Parte prima: Le immagini di guerra. Una complessa mediazione tra documen- to storico e finzione
Vita Fortunati
Susan Sontag, in uno dei suoi ultimi lavori (2003), mette in luce la complessità dell’uso della fotografia come documento storico in un’epoca, come la nostra, domi- nata dai media. In questo libro la studiosa rivede in maniera critica alcune sue posi- zioni teoriche, proprio alla luce dei tragici eventi storici: le guerre tra Bosnia e Serbia e soprattutto l’attentato terroristico alle Twin Towers di New York dell’11 settembre 2001. Dopo lo shock iniziale, la consuetudine alle immagini catastrofiche, di deva- stazioni e di orrori può provocare nello spettatore il fenomeno perturbante dell’as- suefazione così come la spettacolarizzazione dell’evento può ingenerare confusione tra realtà e finzione. Non è più sufficiente la compassione, la generica reazione emo- tiva che la visione delle immagini di guerra provoca, ma occorre essere vigili, reagi- re e intervenire criticamente per analizzare e decostruire la miriadi di immagini da cui quotidianamente siamo bombardati.
Di fronte alle ingiustizie del mondo, alle disuguaglianze e alla povertà Sontag afferma l’importanza dell’azione e dell’impegno politico per evitare che si verifichi- no ancora tragedie così efferate come quelle di cui il Novecento e in seguito il nuovo millennio sono stati testimoni. Gli unici strumenti per reagire alla pericolosa apatia che fa pensare allo spettatore medio di essere impotente di fronte alla dose di vio- lenza e di atrocità che quotidianamente giornali e televisione propinano, sono la riflessione e il pensiero critico. In questa prospettiva, la fotografia si configura come un medium complesso quando si propone di rappresentare e di visualizzare i con- flitti; in particolare questo fenomeno si è acuito con l’uso della fotografia digitale e della sua circolazione on line.
1. La fotografia di guerra e dei conflitti pone in primo piano il complesso rap- porto che essa ha con la realtà e ripropone questioni che riguardano il suo statuto epistemologico. Fin dalla sua nascita Walter Benjamin e Siegfried Kracauer erano consapevoli di quanto complesso fosse il rapporto tra fotografia e Storia. Recentemente sia l’uso delle fotografie nei testi di Storia, sia le sofisticate tecnologie impiegate per produrre le immagini hanno riacceso questo dibattito: la fotografia digitale e soprattutto il potere che l’alta tecnologia ha di manipolare la realtà ha messo in luce come la fotografia, lungi dall’essere una mera trascrizione, una regi- strazione oggettiva della realtà, rappresenti piuttosto una sua manipolazione. A que-
monianza personale di colui che ha scattato la foto. Proprio per questa sua caratte- ristica ambiguità la fotografia è un’arte unica e singolare: essa è una trascrizione della realtà e al contempo una sua interpretazione. La fotografia non è mai solo il traspa- rente resoconto di un evento, perché inquadrarlo significa scegliere di mettere in risalto alcuni aspetti e tralasciarne altri. Allo stesso modo la fotografia ha un rap- porto dialettico con il tempo: la fotografia fissa, blocca il flusso del tempo, offre l’im- magine di una persona in un particolare momento del passato. Per questo essa non solo è capace di evocare il passato, ma anche di anticipare il futuro (cfr. Barthes 1980). Gli studi critici hanno quindi messo in luce la polivalenza e l’intensità semio- tica della fotografia; come afferma Hayden White (11998888, p. 1193) analizzare le foto- grafie richiede: “una modalità di lettura piuttosto diversa da quella che è stata svi- luppata per la lettura dei documenti scritti” dal momento che presuppone la cono- scenza della grammatica e della sintassi del discorso visivo.
La fotografia proprio perché, come dice Barthes, è ontologicamente referenziale, non porta in sé alcun messaggio. Per questo è importante leggerla, interpretarla, contestualizzarla, conoscere cioè le circostanze in cui è stata scattata. La fotografia deve essere sempre identificata, soprattutto quando si tratta di una fotografia del passato, quando c’è una distanza temporale dal soggetto rappresentato, perché ciò che una fotografia “dice” può essere letto in vari modi. Essa quindi può assumere diversi significati in rapporto non solo a differenti contesti storici, ma anche ai dif- ferenti luoghi in cui vengono mostrate (libri, giornali o mostre). Nel suo interessan- te libro sulle fotografie della guerra di Spagna Caroline Brothers, seguendo gli studi di John Tagg (1988), sottolinea che il significato delle fotografie e sopratutto il loro valore di documenti storici, si comprende se si analizza il modo con cui esse sono state “costruite”, le condizioni del contesto storico della loro produzione e del loro uso da parte delle istituzioni. Nel caso specifico per esempio per le foto della guer- ra di Spagna è importante tenere in considerazione i giornali su cui venivano pub- blicate, le didascalie, gli articoli che le accompagnavano e le “news agencies”. Esse infatti hanno avuto un ruolo essenziale per influenzare l’opinione pubblica:
La guerra civile spagnola è la prima guerra moderna a essere stata fotografata liberamen- te e ampiamente per un pubblico di massa e segna la nascita della moderna fotografia di guerra come la conosciamo. È stata anche la prima guerra moderna in cui è stato critico il coinvolgimento straniero (Brothers 1997, p. 2).
Se è vero che per uno studio scientifico della fotografia come documento storico è necessaria questa accurata ricostruzione del contesto storico, è anche vero che alcune fotografie della guerra civile di Spagna e anche altre relative alla prima o alla seconda guerra mondiale hanno acquisito nella memoria collettiva un valore che tra- scende il preciso contesto storico. Sono diventate una sorta di “icone laiche”, emble- mi dell’umana sofferenza, della paura, dell’oppressione: la memoria collettiva e indi- viduale nell’obbedire ai propri bisogni ha conferito a queste immagini un valore emblematico, trascurando, per interpretarle, le particolari circostanze storiche in cui sono state scattate. Così talvolta accade che le didascalie sotto la fotografia che pre- cisano il contesto storico in cui sono state scattate sembrano svianti rispetto all’im- magine che la fotografia è venuta a rappresentare. È il caso, come ricorda Sontag,
I CONFLITTI E LA FOTOGRAFIA
sta accusa che viene fatta alla fotografia digitale si può obiettare che il fotografo fin dagli esordi è stato in grado di manipolare e ritoccare la fotografia. Certamente la strumentazione elettronica ha reso queste manipolazioni molto più rapide e più sem- plici rispetto al passato.
Il dibattito sull’uso della fotografia come documento storico è molto vivo tra gli stessi studiosi: da una parte vi sono coloro che ritengono che lo storico non può non tenere conto nel suo lavoro di strumenti quali la televisione, il cinema e la fotogra- fia, altri invece sono scettici. Essi affermano che i media non offrono una vera cono- scenza storica, perché tendono alla semplificazione dei fatti e alla loro spettacolariz- zazione, finendo per disorientare e neutralizzare la coscienza storica degli spettato- ri. Più utile da un punto di vista metodologico appare la posizione degli studiosi che, lungi dall’assumere un atteggiamento apocalittico nei confronti dei “media”, sono consapevoli che ogni nuovo mezzo e nel caso particolare la fotografia si serve di un suo specifico linguaggio per veicolare il proprio messaggio.
In un interessante articolo apparso sulla rivista greca «historein» Gregory Paschalidis afferma che per troppo tempo gli storici sulla base di un presunto “rea- lismo fotografico” si sono serviti delle fotografie per illustrare le loro narrazioni sto- riche, credendo ingenuamente che esse costituissero una rappresentazione diretta della realtà (cfr. Paschalidis 2003-2004). Come afferma Raphael Samuel (1994), men- tre siamo soliti mettere tra virgolette una fonte scritta, quando nel corso dei nostri lavori la vogliamo citare, non lo facciamo per la fotografia, non tenendo presente che anch’essa è un documento e quindi va analizzata e interpretata criticamente con una adeguata strumentazione. Peter Burke in un contributo (2001) sull’uso della foto- grafia nella storiografia ha recentemente sottolineato che gli storici devono diventa- re consapevoli che: “la testimonianza delle immagini, proprio come quella dei testi, pone problemi di contesto, funzione, retorica, memoria, mediazione” (p. 15). Questa presa di coscienza della complessità della fotografia come “documento sto- rico” è stata ritardata da una serie di testi che hanno riproposto l’idea che l’immagi- ne fotografica sia una rappresentazione diretta della realtà avvalorando ancora una volta l’ipotesi di una ingenua epistemologia di “realismo fotografico” (cfr. ad es. Daniel, a cura, 2000).
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento vi è una convergenza di obiet- tivi tra la storiografia scientifica e la fotografia: da una parte la storiografia, attraver- so l’esame accurato delle fonti e degli archivi, pretendeva di dare una rappresenta- zione scientifica della realtà, allo stesso modo la nascita della fotografia come “elio- grafia” cioè come “iscrizione automatica dello spazio sulla lastra fotografica con l’aiuto della luce solare” (Kracauer 1927, p. 425) si proponeva lo stesso scopo. Sia la storiografia che la fotografia quindi volevano essere una registrazione oggettiva e fedele della realtà. Tale sicurezza è venuta meno, perché la presunta neutralità nella registrazione della realtà storica è stata minata dalla consapevolezza che ogni narra- zione storica non può prescindere dall’aspetto retorico e finzionale del linguaggio. D’altra parte gli studi sulla fotografia hanno messo in luce come in essa la registra- zione della realtà sia sempre filtrata dal punto di vista soggettivo del fotografo, di colui che ha scattato la fotografia. La fotografia è arte complessa, perché presenta nel suo statuto qualità contrapposte e talvolta antitetiche: la sua intrinseca oggetti- vità e la diretta “referenzialità” si mescola con il suo essere inevitabilmente la testi-
strumento per collegare il passato con il presente sia nella storia personale che pubblica: la fotografia come ponte che unisce i vivi con i morti, la storia con la finzione. Come suggerisce John Berger vi è un nesso molto stretto tra fotografia e memoria:
Con l’invenzione della fotografia acquisiamo un nuovo mezzo di espressione più stretta- mente associato alla memoria di ogni altro (…). Sia la fotografia sia il ricordo dipendono dal tempo e al contempo vi si oppongono. entrambi preservano singoli momenti, e pro- pongono una forma di simultaneità, in cui tutte le loro immagini coesistono. Entrambi sti- molano e sono stimolati dalla interconnessione degli eventi. Entrambi cercano istanti di rivelazione, poiché solo quegli istanti danno pienamente ragione alla loro capacità di resi- stere al flusso del tempo (Berger, Mohr 1982, p. 280).
Marianne Hirsch mette in luce come alcune fotografie – in particolare quella famosa di Anne Frank e quella del ghetto di Varsavia (“From the Stroop Report on the Destruction of the Warsaw Ghetto”) – siano state icone che hanno giocato un ruolo centrale per la rielaborazione del trauma nei confronti della generazione i cui parenti erano stati vittime dell’Olocausto1. Esse sono state lette e reinterpretate in differenti contesti storici da persone di diverse generazioni e sono state capaci di intrecciare un importante legame affettivo con i parenti scomparsi nel tragico ecci- dio. In questo senso le fotografie dell’Olocausto non solo sono “ostinati sopravvis- suti alla morte”, ma hanno anche la capacità di fare scaturire quella che Hirsch (2001) definisce “post-memoria” cioè una sorta di memoria in cui il singolo entra in un rapporto empatico con la sofferenza e i sentimenti dell’altro. Hirsch usa il termi- ne “post-memoria” per descrivere la relazione tra i figli dei sopravvissuti da traumi collettivi e l’esperienza dei loro genitori, esperienza che i figli ricordano solo come storie e immagini con cui sono cresciuti, immagini e racconti che sono così potenti, così monumentali da divenire vere e proprie memorie.
Anche nel fotomontaggio della fotografa americana Lorie Novak, dal titolo emblematico Past Lives (1987), ricompare questa importante funzione della foto- grafia: Past Lives si costruisce attraverso la sovrapposizione di molteplici immagini: immagini del passato si intrecciano con quelle della vita personale della fotografa. In un primo piano vi è l’immagine dei bambini israeliani sorridenti nascosti nell’orfa- notrofio di Izieu, da dove furono in seguito deportati dai nazisti a Klaus Barbie. In mezzo vi è la fotografia del viso sorridente di Ethel Rosemberg che nel 1954 fu con- dannata alla sedia elettrica assieme al marito e dietro vi è l’immagine della madre sor- ridente di Lorie Novak che tiene in braccio Lorie quando aveva soli tre anni. Alla base di questo fotomontaggio vi è l’interessante concetto che la fotografia, proprio per la sua potente capacità evocativa, ha la capacità di mediare criticamente non solo il presente, ma anche il passato. Questa opera infatti connette tre differenti momen- ti storici che hanno come tratto comune la sofferenza dei bambini barbaramente uccisi dai nazisti, quella di Ethel Rosemberg, vittima del maccartismo, due episodi che fanno parte della memoria personale della fotografa. Ed è per questo che Novak a queste immagini sovrappone sullo sfondo quella della propria madre. Così in Past Lives la memoria individuale si intreccia con quella collettiva. Questo uso critico e politico della fotografia si discosta profondamente dal fenomeno del “revival nostal- gico” del passato che la nostra società postmoderna sta vivendo2.
I CONFLITTI E LA FOTOGRAFIA
della famosa foto di David Seymour, detto Chim, scattata in Spagna, della donna che mentre allatta guarda con apprensione in alto, il cielo. La didascalia sotto la foto- grafia recita “Riunione per la distribuzione della terra, Estremadura, Spagna 1936”. Questa foto non è stata letta come registrazione storica della riunione politica che avvenne quattro mesi prima dello scoppio della guerra, ma come una foto emble- matica che annunciava i tremendi bombardamenti aerei che avrebbero distrutto completamente interi villaggi e città.
La fotografia non illustra semplicemente un fatto storico, perché essa è un’arte che possiede un suo codice con determinate regole e quindi genera un suo specifico discorso. Come ricorda Paschalidis: “Utilizzata come illustrazione della narrazione storica, la fotografia è condannata al silenzio; il suo discorso è tacitato da una dida- scalia esplicativa che consiste in un perentorio, epigrammatico ‘ecco’” (2003-2004, p. 35). Solo se lo storico è consapevole che la fotografia è una fonte storica specifica con una sua intrinseca polivalenza semantica e con determinate regole, essa sarà in grado di rivelargli aspetti inediti, nuove prospettive del fatto storico che essa rap- presenta. In questo senso la fotografia non è mai solo l’illustrazione di un fatto sto- rico, né tanto meno una mera appendice del testo scritto, ma tra la parola dello sto- rico e l’immagine fotografica si deve instaurare una proficua interazione, un dialogo: parola e immagine si interrogano su di un evento storico cercando di dare, ognuna con i propri mezzi, una risposta ai difficili quesiti che l’esperienza storica di eventi complessi pone.
2. Ernst Junger osservò che fare la guerra e scattare fotografie erano attività assi- milabili. D’altra parte è interessante notare come da un punto di vista semantico in inglese il verbo “to shoot” indica l’atto dell’uccidere, ma anche quello di scattare le fotografie. Le prime guerre che sono state fotografate sono state quella di Crimea (1854-56) e la guerra civile americana. È solo durante la prima guerra mondiale e la seconda che, grazie al perfezionamento delle attrezzature professionali, si sono potu- te scattare fotografie sui campi di battaglia e studiare da vicino le vittime civili o i soldati stremati e gravemente feriti.
La fotografia è un’arte che ha da sempre corteggiato la morte, perché come ricor- da John Berger: “La fotografia, poiché arresta il flusso della vita, flirta sempre con la morte” (1985, p. 122). D’altra parte gli storici della fotografia hanno sottolineato che da un punto di vista sociale ai suoi esordi essa veniva usata soprattutto per fissare le immagini dei morti e che la sua diffusione commerciale era legata al genere della fotografia “postmortem” o alla “fotografia memoriale” (BBaazziinn 11995588, p. 9). Nell’affascinante saggio di Roland Barthes (1980) sulla fotografia ci sono pagine molto intense sull’antinomico rapporto che la fotografia ha con il tempo: l’arte della fotografia ha la capacità di fissare in un attimo il gesto, l’espressione di una persona e il particolare di un determinato evento, ma fissandoli li uccide. Questo è l’aspetto che Barthes trova perturbante nella fotografia, perché essa ha la capacità di mettere in scena un evento che pur collegandosi con il passato anticipa il futuro.
Ma la fotografia ha anche un potere consolatorio perché, se è capace di cat- turare il presente, ha anche quello di preservare il passato, di evocarlo. Corey K. Creekmur (1996) sottolinea l’importanza delle fotografie nella riorganizzazione del ricordo e nella elaborazione del lutto. La fotografia quindi può diventare uno
mentare chi l’osserva. Ma mentre nessuno osa mettere in discussione e criticare la grande arte di Goya che si è cimentata nel rappresentare nei Los Desastres de la Guerra (del 1863) le atrocità perpetrate dai soldati di Napoleone nel 1808 in Spagna, questo invece avviene per la fotografia dove l’aspetto estetico viene aspramente cri- ticato, perché finisce per compromettere il valore di documento della immagine. Questa differenza forse si può spiegare perché la fotografia possiede il “duplice potere di produrre documenti e di creare opere d’arte” (Sontag 2003, p. 67). Così se è facile ammettere e riconoscere l’esistenza di un’“estetica della sofferenza e del sublime” delle rovine e delle catastrofi nella grande iconografia dell’Occidente cri- stiano, non lo è altrettanto per la fotografia dove, soprattutto per quanto concerne le fotografie di guerra, sembra prevalere ancora il concetto che sia più importante l’autenticità e la piena aderenza alla realtà che non la sua resa artistica. D’altra parte mentre è ormai appurato che molti film di guerra sulla prima e sulla seconda guerra mondiale si sono ispirati a fotografie, è difficile per molti ammettere che alcune foto- grafie si siano ispirate nella loro composizione e nella posa delle persone alle grandi opere dell’iconografia cristiana occidentale. Invece a nessuno può sfuggire che molte fotografie che ritraggono la sofferenza e il dolore riprendano citando alcuni stilemi presenti nelle Pietà o nelle Deposizione del Cristo dei nostri più grandi pittori euro- pei. La fotografia fin dall’inizio ha istaurato un interessante dialogo con la pittura, due arti che sono tra loro in competizione perché la fotografia ha stentato per molto tempo ad acquistare un suo preciso status e a essere accettata come arte “autentica”. Questo difficile e intricato connubio tra etica ed estetica si evidenzia nelle fotografie di guerra artistiche, perché hanno il potere di trascendere il contesto storico e diven- tare, come si diceva, “icone laiche”, capaci di essere reinterpretate e commuovere uomini in contesti storici diversi, perché suggeriscono valori umani universali. Ma, nello stesso tempo, proprio perché possono essere interpretate come testimonianza di valori universali, esse rischiano di perdere il loro carattere di documento storico.
Un aspetto problematico della fotografia di guerra riguarda gli effetti che la visio- ne degli orrori delle fotografie di guerra può generare sugli spettatori. Gli effetti duplici, contradditori della percezione della fotografia di guerra sono inestricabil- mente connaturati alla sua estetica e alla sua funzione come testimonianza storica. Compito della fotografia è quello di colpire lo spettatore: se l’arma dello scrittore è quella della parola, il fotografo invece usa l’immagine. Tanto più l’immagine è ica- stica, forte e incisiva, tanto più essa diventa una forma di denuncia e di critica capa- ce di sollecitare una risposta attiva nello spettatore. Se lo scrittore nell’atto di descri- vere gli orrori della prima o della seconda guerra mondiale ha più volte espresso la sua impotenza nel trovare parole adeguate, paradossalmente il fotografo si è trovato ad avere di fronte all’occhio della sua macchina fotografica un materiale immenso. Il compito che ha dovuto affrontare è stato quello non solo di fronteggiare la censu- ra che da sempre i vari governi hanno e continuano a esercitare sulle fotografie di