Sera. Vento quasi in bonaccia. Su una barca all’ancora nei pressi dell’estuario di un grande fiume, ci sono cinque amici.
Osservando l’andirivieni delle luci delle barche che percorrono il fiume e, a ponente, “la città più vasta e potente del mondo”1– il centro politico, militare, eco- nomico di un impero vastissimo –, uno degli uomini a bordo non può non fare a meno di pensare alla grandezza di quella stessa metropoli e a tutti coloro che parto- no e sono partiti da qui verso luoghi lontani e sconosciuti facendosi messaggeri della potenza di questa terra e depositari di una scintilla del sacro fuoco della civiltà.
Sembra che tutto sia sempre stato così e che così sarà sempre: che la civiltà qui abbia sempre avuto la propria dimora.
All’improvviso però, inaspettatamente, un altro rompe il silenzio con questa affermazione: “E anche questo è stato uno dei luoghi tenebrosi delle terra”. E con- tinua… Si pensi per esempio all’epoca in cui i romani giunsero su queste sponde – ormai fanno tanti secoli, ma nella breve storia dell’uomo è come se fosse l’altro ieri. Immaginiamoli qui, al limite della terra conosciuta, di fronte a un mare color del piombo e a un cielo color del fumo, e banchi di sabbia, acquitrini, foreste, sel- vaggi, e freddo, nebbia, tempeste, malattie… Poco da mangiare adatto al palato di uomini raffinati e civilizzati qual erano. Immaginiamo i loro rimpianti, la voglia di fuggire, il disgusto, l’odio per questi luoghi che ora, a distanza di secoli, appaiono così luminosi.
La cosa può anche non risultarci gradita, ma, è vero, la storia dell’uomo e di quel- le città che sono gli emblemi concreti della sua potenza è un alternarsi di luce e tene- bre: ce lo hanno insegnato gli storici sin dai tempi remoti. Scriveva Erodoto:
Poiché quelle [città] che un tempo erano grandi, ora per lo più sono diventate di scarsa importanza; mentre quelle che ai tempi miei sono grandi, prima erano trascurabili (…). La prosperità non rimane mai fissa nello stesso luogo (Storie, I, 5, 2001 p. 32).
L’essere umano però – è cosa nota – ama vivere nel qui e ora, e quando si trova all’apice delle proprie fortune non spera soltanto che tutto rimanga sempre così com’è – il che potrebbe apparire legittimo –, ma si illude anche che tutto sia sempre stato così, e non sopporta che gli vengano ricordate le proprie oscure origini.
Ma come fa a ignorare le parole autorevoli di Erodoto? o quelle dell’uomo sulla barca che, non a caso, narra una storia che a nessuno piace ascoltare?
Semplice, ricorre a un’operazione di censura e propaganda, ovvero ad altri nar- ratori capaci di presentargli una vicenda che illumini, occultandole, quelle tenebre
(…). Credete poi che sia poca felicità plasmare e riplasmare a piacimento le sacre scrit- ture come fossero cera? (…) Se, per disgrazia, c’è qualcosa che non s’accorda, punto per punto, con le loro conclusioni esplicite e implicite, essi, quali censori dell’universo mondo, costringono l’imprudente alla palinodia, pronunziando come per bocca dell’ora- colo la sentenza: “Questa proposizione è scandalosa, quest’altra poco reverenziale, que- sta puzza di eresia, quest’altra suona male” (…). E chi avrebbe liberato la Chiesa dalle tenebre di tanti errori, di cui nessuno mai si sarebbe neppur accorto alla lettura, se costo- ro non l’avessero proclamati (…)? Ma poi… non son essi gli uomini più felici di questo mondo, ciò facendo? E… quando poi dipingono con tanta precisione ciò che avviene a casa del diavolo, come se avessero abitato parecchi anni negli stati di costui? O quando a lor talento si fabbricano nuove sfere, aggiungendone infine una, l’Empireo, che è la più ampia e più bella, evidentemente, perché non manchi dove le anime dei beati possano comodamente andar a spasso o banchettare o anche giocare a bocce? (Erasmo, LIII)
Possiamo anche non prendere sul serio queste parole – è la Follia a parlare! – ma non si può non ammettere che siano condivisibili: propaganda e censura sono due facce della stessa medaglia. Ciò che le accomuna sono inoltre semplicità e chiarezza: in modo semplice e chiaro la propaganda propina quel che intende propinare con “dolci cantilene” e, altrettanto semplicemente e chiaramente, la censura “emette sentenze”. Non è un mistero che la semplicità sia l’arma migliore della propaganda e della censura: l’espressione di certi principi e l’eliminazione di altri deve essere chiaramente recepita. Meglio che il dubbio non entri in gioco. Già, perché il loro scopo è quello di far passare per assolute o assolutamente vere le proprie argomen- tazioni, e la complessità, si sa, porta a pensare, e, pensando, può anche venirci in mente – specialmente a noi che viviamo in epoca postmoderna – che ci possano anche essere altre verità – magari censurate – oltre a quelle “plasmate e riplasmate” a proprio “piacere” da chi ha interesse a farlo.
Comunque sia, la storia sta a testimoniare che abili maestri di propaganda e cen- sura sono riusciti a imporci le proprie opinioni senza trovare, molto spesso, che pochissimi ostacoli, e a volte nessuno.
Che questo desiderio di semplicità e chiarezza abbia a che fare con la prospetti- va infantile con cui il nostro Super-Io ama trasfigurare la realtà?
Forse sì, perché la storia insegna pure che coloro che sono capaci di presentare la realtà rendendola dorata, anche quando (ovvero sempre) non lo è, eliminando quello che non ci fa piacere sentire o vedere; di farci credere che siamo eroi, i più forti e i più potenti (per forza siamo troiani o romani o britanni o chissacché…); o di farci andar fieri di imporre la nostra cultura e visione del mondo censurandone altre altrettanto degne o forse più: ebbene, questi fanno sempre proseliti.
Mi viene in mente un professore inglese di scuola superiore, tale Tom Crick, che mette in guardia i propri alunni dai rischi dell’abitudine a non farsi domande com- plesse, spiegando loro quanto molto spesso sia nefasta la voglia acritica di chiarezza e semplicità:
Ragazzi non smettete mai di chiedere perché. Non cessate la vostra domanda, Perché, signore? Perché signore? Anche se diventa più difficile ogni volta che la domandate, anche se diventa sempre più inesplicabile, più penoso, anche se la risposta non sembra mai avvicinarsi, non tentate di sfuggire a questa domanda, Perché (Swift 1983).
INTRODUZIONE
che lo avvolgevano nel passato. Non importa che gli eventi narrati siano privi di qualsiasi fondamento storiografico; basterà che li si riesca a rendere verosimili.
Allo scopo, per esempio, si potrà prendere un poeta di comprovata fama e affi- dargli il compito di scrivere un poema nazionale, sperando che la sua immaginazio- ne concepisca magari un illustre antenato – meglio se di discendenza divina – pro- veniente da una di quelle metropoli che in tempi passati ha avuto altrettanta poten- za, da una di “quelle città che erano grandi un tempo”. Se si vuole poi si ci si potrà anche rivolgere a uno scultore che ribadisca il concetto sui pannelli a rilievo di un altare della pace.
Ed ecco allora che, al culmine della sua gloria imperiale, Roma diventa l’erede della maestosa e celebrata Ilio, e i romani i diretti discendenti dei valorosi troiani.
In tempi remoti sulle sponde selvagge del Tevere poteva pur regnare la tenebra più fitta, ora però domina Ottaviano Augusto, che da queste stesse sponde porta la luce dell’impero e della civiltà nei luoghi più barbari e remoti, prendendo salda- mente in mano, a mo’ di testimone, la fiaccola che gli porge l’antenato Enea, figlio di Venere e progenitore della gens Iulia.
Altri luoghi e altri tempi, la formula censorio-propagandistica non cambia. Qualche secolo dopo, e con un pizzico in più di fantasia, anche Londra – quella metropoli che si intravede dalla barca all’ancora – potrà fregiarsi di un simile pedi- gree e sorvolare sulla propria storia di tenebra e barbarie. Certo, sulle sponde del Tamigi non arriva Enea: lui ha già assolto al suo compito. Vi giunge però – stando a varie leggende medievali2– attorno al 1100 a. C. un altro troiano suo diretto discen- dente, Bruto, primo sovrano dell’isola che da lui prende il nome e fondatore, sulle rive del Tamigi, della città di Troia Nova, ovvero Trinovantum ovvero Londra. Così, fra viaggi epici, eroi leggendari e lotte contro giganti, i primordi della Britannia ven- gono ricollegati ai miti del mondo classico. E non importa che nella zona vivesse la tribù celtica dei trinovanti, e neppure che questo civilizzatore troiano sia giunto molto prima di quei romani cui si riferisce l’uomo sulla barca, che hanno trovato questi luoghi così tenebrosi e selvaggi. Si sa, il tempo del mito e della leggenda non è scandito dal ritmo del cronometro della storia. E si sa anche che spesso la propa- ganda è più allettante della verità, anche perché è semplice, più chiara e senz’altro più gratificante; e che la censura le si allea in questo senso, eliminando ogni possibi- le complessità che confonderebbe le menti. È innegabile: è assai più bello essere i discendenti di un eroe troiano – uno che ha avuto a che fare con Ettore, Achille, Ulisse, Paride e chissà chi altri – che non, per esempio, di uno scimmione, a meno di non essere un fervente devoluzionista e pensare che le scimmie siano derivate dal- l’uomo a seguito di particolari e sfortunate circostanze.
Ma sentiamo che ha da aggiungere a proposito delle operazioni di censura e pro- paganda un personaggio che ha sempre smascherato le umane debolezze senza peli sulla lingua:
quegli altri intanto, al colmo della beatitudine, gongolano fra se stessi e si applaudono, talché tutti presi come sono, giorno e notte, dalla dolcezza di queste cantilene, non resta loro un po’ di tempo per sfogliare, anche una sola volta, il Vangelo o leEpistole di san Paolo. E blaterando con siffatte vuotaggini per le scuole, si illudono che, altrimenti, la Chiesa universale crollerebbe e che son essi a sorreggerla col sostegno dei loro sillogismi