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Sbarco a Messina e approntamento delle quinquirem

Nel documento Maritima : Roma sul mare (pagine 92-95)

CAPITOLO IV ROMA E CARTAGINE

4.5. Sbarco a Messina e approntamento delle quinquirem

La grande flotta messa insieme per il trasporto e lo sbarco dell’esercito romano in Sicilia era costituita da unità da guerra piuttosto leggere - triremi e navi da cinquanta remi - integrate da navi onerarie per il trasporto di tutto quanto fosse necessario per la logistica. Completato l’imbarco, il console Appio Claudio salpò per Messina; durante la traversata la flotta romana venne intercettata da quella punica, che “ingaggiò con i Romani una battaglia per mareTP

393

PT“,

inducendoli a ritirarsi nel porto di Reggio. Poiché “i Cartaginesi custodivano lo StrettoTP

394

PT“,

Appio Claudio fu costretto ad arrestare la sua marcia.

In quell’occasione, una quinquereme cartaginese, portatasi troppo sotto costa per la foga dell’inseguimento, si sarebbe arenata sulla spiaggia calabra, venendo in tal modo catturata dai RomaniTP

395

PT. Ma nella sua storia dei Romani, giustamente Gaetano De Sanctis fa osservare che

“i Romani, i quali avevano vinto e quindi erano diventati alleati di Taranto e di Siracusa, non avevano bisogno di copiare la quinqueremi naufragata per iniziare la costruzione della loro flotta né

TP

389

PT Polib., I, 20. TP

390

PT Iohan. Lyd., De magistr., I, 27. TP

391

PT T. MOMMSEN, Storia di Roma, cit., vol. II, p. 234. TP

392

PT Amp., XLVI. TP

393

PT Diod., XXIII, 2; da Diodoro Siculo - Biblioteca Storica, Libri XXI-XL, Giorgio Bejor (a cura di), Rusconi

Libri, Milano, 1988.

TP

394

PT Frontin., I, 4, 11; da Giulio Frontino - Gli Stratagemmi, trad. it. di Roberto Ponzio Vaglia, Casa Editrice

Sonzogno, Milano, 1919.

TP

395

di esercitare in terra i loro marinai perché i “socii navales” della Lega italica avevano ciurme già rotte al mare”.TP

396

PT

I Cartaginesi, attraverso un’ambasceria inviata a Reggio, provarono a dissuadere il console dal proseguire la missione, mostrandosi stupiti che i Romani potessero avventurarsi verso la Sicilia mentre essi detenevano il pieno controllo del mare: i Romani dovevano convincersi che, solo mantenendo delle buone relazioni con i Cartagine, avrebbero potuto azzardarsi a mettere in acqua le proprie naviTP

397

PT. Ciò doveva riflettere l’effettivo atteggiamento mentale

cartaginese all’inizio della guerra; e si trattava comunque di tesi suffragate da una realtà inequivocabile: la schiacciante superiorità navale punica, in termini di consistenza delle flotte, di dimensioni e di prestazioni delle singole unità (le quinqueremi, in particolare), di esperienza di combattimento navale dei comandanti e degli equipaggi, di capacità dei cantieri navali, ecc..

Trovandosi a Reggio, bloccato dalla flotta punica che presidiava lo stretto di Messina, Appio

e tutte le e navi ed attraversare lo stretto di notte, portando così la sua flotta a Messina senza

alla libertà di movimento dei Cartaginesi sul mare. In tale situazione, le otte puniche rendevano precaria ogni conquista romana sulle coste della Sicilia e potevano

avrebbe potuto essere

one rilevati dallo studio dell’unità cartaginese catturata sulla costa

introdurre sulle nuove navi da costruire per il secondo sbarco navale in Britannia delle caratteristiche dello scafo del tutto innovative, ciò che dovette necessariamente comportare il vero e proprio studio di un nuovo piano di costruzioneTP

400

PT.

Claudio sarebbe ricorso ad un audace stratagemma: lasciando che trapelasse e si diffondesse la falsa notizia del suo abbandono della spedizione, ed avendo poi fatto avviare svariate unità in mare aperto, come se stessero dirigendo per rientrare nei rispettivi porti della Penisola, avrebbe atteso il conseguente allontanamento delle navi cartaginesi per poi radunar

su danniTP

398

PT.

Nel biennio 263-262, i Romani poterono avvalersi anche del concorso della flotta del re Gerone di Siracusa, con cui si erano alleati. Tale flotta, tuttavia, ancorché utilissima ai fini della sicurezza dell’afflusso dei rifornimenti logistici romani, non era in grado di imporre alcuna limitazione

fl

nel contempo effettuare anche delle saltuarie incursioni sulle coste della Penisola, mentre i Romani potevano ottenere dei successi durevoli solo in alcune zone della Sicilia e non avevano alcuna possibilità di minacciare il territorio africano.

Avendo quindi molto presto compreso che nessun risultato risolutivo

conseguito qualora non fossero riusciti, essi stessi, ad acquisire il pieno controllo del mare, i Romani intrapresero la costruzione della loro prima grande flotta costituita prevalentemente da quinqueremi (cento unità, a cui vennero aggiunte venti triremiTP

399

PT). Per costruire quelle

grandi poliremi, non utilizzate dalle marinerie d’Italia e per le quali non erano pertanto disponibili delle specifiche esperienze cantieristiche, secondo la tradizione, sarebbero stati utilizzati i piani di costruzi

calabra. Non essendovi elementi per comprovare la veridicità di questo episodio (ma nemmeno per invalidarla), ci si dovrebbe limitarci alla sua verosimiglianza: chiunque abbia qualche esperienza di costruzioni navali non potrebbe che trovarlo del tutto credibile e perfino ovvio, essendo piuttosto scontato che un buon carpentiere navale sia perfettamente in grado di costruire un nuovo scafo - anche più grande delle sue costruzioni abituali - riproducendo integralmente un modello già disponibile. Qualcosa di molto più complesso verrà poi fatto da Cesare in Gallia, quando, tenendo conto di quanto osservato sulle navi dei Veneti, volle

TP

396

PT G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, cit., p. 56. TP 397 PT Diod., XXIII, 2. TP 398 PT Frontin., I, 4, 11; Polib., I, 11. TP 399 PT Polib., I, 20. TP 400 PT Caes., B.G., V, 1-2.

Mentre la costruzione delle navi procedeva, venne curata la preparazione del personale. Dovendo formare ex-novo tutti gli equipaggi necessari, e dovendoli in particolare addestrare al complesso remeggio delle quinqueremi, venne realizzato a terra un vero e proprio

allenatore costituito dalla riproduzione dei banchi dei rematori esistenti a bordoTP

401

PT.

“Essi si servivano di questo metodo: facevano sedere gli uomini su banchi per rematori, disposti sulla terraferma, nello stesso ordine dei banchi della nave, nel mezzo ponevano il capo, li abituavano a gettarsi tutti insieme all’indietro accostando al petto le mani, quindi a chinarsi in avanti spingendole in fuori, e ad iniziare e cessare il movimento agli ordini del comandanteTP

402

PT“.

Il sistema, tuttora in vigore per l’allenamento dei canottieri alla voga, deve essere stato

a ad abbordare (trattenendole poi con dei rampini o mani di ferro). I

che quelle navi che, per la maggior velocità o per le migliori qualità evolutive, si

utilizzato anche in altri casi nell’antichitàTP

403

PT; nella storia romana, peraltro, un esempio celebre

di addestramento degli equipaggi in porto è quello relativo alla preparazione della nuova flotta di Ottaviano, nel portus Iulius, sotto il comando di Marco AgrippaTP

404

PT.

I Romani erano inoltre ben consapevoli di dover affrontare equipaggi addestratissimi, con i più esperti comandanti esistenti nel Mediterraneo, e delle navi costruite con le migliori tecnologie - e quindi in possesso di qualità nautiche (velocità e capacità evolutive) ottimali - mentre essi stavano costruendo per la prima volta delle quinqueremi (non avendo esperienza di costruzioni superiori alle triremi). L’enorme divario tattico e tecnologico richiedeva una adeguata compensazione.

È nella primavera del 260 che la prima flotta militare romana si spinse, costeggiando, verso lo stretto di Messina, dopo che il primo scontro navale era stato particolarmente umiliante per i Romani. Nelle acque di Lipari un ammiraglio cartaginese aveva catturato con sole 20 navi 17 navi romaneTP

405

PT. Che i Romani fossero inferiori ai Cartaginesi come strategia e tattica

marinara nessun dubbio; che le loro navi non fossero costruite con tutti i perfezionamenti tecnici è anche vero, ma nella battaglia di Milazzo le cose cambiarono. Nei combattimenti navali dell’antichità, l’avversario veniva innanzi tutto impegnato con il lancio di proiettili, quindi con azioni di speronamento - con il rostro, per sfondare le fiancate delle navi nemiche o anche per danneggiare gli organi di governo (remi e timoni) - e, infine, con l’arrembaggio delle navi che si riusciv

Romani vollero migliorare le proprie possibilità di arrembaggio - a cui provvedevano i militi

navali imbarcati (detti anche soci navali o classici) - mediante l’invenzione del corvo (mentre

gli autori romani parlano di mani di ferro, talvolta associate al lancio di una passerellaTP

406

PT), la

cui struttura è stata descritta in modo particolareggiato da PolibioTP

407

PT: si trattava di una

passerella orientabile che, sistemata a prora e manovrata con un sistema analogo a quello dei

picchi di carico, agganciava la nave nemica che si voleva abbordare; essa risultò utilissima ai

Romani nei loro primi grandi confronti con il nemico, poiché li mise in condizione di poter arrembare an

sarebbero sottratte alle loro manovre di affiancamento.

TP 401 PT Polib., I, 21. TP 402 PT Polib., I, 21. TP 403

PT P. JANNI, TIl mare degli AntichiT, cit., p. 284. TP

404

PT Vell., II, 79, 1-2. TP

405

PT Il comandante della flotta romana, il console Gneo Cornelio Scipione, era stato attirato a bordo della nave

ammiraglia cartaginese con un inganno (invito ad un colloquio) e fatto prigioniero. Questo primo insuccesso romano venne compensato subito dopo dal succcesso conseguito dai Romani sulla flotta di Annibale il Vecchio a capo Vaticano TP 406 PT Frontin., II, 3, 24. TP 407 PT Polib., I, 22.

È noto che a questa macchina si è legato, fin dall’antichità, lo stucchevole ritornello che le attribuisce la capacità di “trasformare la battaglia navale in un combattimento terrestre408”,

i romani) - è sempre stata una forza marittima non si atta, pertanto, di legionari imbarcati.

ei combattimenti navali dell’antichità, come detto, tutte le azioni erano precedute ed accompagnate dal lancio di proiettili; non appena si trovasse a tiro, il nemico era impegnato

l rostro, per sfondare le fiancate elle navi nemiche o anche per danneggiare gli organi di governo (remi e timoni) - e, in un

r arrembare anche quelle navi che, per la maggior velocità per le migliori qualità evolutive, si sarebbero sottratte alle loro manovre di affiancamento.

Romani introdussero la novità del corvo o rampone col quale agganciavano le navi nemiche

che mutò la scherma navale. Con parole che hanno sempre un acuto sapore

Nel documento Maritima : Roma sul mare (pagine 92-95)