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Simone Weil ha orientato la propria attenzione sulla questione della guerra fin dall’infanzia. Simone Pétrement, sua coetanea e biografa, riporta che la sua prima lettera e prova di scrittura, del gennaio 1916 (Simone aveva appena cinque anni), pone alla zia Gabrielle, cui l’aveva inviata, la seguente domanda: “Cosa pensi della situazione (riguardo alla guerra)?” (Pétrement 1973, p. 33, vol. I). Nello stesso perio-

do, insieme al fratello André, Simone inizia una corrispondenza con alcuni figliocci di guerra. A undici anni compone una fiaba, Les lutins du feu (I folletti del fuoco) (cfr. Weil 1968, pp. 7, 64-65), in cui le fiamme di un camino suggeriscono la fanta- smagoria di personaggi che lottano, svaniscono e si rianimano.

In seguito, riferendosi all’Exposition Coloniale di Vincennes del 1931, Simone Weil scrive: “Mai dimenticherò il momento in cui, per la prima volta, ho sentito e compreso la tragedia della colonizzazione (…). Da quel giorno non posso incontra- re un Indocinese, un Algerino, un Marocchino senza provare il bisogno di chieder- gli perdono” (1989b, p. 341). Più tardi, tra il 1937 e il 1939 redigerà una dozzina di articoli, denunciando il governo francese e mettendo a nudo le false ragioni finaliz- zate solo a nascondere i disegni del potere di Stato. Il colonialismo è la malattia prin- cipale dei paesi europei e la responsabilità è fatta ricadere anche sulle parti a lei più vicine, come la sinistra francese, i sindacati, la classe operaia, il Fronte popolare non- ché i partiti che teorizzano l’internazionalismo proletario. La Weil pensa che il dram- ma coloniale potrebbe trovare una soluzione equa solo se l’Europa fosse capace di riconoscersi “media proporzionale tra l’America e l’Oriente, essendo convinta che dopo la guerra l’americanizzazione dell’Europa costituirebbe ‘un gravissimo perico- lo’” (1960a, p. 371; cfr. Marchetti 1990).

Allieva prediletta, al liceo Henri IV, di Alain di cui condivide il pacifismo radica-

le, aveva teorizzato la propria posizione in un articolo del 1933 apparso su «Critique Sociale» (cfr. Weil 1988b), in cui si condanna qualsiasi guerra straniera, assunta come una prova incomparabile per il funzionamento dell’apparato dello Stato. Anche una guerra rivoluzionaria, pur provocando una viva ostilità contro il capitali- smo e lo Stato borghese, finirebbe per volgere tale ostilità a profitto della macchina statale. Se la guerra risulta essere una realtà costitutiva dello Stato – nemico del popolo –, allora una rivoluzione sociale sarebbe legittima se fosse capace di rinun- ciare a ricorrere alla guerra. Perché sotto tutti i nomi di cui si riveste – fascismo, democrazia o dittatura del proletariato – il nemico capitale resta “l’apparato ammi- nistrativo, poliziesco e militare”; non quello di fronte, che è nostro nemico solo in quanto lo è dei nostri fratelli, ma quello che, proclamandosi nostro difensore, ha fatto di noi i suoi “schiavi”.

forza. Eppure già nell’articoloNe recommençons pas la guerre de Troie (1937)1, pro- vocato dalla tragedia di Giraudoux, possiamo cogliere un’intonazione che prean- nuncia la necessità di svuotare le parole dei nostri significati e delle nostre certezze di cui le avevamo rivestite. L’articolo, pubblicato nel 1937, illustra una rubrica dei «Nouveaux Cahiers» dal titolo molto significativo: Pouvoir des mots2. La tesi che legava la guerra all’esistenza degli Stati e delle ingiustizie sociali deve ora confron- tarsi con qualcos’altro, con ciò che la pensatrice chiama “la nube delle entità vuote”.

L’oggetto ora non è solo il potere dello Stato (o meglio lo è obliquamente); è anche il potere delle parole, il suo nesso con il dominio della tecnica e la materia inerte. I gruppi umani si battono per delle parole veicolanti “astrazioni cristallizza- te” che a forza di essere riempite di significati assoluti finiscono per essere insensa- te. Ma è proprio intorno all’uso assoluto di termini come nazione, sicurezza, capita- lismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia che si schiera- no “vere e proprie organizzazioni”. Le parole divenute entità, “stupiscono le menti; non solo provocano la morte, ma fanno dimenticare il valore della vita”; finiscono per perdere la loro concretezza, il loro rapporto reale e diventare nefasti fantasmi; come Elena, servono da pretesti agli Stati per giustificare il loro bisogno di guerra per il loro bisogno di pace e viceversa. Diventa inimmaginabile che sarebbe più ragionevole ottenere un armistizio in Spagna che dissanguare il paese nel nome di “vuote entità”; che sarebbe più efficace favorire in Germania un “relativo rilassa- mento dell’autoritarismo statale” che versare il sangue dei Tedeschi in nome della democrazia. Tanto più che non esiste nessuna entità nazionale che incarni in assolu- to la libertà, la democrazia, tanto meno la Francia con le sue colonie.

Nell’insieme lo scritto sembra difendere la ragionevolezza dello statu quo inter- nazionale di fronte all’assurdità di una guerra mondiale. Al di là delle indicazioni di “ragionevolezza”, del tutto improbabili se confrontate con gli sviluppi successivi e il tragico epilogo, ma non per questo prive di una loro verità, una riflessione s’impone sulla questione centrale che è all’origine del testo stesso. Che cosa ha voluto sugge- rire Simone Weil nell’indicare fra le priorità del momento “l’opera urgente di risa- namento pubblico” attraverso “la “caccia alle entità” cristallizzate in un “vocabola- rio artificioso” (Weil 1937, p. 49)?

Nell’epoca in cui la nostra scienza accumula i più raffinati meccanismi atti a risol- vere i problemi più complessi, le parole si mostrano non essere altro che il riflesso dei nostri pregiudizi, delle nostre passioni, della nostra volontà di dominio. Ciò che si annuncia attraverso le parole sono le nostre verità precostituite. Nell’illusione di piegare ciò che incombe, abbiamo velato il male con il bene, ridotto il bene a entità rappresentabile e definibile, degradandolo a forza. Invece di disporci al reale che si annuncia nel linguaggio, abbiamo ceduto alla tentazione di dominarlo; invece di sof- frire la forza e di affidare all’ascolto e all’annuncio delle parole il senso della nostra sventura abbiamo usato il linguaggio per nasconderla e obliarla. Una “relativa sicu- rezza” ci è garantita dal predominio tecnico sulla natura. Per comprendere questo nuovo orizzonte della tecnica, occorre risalire alle origini della nostra civiltà, alla sua poesia inaugurale. Per ciò Simone Weil è ricondotta ad attingere al genio della Grecia “non risorto nel corso di venti secoli”, attraverso la rilettura dell’Iliade, “la sola autentica epopea che l’Occidente possieda”. L’Iliade ou le poème de la force (1940-41), redatto tra il 1938 e il 1939, offre una delle interpretazioni più originali SIMONE WEIL E LA GUERRA: LETTURE DELLA POSTERITÀ 

Simili argomentazioni appaiono presto insufficienti di fronte alla situazione crea- tasi in Spagna. La questione della guerra s’impone in tutta la sua urgenza e contrad- dittorietà. In un progetto d’articolo si legge: “Dall’inizio della politica di non-inter- vento, una preoccupazione mi pesa nel cuore” (Weil 1989a, p. 43). Simone Weil, che aveva avuto fiducia in Léon Blum e approvato la sua politica, ora teme che egli non sia coerente con se stesso. Quella logica che gli ha permesso di sacrificare minatori, contadini operai spagnoli dovrebbe essere la stessa a guidarlo in caso di aggressione contro il territorio o i territori garantiti dalla Francia. “Nulla, né l’Alsazia-Lorena, né le colonie, né i patti” e quindi neppure il patto di assistenza che la Francia aveva sti- pulato con la Cecoslovacchia, e nient’altro al mondo dovrà essere “più caro della vita del popolo spagnolo” (p. 64). Tale fermezza denuncia in realtà l’esigenza di un rigo- roso ripensamento del suo pacifismo.

Dopo la sofferta partecipazione alla guerra civile spagnola, l’impatto in Catalogna con l’orrore dell’eccidio e l’interruzione causata da una grave ustione al corpo da olio bollente, in una lettera a Georges Bernanos, di cui aveva letto Les Grands cimé- tières sous la lune, scrive:

Ho lasciato la Spagna mio malgrado e con l’intenzione di farvi ritorno; in seguito non ne ho fatto nulla. Non sentivo più alcuna necessità interiore di partecipare a una guerra che non era più come mi era apparsa all’inizio, una guerra di contadini affamati contro i latifondisti e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra la Russia, la Germania e l’Italia (1960b, p. 221).

Dopo la lezione tratta dalla esperienza della guerra civile spagnola, sembra esse- re approdata a un punto morto, a una lucida disperazione aggravata ancor più dal volgere della politica tedesca. Ma non resta inattiva. Il 1937, anno in cui compie anche un viaggio, decisivo, in Italia, è un anno di riflessioni, di difficili conversazio- ni con gli amici e d’interventi su alcune riviste come «La Flêche», «Esprit», «Vigilance» e «Nouveaux Cahiers». Pacifista, è impegnata nel dibattito suscitato da quelle riviste e sostanzialmente radicato, a partire da quell’anno, in due punti: la pace e la decolonizzazione.

Attratta, ormai da tempo, da quel “miracolo greco” che ha prodotto il teatro immobile dei tragici, Simone Weil era rimasta colpita dalla tragedia di Jean Giraudoux, La Guerre de Troie n’aura pas lieu, andata in scena a Parigi nel novem- bre del 1935, due anni prima dell’ascesa di Hitler al potere. Il titolo di per sé annun- ciava l’ironia della sorte: Ettore, malgrado i suoi sforzi pacifisti, e proprio quando era sicuro di aver evitato al suo popolo la guerra, è lui stesso all’ultimo momento e involontariamente, a provocare il tanto temuto conflitto. Alla sentenza di Andromaca giubilante: “Non ci sarà la guerra di Troia”, con cui si apre la prima scena, fa eco, nell’ultima, quella di Ettore disilluso: “Ci sarà”.

Le due dichiarazioni contraddittorie e riflettenti, secondo l’intenzione del dram- maturgo, speranze e timori dei suoi contemporanei, possono essere assunte come il paradigma della posizione della Weil di fronte alla guerra. Se nel 1937 la vediamo impegnare tutta la sua intelligenza critica affinché “non si ricominci la guerra di Troia”, nel 1939, di fronte al dato irreversibile, troverà proprio nella lettura del poema omerico la parola chiave per leggere l’essenza metafisica della guerra: la

umana è un succedersi di delitti orrendi, e questa è forse la stessa visione della realtà che lampeggia nel racconto del polemologo greco. Non c’è alcuna esalta- zione della forza nel riconoscerla come la legge irrimediabile che domina sovrana l’esistenza stessa. Atene, edotta sulla “verità del male” e in guerra contro Sparta, non tollera la neutralità nella propria area di dominio o influenza. I più forti s’im- maginano sicuri di poter manipolare senza limiti la forza ed esercitare un potere di vita o di morte sugli alleati “disertori”. I più deboli, avendo esaurito gli argo- menti etico-politici a loro difesa, finiscono con l’appellarsi alla speranza e infine, persuasi di essere nel giusto, si affidano alla probabilità di un intervento divino in loro favore. Entrambi sono immersi nel sogno dell’irrealtà. Soltanto un atto di follia potrebbe sospendere quel sogno, soltanto un’ispirazione che agisca al di fuori dei meccanismi delle compensazioni e dell’immaginazione, un’attenzione pura che consumi l’illusione in passione e traduca la sventura in “conoscenza soprannaturale”.

Al centro della riflessione di Tucidide è la guerra, ma al suo orizzonte è la que- stione della politica, la rathymìa degli ateniesi celebrata da Pericle, la terribile sere- nità e indifferenza di Atena che conduce senza odio e senza amore verso la regione della sottomissione al principio di realtà. La pace è ciò che si ottiene con la guerra. Se nella guerra si ammettesse la legittimità dei ragionamenti dei meli, si cadrebbe in una irrealtà peggiore. La natura è una necessità, ha leggi intrinseche, quelle della pesanteur (la forza di gravità). Il Bene è una necessità di un altro ordine e insieme l’a- spirazione universale incancellabile nel cuore dell’uomo.

Le parole, fintantoché velano questo rapporto irriducibile fra la necessità e il bene, non riescono a dire la giustizia e neppure a indicarla: “Ci sono tre misteri quaggiù, tre cose incomprensibili. La bellezza, la giustizia e la verità” (1950, p. 258). Dagli Stati Uniti Simone Weil aveva raggiunto “France Libre” (l’organizzazione politica capeggiata da De Gaulle, esiliato in Inghilterra), con la ferma volontà di rea- lizzare il “Progetto per una formazione di infermiere di prima linea”. Il “Progetto” coglieva con grande lucidità il significato profondo dell’“eroismo della brutalità”, cui attingeva energia la guerra hitleriana come a un surrogato di “spirito religioso”, e si fondava sulla ferma convinzione che occorresse opporvisi, oltre che con le armi, con una “tutt’altra ispirazione”, quella che avrebbe dovuto animare un pugno di donne disposte a correre il rischio della morte. L’idea venne sempre respinta e con- siderata da De Gaulle stesso una “follia”. Le si chiedeva invece, nella sua qualità di redattrice, di esaminare i documenti politici che giungevano dalla Francia, selezio- narli e annotarli criticamente al fine di facilitare l’attività delle Commissioni Nazionali istituite dal generale per definire i principi che avrebbero dovuto rifonda- re la Francia dopo la guerra.

In uno schizzo incompiuto di quel periodo possiamo leggere: “Una dottrina non serve a nulla, ma è indispensabile averne una, non foss’altro per evitare di essere ingannati dalle false dottrine” (1957a, p. 151). In realtà, le riflessioni di Simone Weil, orientate a illuminare di senso il radicamento – “il bisogno più importante e misco- nosciuto dell’anima umana, e tra i più difficili a definire” – scartavano la nozione di diritto elaborata dalla moderna tradizione giuridica e dovettero apparire ai capi dei servizi della Francia combattente privi di ogni concretezza nell’ordine di una qual- che progettazione politica.

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del poema omerico e insieme del destino umano. L’Iliade è “un quadro uniforme di orrore” dove nulla sfugge alla forza che trascina tutto quanto incontra nella caduta, nella sua gravità; visione tragica, non temperata da alcun conforto, né immaginazio- ne consolatrice, né speranza d’immortalità, né “scialba aureola di gloria o di patria”. Tutti, anche quelli che non lo sanno ancora, sono sottomessi alla forza, tutti con- dannati a “essere ridotti a cosa, a cadavere”. Tutto è destinato a perire, anche le vane glorie di cui sono rivestiti gli eroi. Solo l’equità e la purezza della poesia poteva guar- dare in faccia la guerra, senza velarne le atrocità, senza prendere partito per l’un o l’altro campo, senza disprezzare né vinti né vincitori. L’amore del poeta traspare solo negli accenti della sua amarezza suscitata dal destino di cui gli dei non sono che la figura e per il quale tutto è sottomesso alla materia e alla sua forza di gravità.

Ma lo spirito di “purezza e semplicità” in cui bagna l’Iliade non è sopravvissuto alla civiltà greca; dopo la distruzione della Grecia, non ne restano che “riflessi”. La dialettica occidentale di guerra e pace rivela un’incapacità di guardare la sventura con “semplicità e purezza”, ossessionata dal desiderio, una volta che della guerra e della pace ne ha fatto due entità, di sopprimere l’una attraverso l’altra. L’Iliade è una “cosa miracolosa” perché il poeta, rinunciando a disporre della forza, rinunciando all’uso delle parole, cioè a proiettare in esse i suoi timori e le sue speranze, ha potu- to amare “dolorosamente” ciò a cui nessun mortale può sottrarsi: il destino. “L’uomo che non è protetto da una menzogna non può subire la forza senza esser- ne colpito in fondo all’anima. La grazia non può impedire che tale attentato lo cor- rompa, ma può impedire la ferita” (pp. 227, 253). Tale è la serenità tragica del genio epico. Potranno gli uomini dell’Occidente ritrovarla? Forse, risponde Simone Weil, quando sapranno “non ritenere nulla al riparo della sorte, non ammirare mai la forza, non odiare i nemici e non disprezzare gli sventurati” (ib.).

Luttons pour la justice? (1953) è il titolo di uno dei vari scritti redatti nell’ultimo periodo londinese, tra il dicembre 1942 e l’aprile 1943. In queste pagine la questio- ne della guerra in atto è affrontata con estrema lucidità sullo sfondo del celebre testo di Tucidide. Nell’anno 416 a.C. gli ateniesi, al culmine ormai della loro potenza, attaccano la piccola isola di Melo che si era dichiarata neutrale e v’impongono con la forza il loro dominio. L’isola è conquistata e i suoi abitanti sono uccisi o deporta- ti. Su questo fatto storico, Tucidide compone il Dialogo dei Meli e degli Ateniesi che egli immagina svolgersi tra i rappresentanti delle due parti prima del disastro. Le parole ruotano intorno al nodo insolubile del diritto alla neutralità, della guerra necessaria e della guerra giusta. Atene non potrebbe riconoscere le ragioni dei Meli senza rischiare di offuscare la propria immagine di grande potenza, per questo la guerra diventa inevitabile. Se i più deboli sono condotti dalla loro scelta alla disfat- ta, la vittoria dei più forti aleggia come un triste presagio sul declino ormai prossimo (404 a.C.) del loro impero.

Simone Weil scarta le polemiche disquisizioni, filologiche e psicologiche, le premesse canoniche che hanno da sempre accompagnato le discordanti interpre- tazioni nobilitanti o ferine del testo cruciale. Non si tratta di sapere se sia giusto prendere le difese dei meli, e quindi condannare la politica di sopraffazione per- seguita dagli ateniesi, questo è l’atteggiamento che generalmente ha prevalso nelle letture, antiche e moderne, del dialogo. In realtà la lettura weiliana si concentra tutta sulla questione della giustizia in un mondo subordinato alla forza. La storia

si, già Aristotele obiettava che i mali continueranno a sussistere in quanto costituti- vi dell’uomo, e che nessuna realizzazione politica potrà mai porvi rimedio.

Il compimento morale dell’individuo è possibile solo nell’ordine politico, ma mentre per Platone la moralità è una realtà sostanziale (l’equilibrio creato nell’anima tramite la giustizia), per Aristotele è l’attualizzazione della virtù nel senso che il com- pito della vita morale viene affidato alla polis. La politeia sarebbe impossibile senza un accordo sulla giustizia.

Simone Weil, sembra assumere una posizione singolare, in cui, anche nel loro scontro frontale, Platone e Aristotele non si escludono, allo stesso modo in cui le figure del giusto, quella biblica di Abramo che obbedisce all’ordine di sacrificare e l’altra, quella greca di Antigone che agisce contro l’ordine della legge e della politi- ca, nella loro opposizione s’incontrano in ciò che fa essere giusti. La follia di entram- bi i personaggi è postulata dall’attenzione. “Si è cercato di affidare la giustizia a certi meccanismi per evitare l’attenzione umana. Non è possibile… (…). L’attenzione umana sola esercita legittimamente la funzione giudiziaria” (Weil 1950, p. 323).

Se non è morta in circostanze di guerra, o di resistenza (Simone Weil è morta a Londra di privazioni volontarie), la sua morte sconcerta poiché appare come una risposta alla impossibilità di partecipare fisicamente alla resistenza, impossibilità che era vissuta come un fallimento. Al momento della guerra civile spagnola si era arruo- lata nelle Brigate internazionali. “Non amo la guerra”, scriveva in seguito a Bernanos, “ma ciò che mi fa più orrore nella guerra è la situazione di coloro che si trovano nella retroguardia” (1960b, p. 221).

Nel 1943, a Londra, Simone Weil si sente nella retrovia, non ottenendo di essere integrata ai combattenti come aveva ottenuto da Durruti nella guerra di Spagna. Le viene richiesto di servire la causa di France Libre come redattrice. Si sa con quale ostinazione avesse reclamato di essere sottratta a tale occupazione da intellettuale e di essere paracadutata in Francia per congiungersi alla Resistenza. Questa linea di condotta appariva inconfondibile fin dal periodo dell’École Normale in cui era soprannominata “la vergine rossa”e nel 1934 quando, insegnante liceale di filosofia, aveva chiesto un congedo per studio che in realtà le doveva permettere di farsi assu- mere come operaia non qualificata. Dalla protesta contro “la degradante divisione del lavoro in lavoro manuale e lavoro intellettuale” (1988b, p. 279) si matura la volontà di congiungere l’atto alla parola. Così anche a Londra, per Simone Weil non è possibile pensare la guerra, le sue cause, i suoi effetti e le augurabili prospettive – ciò che le veniva richiesto di stendere per iscritto – restando nella retrovia.

Fino all’occupazione tedesca di Praga nel 19393, Simone Weil è risolutamente