*Psicologa, Psicoterapeuta ad indirizzo analitico transazionale, esperta in psicodiagnostica
**Psicoterapeuta TSTA, Dirigente Psicologo presso Servizio di Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro – A.S.L. Foggia
relativi ai vissuti persecutori (ad esempio, Tav. III: “Un uccello che scende in picchiata a pren- dere qualcosa ... qualche preda”; Tav. IV: “Un occhio malvagio che ci scruta da lontano”; Tav. IX: “Come se ci fosse una persona che domina, un dinosauro con un mitra davanti”) del nostro campione potevano essere confrontati con al- tri studi effettuati su persone mobbizzate, in cui l’uso del test psicometrico MMPI-2 (Minnesota Multiphasic Personality Inventory) aveva messo in evidenza proprio un’elevazione del punteggio nella scala clinica della Paranoia (Pa) a cui non si accompagnava solitamente un’elevazione signi- ficativa nelle altre scale psicotiche. Questo risul- tato, riscontrato anche nelle risposte ai protocolli del suddetto questionario nel nostro campione, si manifesta di solito nella presenza di atteggia- menti rigidi ed ostili dei soggetti con sindrome da mobbing nei confronti degli altri. Tali sintomi si accompagnano ad ipersensibilità nei rapporti in- terpersonali con una tendenza a generalizzare ed estendere la percezione di minaccia vissuta nel contesto lavorativo (Gandolfo, 1995; Matthiesen, 2001; Girardi e coll., 2007; Raho e coll., 2008). Dal nostro punto di vista, l’assenza dell’elevazio- ne delle altre scale psicotiche, indicherebbe pro- prio la reattività della psicopatologia che sfocia in quadri di franca psicosi con componenti forte- mente depressive e deliri persecutori quando non cambia la situazione ostile di contesto e non si trova benevolenza nelle relazioni: il principio di benevolenza identifica infatti la matrice della cura psicologica.
Le vittime di mobbing, invece, vengono viste dalla maggioranza dei clinici come persone debo- li con una passività innata in ragione dei risultati dei test, senza considerare che l’organizzazione2
2 Il mobbing è un aspetto dell’attuale organizzazio- ne del lavoro e della burocrazia che si manifesta all’in- terno di dinamiche di contesto quando singoli individui, conformandosi alla cultura del gruppo o del leader, di- ventano meri ripetitori d’obbedienza, schiavi del “non poter evadere da copioni irrigiditi”, indifferenti alla sof- ferenza inflitta agli altri. Questa indifferenza, definita in psicologia clinica alessitimia, mina la capacità empati- ca e contraddistingue gli attori del mobbing che mani- festano un alto grado di conformismo, passività, dipen- denza ed imitazione. Un tale profilo può essere esteso all’uomo delle organizzazioni che, incapace di provare
in cui lavorano non è un contesto neutro, in cui alcune dinamiche comportamentali e relazionali semplicemente o casualmente accadono, ma co- stituisce un vero e proprio fattore di rischio nel determinare la patologia psichica e fisica. In altre parole, i risultati dei test sono letti in maniera de- contestualizzata e parziale.
Si possono interpretare, dal nostro punto di vi- sta, i risultati dei test (passività ed ipersensibilità; meccanismi di difesa arcaici e controaggressività) come risposte del mobbizzato alla frustrazione dei bisogni relazionali (sicurezza, affermazione, rico- noscimento del proprio valore, accettazione, ecc. ecc.) e dei bisogni psico-sociali (appartenenza ed affiliazione) con cui si mantiene il senso di conti- nuità e la coerenza del Sé. In sostanza affermiamo che, in determinate circostanze di contesto, anche un soggetto sano (con un sistema d’attaccamento
emozioni e stati d’animo, deficitario nello sforzo di co- struire relazioni autentiche, assumerà il rigido copione del burocrate sincronizzandosi con la routine delle or- ganizzazioni, in un passivo adattamento che congelerà il dialogo interpersonale (Zamperini, 2007). Il mobbing è, quindi, un fenomeno psicosociale che evolve all’in- terno di un contesto in cui domina l’alessitimia indivi- duale e organizzativa. Un luogo in cui alcuni degli atto- ri sono precipitati nell’indifferenza, congelati nel ruolo di spettatori. Nella sua dinamica oltre all’aggressore e alla vittima ci sono, infatti, i cosiddetti bystanders (gli spettatori), che colludono e assistono indifferenti alle azioni, trattenuti in una condizione di inerzia da una condotta automatica, esito di processi imitativi, moti- vati dal perseguire la propria realizzazione o soprav- vivenza e il tornaconto personale, frutto di una densa e celata aggressività, proiettata strumentalmente sulla vittima designata.
sicuro) potrebbe subire una trasformazione trau- matica del Sé, determinata da relazioni ostili che lo attaccano negando i suoi bisogni, nell’identità e nei ruoli. Riteniamo, inoltre, che il quadro psico- tico, osservato in più di quattro anni nella nostra pratica clinica in alcuni soggetti, sia rinforzato dalla vittimizzazione secondaria dovuta all’as- senza di risposte in ambito istituzionale. Difatti, la vittimizzazione secondaria è un processo che implica la recrudescenza della condizione della vittima (victim blaming) riconducibile alle mo- dalità di supporto da parte delle istituzioni che utilizzano una eccessiva routinizzazione degli in- terventi, definita in letteratura one size fits all ap- proach. Esiste inoltre, secondo Melvin J. Lerner, la reazione sociale basata sulla convinzione che la sofferenza della vittima sia meritata e giustificata da un suo comportamento, Belief in a Just World Theory (Fanci G., 2011). La vittimizzazione se- condaria si traduce pertanto in una condizione di ulteriore sofferenza ed oltraggio della vittima che sperimenta, in relazione ad un atteggiamento di disattenzione o negligenza da parte delle agenzie di cura o di controllo formale nella fase del loro intervento, una situazione senza sbocco3.
Di conseguenza, il percorso terapeutico dei no- stri soggetti ha previsto in primis l’analisi delle pregresse risposte istituzionali per evitare il ri- schio di ripetere la dinamica della vittimizzazione secondaria e di ledere ulteriormente i confini del Sé, rinforzando così, attraverso la riproposizio- ne di risposte prive di empatia, responsabilità e benevolenza, le difese dissociative (detachment, compartmentalization) correlate al trauma da mobbing, sottovalutato, eluso e non curato.
Il trauma la cui natura, come sappiamo, è di tipo biologico, può compromettere il sistema psico- neuro-endo-immunitario producendo sintomi che
3 Le denunce delle vittime, finalizzate a ristabilire un equilibrio ed una coerenza tra regole formali ed in- formali organizzative, sono ignorate e senza risposta. Vengono percepite, nel migliore dei casi, come attac- co alla gerarchia dei ruoli del gruppo e all’immagine istituzionale. Tale processo distorto di gruppo, di lunga durata nel tempo e messo in atto attraverso attacchi al ruolo lavorativo, mina il Sé (sociale, psichico e fisico) del soggetto. La reazione psicotica costituisce una di- fesa estrema, una fuga dagli agiti violenti (suicidio e omicidio).
riguardano il corpo, la mente e che danneggiano le relazioni affettive e sociali con fratture che scon- volgono il percorso dell’esistenza. L’esperienza traumatica è sempre una minaccia inevitabile, ca- ratterizzata dall’insottraibilità, di fronte alla quale l’individuo è impotente. Impotenza che blocca il Sé, attaccando le sue funzioni, la percezione della sua unicità e continuità, la sua essenza. I mecca- nismi di dissociazione, che servono inizialmente come protezione del Sé e dei suoi stati adattivi, se usati in maniera intensa e massiccia, segnano il passaggio verso stati isolati, privi di nessi e di schemi interni equilibrati.
Perciò, come psicoterapeute formate ad una visione transazionale e sistemica dei problemi psichici, abbiamo cercato una teoria di matrice psico-sociale che potesse chiarirci il processo di sviluppo della patologia del Sé espressa dal nostro campione.
Assumiamo che l’Interazionismo Simbolico sia la teoria storica per leggere questa fragilità del Sé acquisita in età adulta e dovuta, secondo la no- stra lettura, a processi paralleli di vittimizzazione in cui l’erosione delle difese adattive è il risultato di una serie di azioni disconfermanti (microtrau- mi), agite in ampi archi di tempo, che producono sviluppi traumatici secondari in soggetti con un precedente funzionamento adattivo e con un Sé integrato.
Il Sé, infatti, per gli interazionisti ha una polari- tà individuale ed una sociale. La mente ha origine e si sviluppa in questo processo di interazione bio- psico-sociale e viceversa. Nella relazione costru- iamo la vita psichica cosciente (riflessività), così che anche l’intrapsichico si spiega risalendo al so- ciale, in un continuo processo di interazione e as- sunzione di ruoli (role taking). Per Mead, che è il padre dell’Interazionismo Simbolico, l’individuo entra in relazione con il mondo sociale attraverso un incessante conversazione interiore/soliloquio che consiste in un flusso costante tra due polarità del Sé: l’I e il Me. L’I costituisce l’impulso ad agi- re, il lato più naturale dell’essere umano, mentre il Me rappresenta l’insieme delle aspettative della società, dei gruppi che l’individuo ha interiorizza- to mediante ripetute assunzioni di atteggiamenti e ruoli altrui (Ceretti, Natali, 2009).
Di conseguenza, la disconferma continua del Me, in un contesto privo di sostegno, abusante,
rompe gli schemi coerenti dei ruoli interiorizzati e blocca anche l’altra polarità del Sé, l’I nei mecca- nismi di difesa primitivi.
L’attacco al ruolo lavorativo (Me) si estende all’I producendo una lesione del Sé dell’indivi- duo: Sé che è costituito, in un’ottica analitico- trasazionale, dagli stati dell’Io e dai ruoli che l’in- dividuo assume nella vita personale, familiare e sociale.
Bernd Schmid (2010), che espande il concetto analitico transazionale degli stati dell’Io di Eric Berne, definisce la personalità come l’insieme dei ruoli sui palcoscenici del mondo. La sua rivisita- zione degli stati dell’Io, a nostro avviso, coeren- te con l’Interazionismo Simbolico, smarca il Sé dall’astratto riportandolo al sociale e conferma che la salute è anche una questione di contesto e contenuto nella complessità delle dinamiche gerarchiche di gruppo. Di conseguenza il Sé, se- guendo questa visione, può essere definito come “un insieme di stati dell’Io e di ruoli che il sog- getto interpreta e assume nel corso della vita in base al riconoscimento realmente ricevuto dagli altri in un determinato contesto d’appartenenza”. Il ruolo, infatti, riprendendo Schmid, … “è un sistema coerente di atteggiamenti, sensazioni, comportamenti, visioni della realtà e di relazioni di accompagnamento”. Le relazioni costruiscono di fatto il Sé integrato (o non integrato) di un indi- viduo durante tutta l’esistenza.
L’elaborazione del modello a tre mondi (con- testi) di Schmid, inoltre, definisce che il Sé è in rapporto con il mondo privato, il mondo orga- nizzativo ed il mondo professionale. Così che un attacco, ad esempio, al ruolo lavorativo (mondo professionale) contaminerà anche i ruoli degli al- tri due mondi e avrà un impatto sul Sé globale (bio-psico-sociale) con messa in atto di un proces- so destruente, come risulta dalla nostra esperienza clinica. Il ruolo, quindi, è necessario per l’identità e l’identificazione con l’altro e per mantenere le funzioni riflessive del Sé. Esso ci posiziona tra gli altri e ci lega agli altri nei gruppi (primario e se- condario) e nelle organizzazioni.
Da questa breve disamina si chiarisce che la lettura del “fenomeno mobbing” dovrà essere at- tuata, secondo lo schema dei processi paralleli, a livello intrapsichico e relazionale, gruppale e or- ganizzativo considerando che gli ultimi due dan-
no origine alle disfunzioni soggettive e relazionali per l’impatto che hanno sui bisogni fondamentali degli individui. Seguendo la lettura interazionista e quella di Schmid possiamo considerare, di con- seguenza, il mobbing un processo di vittimizza- zione esteso.
Pertanto, riconosciamo nel “mobbing” una forma di terrore psicologico, ripetuto e protratto nel tempo in un’organizzazione (gerarchia esecu- tiva) lavorativa, agito attraverso azioni di discon- ferme e palese abuso di potere (withecollarcri- me4), che arrecano danno ad uno o più soggetti
soggetti, ponendoli nel ruolo di capro espiatorio. La persona mobbizzata subisce un attacco dettato solitamente da un pregiudizio condiviso ed atti- vato strumentalmente in risposta a meccanismi di conformismo all’autorità in un contesto in cui non esistono più regole e leggi.
4 Rientrano nel concetto di “crimine del collet-
to bianco” quelle fattispecie di reati commessi da un
soggetto rispettabile, di elevata condizione sociale, che nell’ambito della propria occupazione, abusa della posizione del ruolo ricoperto. “Questi illeciti non sol-
tanto causano danni economici di gran lunga superiori a quelli generati dalla criminalità delle «persone co- muni», ma rappresentano anche una grave minaccia all’ordine morale. Nonostante questo, vengono puniti con una pena solamente come extrema ratio, quasi a voler tutelare il responsabile dall’etichetta di «crimina- le». La responsabilità principale di questa differenza di trattamento è del legislatore, «o meglio, dell’ipocrisia delle pratiche di attuazione della legge», che dimostra- no chiaramente che il reato altro non è che una costru- zione sociale che rispecchia il volere della classe domi- nante. L’insistenza sul concetto di reato serve a mettere in evidenza come la posizione di rilievo dei colletti bianchi venga spesso utilizzata per sottrarre la condot- ta deviante di questi ultimi alla sanzione penale, collo- candola piuttosto in sede civile o amministrativa, quasi depenalizzando azioni che, in realtà, nel momento in cui le si comparano con i delitti disciplinati dal Codice Penale, possono anche risultare più gravi e dannose. Questa depenalizzazione, unita alla capacità di questi soggetti «rispettabili» di potersi permettere una difesa legale brillante e di poter utilizzare a proprio vantaggio conoscenze influenti, va a destigmatizzare le proprie condotte, che non vengono percepite né come devianti, né tantomeno come criminali da parte della collettività. Il diritto penale viene applicato in modo da evitare che lo stigma del crimine colpisca il reo-colletto bianco ...”
Anche Marie France Hirigoyen (1998) affer- ma che il mobbing è un comportamento abusivo, minaccioso per la dignità (identità) e l’integrità psicofisica di una persona, che mette non solo in pericolo il suo posto di lavoro ma degrada irrime- diabilmente il clima lavorativo. Questa studiosa descrive inoltre la vittima di mobbing come un soggetto con particolari qualità che suscita l’in- teresse dell’aggressore per la sua intelligenza, coscienziosità, senso del dovere, sensibilità e capacità di donarsi agli altri. Le sue acute rifles-
sioni sono confermate dall’osservazione, presso il SPESAL della ASL di Foggia, di numerosi casi in cui il mobber, estremamente bisognoso di ricono- scimenti esterni (narcisista con tratti antisociali) o più semplicemente incompetente, fa leva sulla sua posizione gerarchica superiore, manifesta o nascosta, perché la sente minacciata, a torto o a ragione, da chi sceglie come vittima. La vittima viene quindi reiteratamente attaccata nel ruolo per essere allontanata (svalutata o piegata ai propri interessi o alla propria scalata professionale) con condotte disconfermanti che, nel tempo, diventa- no prassi (copione) nel gruppo di lavoro, soprat- tutto se ad agirle sono soggetti con elevato grado di responsabilità, “che detengono le intenzioni di comando e di instaurazione di una mission cul- turale prevalente” (bossing culture), innescando il fenomeno del capro espiatorio in un contesto operativo professionale, peraltro, eticamente e so- cialmente non responsabile (Bussotti, Moriondo, Roma, 2010).
Il mobbing, in ultima analisi, è un processo violento, che va letto sempre alla luce della psi- cologia sociale e delle dinamiche strumentali di gruppo. Esso è basato, come ci insegna Girard
(1987), sugli stereotipi della persecuzione che conducono, durante periodi di crisi istituzionali, alla violenza collettiva e alla scelta di un capro espiatorio. Il crollo delle istituzioni, cancellando o comprimendo le differenze gerarchiche e fun- zionali, moltiplica gli scambi ostili in un contesto in cui prevale la confusione che sommerge e fa di- menticare tutte le leggi dell’amore e della natura. La diffusione endemica attuale di questo stra- no fenomeno esige di conseguenza diversi livelli d’intervento nel sistema sociale che implicano tre aree d’analisi: il gruppo, l’organizzazione e l’isti- tuzione.
Ai fini della riduzione del fenomeno sarebbe necessario intervenire, come psicologi clinici, an- che sul gruppo direttamente coinvolto e sul conte- sto organizzativo allargato.
A conferma di quanto abbiamo fin qui scritto, diversi studi (Depolo, 2003) hanno dimostrato lo stretto legame tra il mobbing e l’organizzazione. Aspetti legati strettamente all’organizzazione (in termini di clima organizzativo e politiche dell’or- ganizzazione) o alla leadership pongono le basi per il proliferare del fenomeno. A ciò si aggiunge spesso una leadership troppo autoritaria, troppo permissiva che può indurre, nel primo caso, ad un mobbing verticale e, nel secondo, ad un mobbing orizzontale (Giorgi, Majer, 2009).
Alcune organizzazioni dove, ad esempio, è presente una maggiore spinta al conformismo e pressione di gruppo, sembra che siano più sog- gette al verificarsi di episodi di mobbing. Esso è particolarmente diffuso in quelle aziende in cui le persone sentono di essere implicitamente le- gittimate nell’esercitare comportamenti negativi soprattutto quando non vi sono politiche di pre- venzione o interventi punitivi per il mobber.
Infine, fattori come la globalizzazione, che por- ta ad anteporre il profitto alla persona, la compe- titività tra le imprese che condiziona i processi di riorganizzazione del lavoro, il surmenage lavora- tivo per produrre sempre di più e in poco tempo si riversano inevitabilmente sul lavoratore. Ne consegue, quindi, che un’organizzazione non sana riversa il suo malessere sul lavoratore attaccando il suo ruolo.
Il ruolo, come abbiamo visto, permette di an- dare al di là della visione esclusivamente intrapsi- chica ma di considerare la personalità, come dice
Schmid (2010), anche una “questione di contesto e di contenuto”.
In conclusione, come psicoterapeute non pos- siamo non porre attenzione al singolo e alle con- seguenze che il mobbing può avere sul suo benes- sere psichico e poiché il suo Sé è costituito da un Io più intimo e un Me sociale è proprio quest’ulti- mo che funge da ponte tra l’individuo e l’ambien- te. Pertanto non si può prescindere dal considerare come un’organizzazione folle, attaccando il ruolo, crei una lesione al Me dell’individuo e quindi alla totalità del suo suo Sé, alla sua identità.
Gli effetti del mobbing5 sono da leggere dun-
que come il risultato sull’individuo di un processo parallelo di vittimizzazione (nel contesto lavora- tivo e nelle agenzie di cura e controllo) di lunga durata, dovuto a meccanismi di psicologia sociale (pregiudizi, dinamiche di gruppo, ecc).
Riteniamo che il mobbing sia, in ultima analisi, la riproposizione dei miti della Grecia antica in cui il capro espiatorio, aveva la funzione di assor- bire il loimos, lo sporco della comunità. Esso non può che essere spiegato se non con la forza estre- ma dei meccanismi vittimari, individuati da Gi- rard, in particolare nel libro Il Capro Espiatorio in cui ci illumina sul significato della persecuzione. Bibliografia
Bussotti, G., Moriondo, S., (2010). Valutazione del mobbing. Manuale per la gestione del rischio dei lavoratori e delle lavoratrici, Ediesse, Roma. Ceretti, I. A., Natali, L., (2009). Cosmologie Violente,
5 La sindrome da mobbing è stata inquadrata come:
Disturbo dell’Adattamento (DA); Disturbo Acuto da Stress (DAS); Disturbo Post-Traumatico da Stress. Sul piano sociale, vi sono due conseguenze del mobbing che assumono particolare valore: il primo riguarda l’in- fluenza negativa che il mobbing ha sulla salute delle persone, il secondo i danni che esso produce alle re- lazioni affettive e professionali con pesanti ricadute di tipo economico. Quanto alle cause, il mobbing, nell’o- pinione comune, in particolar modo in Italia, si assume che sia originato in un contesto di carenza di capacità organizzative; dal nostro punto di vista, questa interpre- tazione rappresenta la giustificazione che sostiene le condotte abusanti dei colletti bianchi. Per consentire la disamina del fenomeno è dunque necessaria un’at- tenta analisi delle organizzazioni che consideri come le patologie della leadership generino ed alimentino il mobbing.
Raffaello Cortina Ed., Milano.
Depolo, M., (2003). Quando la prevenzione è interven- to, Franco Angeli, Milano.
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Girardi, P., Monaco E., Prestigiacomo C., Talamo A., Ruberto A., Tatarelli R. (2007). Personality and psychopathological profiles in individuals exposed to mobbing. Violence Vict., n.22, pp. 172-88. Hirigoyen, M. F., (1998). Molestie morali. La violen-
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