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Trauma del migrante

Come si può dedurre dalla lettura del paragra- fo precedente, la considerazione delle variabili culturali, che incidono profondamente nella co- struzione dell’identità, appare fondamentale nel lavoro psicologico o psicoterapeutico con i mi- granti, al fine ultimo di assicurare una condizione di benessere della persona nei contesti in cui si è chiamati a favorirne l’integrazione. Inoltre, se si è d’accordo sulla necessità del superamento di un approccio di lavoro esclusivamente fondato sulla cura dei sintomi post- traumatici, senza te- nere in considerazione una valutazione ad ampio raggio della persona in carico – valutazione che tiene conto, ad esempio, di crisi identitaria, shock culturale, distacco dagli affetti, assenza di una progettualità – , allora sembrerebbe opportuno ri- vedere lo stesso concetto di trauma, riferendolo all’esperienza specifica del migrante “forzato”.

L’ “Enciclopedia della psicoanalisi” di Laplan- che e Pontalis (Laplanche J., Pontalis J.B.,1967) descrive il trauma come «un evento della vita del soggetto caratterizzato dalla sua intensità, dall’in- capacità del soggetto a rispondervi adeguatamen- te, dalla viva agitazione e dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica…il trauma è caratterizzato da un afflusso di eccitazione che è eccessivo rispetto alla tolle- ranza del soggetto e alla sua capacità di dominare ed elaborare psichicamente queste eccitazioni».

Al di là di questa definizione classica e gene- rale, le parole di Lalli (1997) rimandano un’idea più specifica di come si caratterizzi l’esperienza traumatica nel migrante:

«…quando l’evento non è dovuto a fattori na- turali, ma alla violenza dell’uomo, il trauma divie- ne più grave e insopportabile. La fiducia di fondo nella bontà degli esseri umani crolla. Chi non ci ha protetto, chi ha permesso che quel terribile even- to succedesse? La perdita nella fiducia nel genere umano e nella funzione di prevedibilità e di pro- tezione da eventi esterni, viene percepita come conferma di timori ed angosce, come per esempio quella della morte e soprattutto quella dell’an- nientamento della personalità, dal momento che le consolidate certezze non garantiscono più la protezione. E questa credenza, della non esistenza di ‘uomini buoni’ ha da quel momento una conse-

guenza psicologica….» (Lalli N., 1997).

Un trauma generato da eventi naturali costringe la mente dell’individuo che lo subisce a confron- tarsi con conseguenze, anche gravissime, come la povertà e il lutto. In questi casi, nonostante le condizioni avverse, la persona può conservare una “fiducia” nella possibilità di fare riferimento agli altri. Quando, invece, il trauma è dovuto alla vio- lenza umana, certezze e convinzioni sulla fiducia nell’altro da sé vengono intaccate pesantemente o addirittura messe in crisi. È questo il caso dei rifu- giati vittime di torture nei quali l’evento traumati- co determinato dall’azione umana può provocare un significativo cambiamento della personalità, soprattutto nelle modalità con cui essa si rapporta con l’ambiente circostante e con gli altri.

Nel caso dei migranti, inoltre, in considerazione della complessità del fenomeno migratorio in sé, si parla di trauma prolungato multidimensionale,

costituito da tre componenti consecutive nel tem- po: il trauma premigratorio, il trauma migratorio e il trauma post-migratorio (Santone G., Gnolfo F., 2008). Il “trauma premigratorio” si caratteriz- za per una serie di eventi legati alle condizioni di violenza estrema nel contesto del paese di origine (persecuzioni, torture, deprivazioni di diritti, lutti, disastri ambientali e carestie), mentre il “trauma migratorio” attiene alle vicende dolorose affron- tate durante la fuga dai luoghi natii (partenza for-

zata e improvvisa con frequente impossibilità di avvisare le persone care, permanenza prolungata in campi profughi, viaggi drammatici, malnutri- zione, malattie non curate, aggressioni, talvolta morte dei compagni di viaggio, sfruttamento e violenze, comprese quelle sessuali, detenzione nei paesi di transito, respingimenti).

Discorso a parte merita il concetto di “trauma post-migratorio”, che si riferisce ai fattori di ri- schio per il benessere psicofisico del migrante (già potenzialmente compromesso), una volta rag- giunto un paese occidentale. In tale nuovo conte- sto, il migrante si confronta con il cambiamento di abitudini e stili di vita, shock culturale, allontana- mento dalla rete familiare e sociale, disoccupazio- ne o lavoro precario, alloggi di fortuna, povertà, discriminazione e marginalizzazione.

La persona, nel paese ospitante, deve far fron- te a molteplici adattamenti: deve apprendere una nuova lingua, nuove regole e nuove norme sociali. Contemporaneamente, i valori della cultura di origine, già messi in di- scussione dalla violenza della tortura e degli altri trattamenti degradanti e disumani, non sempre trovano spa- zio nel paese d’accoglienza. Tutto questo comporta un continuo sfor- zo per riconfigurare e ridefinire la propria identità. «Il contesto della “nuova realtà che accoglie” ripete, in maniera decisamente meno cru- dele, la condizione di esclusione e di violenza vissuti nel proprio paese o durante la fuga: la negazione del ri- spetto e della dignità nei confronti di se stessi. Tale stato nella letteratura scientifica spesso viene chiamato con il nome di stress da transculturazio- ne oppure stress da acculturazione, ovvero definito come una particolare condizione di pressione psicologica che il migrante si trova a dover gestire o subire nello sforzo di adattamento nel paese che lo ospita. Questa fase di esclusione sociale può determinare la riacutizzazione della sintomatologia post traumatica o possono emer- gere nuovi sintomi psicologici gravemente inva- lidanti e inquadrabili nei disturbi di adattamento» (Caldarozzi, 2010; p. 33).

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