un interessante lavoro sul tema del lavoro con rifugiati e richiedenti asilo, Alfredo Mela (2015) espone un confronto, sul piano psicoso- ciale, fra la migrazione a fini economici e quella “forzata” del richiedente asilo. Quest’ultimo, a differenza del migrante economico, ha una mag- giore probabilità di aver subito violenze e di es- sere stato esposto a esperienze potenzialmente traumatiche come, ad esempio, atti di crudeltà e tortura ai danni di persone care.
Inoltre, l’assenza di un progetto migratorio (condizione frequente nei casi di migrazione “for- zata”, a causa di una fuga improvvisa dai luoghi natii) può generare uno stato di spaesamento e di blocco dell’azione, una volta raggiunto un conte- sto di vita sicuro, ma estraneo. A differenza delle situazioni di indigenza in cui versano le famiglie dei migranti economici rimaste nei paesi di ori- gine, nel caso dei migranti “forzati” è presente la consapevolezza di aver lasciato i propri familiari in una condizione di pericolo costante, consape-
volezza che può spesso generare stati di ansia, sentimenti di impotenza e di colpa.
Partendo da queste considerazioni sugli aspet- ti distintivi della migrazione “forzata”, il lavoro psicologico con i richiedenti asilo può seguire tre diversi orientamenti di natura teorica e operativa: gli approcci focalizzati sul trauma, gli approcci psicosociali e gli approcci etnopsichiatrici.
Il primo fra questi orientamenti comprende tut- ti gli interventi e gli studi finalizzati alla cura del trauma e, in particolare, dei sintomi del disturbo post-traumatico da stress/PTSD. La quinta edi- zione del DSM (APA, 2013), a differenza delle precedenti versioni, include il PTSD nella cate- goria dei trauma and stressor-related disorders. I criteri diagnostici riguardano innanzitutto l’ef- fettiva esposizione a uno o più eventi traumati- ci, compreso il fatto di essere testimoni di eventi capitati a stretti familiari o amici, ovvero essere ripetutamente esposti ai dettagli degli eventi in modo diretto.
Sono poi elencati quattro gruppi di sintomi: in- trusione, evitamento, alterazioni negative a livello cognitivo e dell’umore, alterazioni nell’arousal e nella reattività (per esempio, comportamenti di ipervigilanza). Per la diagnosi di PTSD, la dura- ta dei sintomi è almeno superiore a un mese: è necessario accertare, altresì, che essi comportino seri problemi di funzionamento psicologico e non siano attribuibili a condizioni fisiche o all’uso di specifiche sostanze.
Gli approcci focalizzati sul trauma sono, dun- que, diretti ad alleviare i sintomi appena menzio- nati, attraverso l’apprendimento di modalità per fronteggiarli e l’elaborazione dei ricordi legati agli eventi traumatici.
Negli approcci psicosociali, invece, si tende ad attribuire importanza anche ai fattori di stress (o perfino ad avvenimenti traumatizzanti) che so- praggiungono con l’arrivo in un paese occidenta- le. Difficoltà di adattamento ad un contesto e a una cultura diversa dalla propria, oltre a possibili criti- cità nel sistema di accoglienza dimostrano quanto il venir meno di una imminente minaccia di morte o di pericolo non rappresenti affatto il raggiungi- mento di una sufficiente sicurezza, né dal punto di vista sociale, né da quello emotivo. Il senso dell’identità personale è fortemente minacciato: l’assenza di documenti in grado di presentare se
stessi agli altri con un nome, un luogo di nascita o di residenza ufficialmente dichiarati alimenta un sentimento di sospensione identitaria già acuito dallo sradicamento improvviso dal proprio am- biente culturale. La condizione di richiedente asilo o di rifugiato determina inevitabilmente un cambiamento dei ruoli e delle posizioni sociali ricoperte nel paese di origine, e questo può essere più penoso per chi vive la nuova condizione come inferiore a quella del recente passato.
Secondo l’orientamento psicosociale, un inter- vento efficace nei confronti dei migranti “forzati” è quello che considera diversi livelli (individuale, familiare, comunitario, sociale) in un lavoro mul- tidisciplinare e di rete. Tale intervento, lontano dall’idea di una netta assimilazione al modello della società di accoglienza, dovrebbe mirare a tutelare e valorizzare la specificità della cultura di appartenenza dei migranti, al fine di un cambia- mento costruttivo di tutta la società.
Riguardo al tema del riconoscimento della cul- tura di appartenenza del migrante, si può eviden- ziare che anche l’orientamento etnopsichiatrico, generalmente basato sul modello psicoanalitico, mette in risalto gli aspetti culturali nel rapporto terapeutico con i migranti, siano essi rifugiati, stranieri già residenti in un paese occidentale o persone appartenenti alle seconde generazioni di immigrati. Un aspetto interessante messo in luce all’interno del suddetto orientamento è il tema identitario: secondo Nathan (1986), nel processo migratorio le elaborazioni culturali che orientano le credenze, i modi di vita e le relazioni con gli al- tri – introiettate sin dall’infanzia, divenendo parte integrante dell’identità – non trovano corrispon- denza con quelle condivise nei contesti sociali di arrivo, ponendo così un problema essenziale di identità personale. Il riconoscimento di questa importante crisi identitaria avrebbe indotto Na- than a rivedere l’impostazione classica del setting psicoanalitico, introducendo un dispositivo grup- pale per il trattamento del migrante. Quest’ultimo è seguito contestualmente da un gruppo di tera- peuti: la presenza di più terapeuti, coadiuvati da un interprete, rimanda al paziente una situazione collettiva propria della sua cultura, consentendo- gli di ricevere l’appoggio e il riconoscimento di una piccola comunità, aspetti compromessi al mo- mento del distacco dal proprio paese di origine.