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Nel Dizionario del diavolo, lo scrittore americano Ambrose Bierce fornisce una definizione ironica e spiritosa che ci servirà da punto di partenza: “Storia (s.f.): reso- conto per lo più falso di eventi per lo più irrilevanti, provocati da sovrani per lo più mascalzoni e da soldati per lo più folli” (Bierce 1911, p. 169). Sebbene queste paro- le siano state scritte nel 1911, Bierce è stato, per così dire, un preveggente nei con- fronti del futuro della storia. Negli ultimi decenni del XXsecolo, anche i vari “ismi”

– postmodernismo, femminismo, postcolonialismo e via discorrendo – hanno cominciato a mettere in questione l’oggettività e addirittura la veridicità dei reso- conti storici, ponendo domande mirate come: quale storia è stata raccontata? La risposta più frequente era: quella dei sovrani mascalzoni e dei soldati folli. Quale sto- ria non è stata raccontata? E si è scoperto che la risposta era: quella delle donne, dei popoli colonizzati, ex centrici ed emarginati.

A loro volta, gli storici si sono posti queste e altre domande, prospettando con le loro risposte nuovi modelli storiografici. Alcuni, rifiutando di nascondersi dietro la voce in terza persona di una supposta oggettività, hanno invece posto l’accento sul- l’inevitabile posizione ideologica di qualsivoglia racconto storico. Come è noto, Hayden White (cfr. 1973; 1980) ha richiamato l’attenzione su quello che ha definito l’atto di “narrativizzazione” dello storico, stabilendo così un rapporto (sulla scia del teorico della letteratura Northrop Frye) con la letteratura che doveva enormemente irritare i suoi colleghi storici.

I persistenti assunti positivisti ed empiristici della disciplina storica, ereditati dal

XIXsecolo, sono stati bersaglio di ampie critiche provenienti anche da altre direzio-

ni, in particolare dalle varie correnti della teoria poststrutturalista. Si è argomentato che gli eventi storici sono stati trasformati in un fatto storico (ovvero, costruiti in quanto fatto) dall’impiego di una “struttura d’intreccio” o “intramazione”1(emplot- ment), per usare il termine di White, o, più problematicamente, dall’abilità dello sto- rico di raccontare una storia.

È stato questo aspetto di “costruzione” della storia, insieme a una rinnovata sto- ricità nella letteratura, a suscitare inizialmente l’interesse di uno degli autori di que- sto articolo (Linda Hutcheon). I romanzi postmoderni di autori come Salman Rushdie e Timoty Findley, E. L. Doctorow e Umberto Eco si sono avvalsi della sto- ria in maniere diverse da quella dei romanzi storici di Walter Scott, ma è indubbio che ne abbiano fatto uso. Queste “metafinzioni storiografiche” (cfr. Hutcheon 1988) non ricercavano un potere di legittimazione e di autenticazione di eventi reali, come poteva essere per i romanzi di Scott. Il loro intento era molto diverso e volto a pro- blematizzare le distinzioni dettate dal buon senso tra fatto storico e finzione roman- riscriverla, lo scrittore re-inventa la Storia per poterla meglio testimoniare, scavando

dietro le apparenze del reale, allontanandosi dal solco del discorso storico razionale (etimologicamente, “delirando”) per affidarsi alle scoperte (etimologicamente, “invenzioni”) della memoria (cfr. Albertazzi, Maj 22000033). Emergono così voci som- merse, rimosse, subalterne; versioni alternative che manifestano l’insegnamento di Said secondo cui “per ogni situazione, non importa quanto asservita, c’è sempre un’alternativa. Dobbiamo esercitarci a pensare in maniera alternativa, a non accet- tare lo status quo, a non credere che il presente sia bloccato” (Said 1994, p. 105).

Non è certo per caso che una delle più importanti teoriche del postmoderno, colei che ha coniato l’etichetta “metanarrativa storiografica” per definire i romanzi storici autoreferenziali del tardo XXsecolo, la canadese Linda Hutcheon, abbia scel-

to di concentrarsi – insieme al marito Michael – su una messinscena teatrale, inda- gando così la Storia attraverso i suoi simulacri, in perfetto stile postmoderno (cfr. Jameson 1984a). Come gli Hutcheon acutamente testimoniano, la logica del simula- cro, ovvero la trasformazione del passato in immagini standardizzate, conduce all’a- bolizione – anch’essa squisitamente postmoderna – del senso del futuro e, quel che più conta, di ogni progetto collettivo. Posizione questa che è messa ben in evidenza dalla narrativa di James Graham Ballard, disincantato punto di approdo della sezio- ne, nel saggio di Gino Scatasta. I conflitti ballardiani scaturiscono proprio dalla ribellione di individui soffocati da un eccesso di informazioni e simulacri contro un mondo “messo in immagini e dato in spettacolo” (Ballard 2003, p. 75); la sua vio- lenza è quella di chi ha smarrito il senso di appartenenza, di “casa”, di chi non fa che “abitare l’apparato scenico” del reale (Albertazzi 2006, p. 100).

Partendo dalla messinscena postmoderna di Wagner, passando attraverso il rac- conto narrativo, teatrale e fantastico dei traumi della seconda guerra mondiale, e dei tanti conflitti del Novecento che fanno da sfondo all’opera di Graham Greene, si raggiunge così la catastrofica fabulazione del mondo proposta da Ballard, vertigino- sa conseguenza sia della moltiplicazione frenetica delle comunicazioni che caratte- rizza il nostro tempo sia della contaminazione d’immagini che contraddistingue il reale inteso come contesto delle molteplici fabulazioni (cfr. Vattimo 1989). È dun- que a una retorica della terminalità che si approda leggendo le opere cui sono dedi- cati i saggi qui riuniti: una visione pessimista, quasi disperata, certo disperante. Eppure, i racconti che la rappresentano ce ne fanno partecipi, ci incantano, sgo- mentandoci. Come scrive Julian Barnes nella sua Storia del mondo in 10 capitoli e ?, definita da Rushdie “un romanzo acuto e sovversivo in forma di note in margine alla Storia” (Rushdie 1991, p. 241), anche se le circostanze sono tragiche, di fronte alla narrazione, noi ci abbandoniamo “come usava fare la gente nel passato, avida di sapere come i fatti si fossero svolti, desiderosa di sentirsi illustrare la realtà del mondo” (Barnes 1989, p. 66).

rappresentare “la voce del popolo” nell’Europa del XIXsecolo. Per un teorico come

Antonio Gramsci, l’intero problema stava appunto in questo. Gramsci considerava le opere di Verdi (come il Nabucco) responsabili di quella propensione che gli italia- ni dell’inizio del XXsecolo avevano per tutta una serie di “atteggiamenti artificiosi”

e modi di pensare che altro non erano se non un modo di evadere dalle loro esistenze meschine e dal basso livello di istruzione per innalzarsi “in una sfera più eletta di alti sentimenti e di nobili passioni”. Tra le varie forme di arte popolare, Gramsci consi- derava il melodramma “il più pestifero perché le parole musicate si ricordano di più” (1971, p. 969).

Le opere verdiane non furono le uniche a essere individuate come potenzial- mente pericolose per il pubblico. Anche le opere wagneriane furono, sin dall’inizio, decisamente sospette in termini politici. E furono certamente considerate ideologi- camente ambigue molti anni dopo (sebbene in maniera totalmente diversa), dopo che i nazisti se ne appropriarono trasformandole nella colonna sonora del Terzo Reich. Nel 1849, Wagner fu costretto a fuggire da Dresda per il suo coinvolgimento nelle attività rivoluzionarie: l’amico di Bakunin aveva visto in questa insurrezione una possibilità di cambiamento sociale e artistico. Costretto all’esilio, il composito- re passò i successivi dodici anni in Svizzera, dove scrisse quelli che possono consi- derarsi essenzialmente i suoi manifesti politici ed estetici. Fu durante questo perio- do che compose il poema e gran parte della musica di Der Ring des Nibelungen (L’anello del Nibelungo), una storia di negazione dell’amore, di potere, di domina- zione e conquista, ambientata in un passato atemporale nel mondo della mitologia nordica. Un mondo di divinità, giganti, nani e umani.

Dato che la tetralogia che compone il ciclo dell’Anello ammonta a un totale di oltre quindici ore di rappresentazione, è evidente che non ci è possibile in questa sede rendere conto dell’intera storia. Tuttavia, ciò che è importante sottolineare è il fatto che l’anello del titolo è stato forgiato dal nano Alberich, della stirpe dei Nibelunghi, con l’oro rubato dal fiume Reno e trasformato in un anello dagli enormi poteri grazie alla rinuncia all’amore da parte del nano. Il dio Wotan/Odino desidera ardentemen- te il potere che conferisce questo anello ma non è mai riuscito a rinunciare all’amore. Wotan garantisce l’ordine del mondo attraverso una serie di accordi e la storia della tetralogia è sostanzialmente il racconto dei suoi tentativi di ottenere l’anello senza vio- lare tali accordi. Il suo intento è creare un eroe totalmente libero che si impadronisca dell’anello per suo conto. A tale scopo, genera i gemelli semi-umani Siegmund e Sieglinde. Dalla loro relazione incestuosa nascerà colui che Wotan (e Wagner) consi- dera il trionfo della stirpe dei Velsunghi: l’eroe naturale del “Volk”, Siegfried, il quale riuscirà a recuperare l’anello vincendo la strenua opposizione dei nani Nibelunghi e della loro progenie, oltre a un gigante trasformato in drago. Indubbiamente, il ciclo dell’Anello può essere letto come la storia di un rinnovamento generazionale, del nuovo ordine (così come la speranza dell’antico) che contrasta una potente forza maligna proveniente dall’esterno. E infatti, i registi d’opera del XX e del XXIsecolo

hanno utilizzato questa struttura narrativa di base per trattare tematiche contempo- ranee in relazione a conflitti, eventi storici e politici.

A questo punto, è necessario aprire una parentesi per considerare le ragioni e le modalità che rendono rilevanti i registi e le loro produzioni in una qualsivoglia discussione che affronti la questione delle rappresentazioni postmoderne del con- WAGNER E L’EUROPA POSTMODERNA: LE EREDITÀ DELLA GUERRA 

zesca, mostrando come storiografia e romanzi siano – in egual misura – costrutti umani o sistemi significanti, volti entrambi a rappresentare il passato in una forma testualizzata.

Il romanzo in quanto genere ha intrattenuto, sin dall’inizio, un rapporto com- plesso con la storia e la storiografia. Nella riflessione sul postmodernismo negli anni Ottanta, non sembrava esserci modo di sfuggire alle implicazioni di quel rapporto e di quella complessità. Ma quando ci siamo dedicati a studiare insieme un genere molto diverso – quello dell’opera o del teatro musicale – tale implicazione storica non è stata abbandonata. L’opera può considerarsi una narrazione cantata e rappre- sentata sulla scena; può essere fortemente stilizzata e sottoposta a rigide convenzio- ni che ne denunciano apertamente l’artificio. Eppure, in qualche modo, opera e sto- ria si intrecciano tra loro come il romanzo alla storia, benché in modalità diverse. Per esempio, l’opera ottocentesca italiana e francese rappresentava scene di storia – naturalmente narrando le storie di quei “sovrani mascalzoni” e “soldati folli” – e un’immancabile storia d’amore intercalata agli assunti politici per rendere il tutto più godibile. Basti pensare a L’Africaine di Meyerbeer o al Don Carlo verdiano. Nel XIXsecolo, tuttavia, l’opera non si limitava a mettere in scena la storia, ma si serviva

della storia per fini apertamente politici, e specificatamente nazionalistici.

Benedict Anderson ha associato il concetto di nazione a una “comunità immagi- nata”, individuando nella parola stampata e nella narrazione romanzesca un ruolo centrale nella creazione del senso di identità collettiva in Europa (cfr. Anderson 1983). Ma anche la musica ha svolto un ruolo importante. O, considerando la que- stione da un punto di vista diametralmente opposto (come ha fatto il politologo Anthony Arblaster), non esiste nessun’altra forza ideologica o credo che abbia avuto un impatto più “profondo e durevole del nazionalismo sulla musica degli ultimi due secoli” (Arblaster 1992, p. 64). L’aspirazione dell’Europa del XIXsecolo a un idioma

musicale nazionale divenne inseparabile dal nazionalismo e dal patriottismo. Wagner, Verdi, Janáãek ne sono un esempio evidente attraverso l’Europa. Ma esiste un legame ancora più diretto, che gli italiani conoscono molto bene. I teatri lirici diventarono a tutti gli effetti luoghi insospettabili di attivismo politico, specialmen- te nei paesi in cui l’espressione politica nelle arti era severamente censurata dalle autorità di occupazione. Le opere che trattavano il tema dell’oppressione nazionale e della lotta per la liberazione proliferarono, ad esempio, nell’Italia sottomessa all’impero austro-ungarico, benché l’ambientazione fosse prudentemente collocata in un passato storico. Ma, grazie alla sua efficacissima commistione di musica coin- volgente e rappresentazione drammatica, l’opera è in grado di suscitare (e non sol- tanto di rappresentare) gli afflati di un orgoglio nazionalista.

Appartiene alla storia (o al mito) dell’opera l’aneddoto secondo cui la produzio- ne a Bruxelles dell’opera di Auber, La muta di Portici, contribuì a scatenare una delle rivolte che condussero alla liberazione del Belgio nel 1830. Basato su una storia vera – gli eventi storici accaduti a Napoli nel 1647, nel corso dei quali il popolo si sollevò contro gli oppressori spagnoli –, il passato dell’opera rivisse nel presente del pub- blico. Talvolta, questo genere di identificazioni storiche (quasi un’allegorizzazione) produce risultati durevoli. Basti pensare al ruolo che continua ad avere l’aria del “Va pensiero” verdiano nell’Italia odierna. La forza del canto collettivo di un coro ope- ristico, come quello degli israeliti oppressi nel Nabucco, era altamente evocativo per

dare la (comprensibile) scelta de-storicizzante di Wieland Wagner reinserendo l’o- pera wagneriana nella storia della sua produzione e della sua ricezione ottocentesca. La sua critica del potere in relazione alla divisione in classi, alla società in generale e allo stato di diritto doveva tanto ad Adorno e Brecht quando alle influenze a cui si fa in genere riferimento, e cioè George Bernard Shaw e Thomas Mann. In questo caso, quelli che un tempo erano dei ed eroi nobili furono trasformati nei rappresen- tanti brutali e violenti di una società brutale e violenta che sarebbe apparsa ricono- scibile allo stesso Wagner.

L’opera di Wagner ha una densa storia (e produzione) politica. L’innegabile anti- semitismo del compositore si è prestato a essere sfruttato in seguito dai nazisti, legando in tal modo le sue opere così come la sua intera personalità a quel depreca- bile contesto storico. Il regista e scenografo tedesco Herbert Wernicke (scomparso nel 2002) ha affrontato apertamente questa eredità problematica, ma nel contesto più ampio della storia europea, nella sua produzione dell’Anello al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles nel 1991 (in seguito ripresa a Francoforte nel 1995). L’allestimento era decisamente postmoderno: autoreferenziale e ironico nei con- fronti del proprio artificio teatrale, ricorreva a dei filmati in un bianco e nero sgra- nato (a imitazione dei primi cinegiornali) per mostrare le regie di Wagner. Tale stra- tagemma poteva blandire il pubblico più conservatore che lamenta il fatto che i regi- sti non tengono mai conto delle intenzioni del compositore, ma costituiva altresì una trappola. Spesso il sipario si apriva su una scena che presentava scarsa, se non addi- rittura nessuna, attinenza alle intenzioni del maestro.

Wernicke era postmoderno anche in un altro senso, e cioè nell’utilizzo della sto- ria. Il suo Anello non è ambientato in uno spazio mitico atemporale ma nell’Europa del XX secolo, e precisamente negli anni di poco precedenti allo scoppio della

seconda guerra mondiale, caratterizzati da un fermento politico e sociale, in Germania ma anche in Italia. In tale contesto, la speranza nel futuro rappresentata dalla stirpe dei Velsunghi nella visione wagneriana si contrappone all’affermazione crescente del fascismo.

La prima opera, Das Rheingold (L’oro del Reno), ci mostra l’ordine sociale della vecchia Europa basato sulla divisione in classi, al cui vertice si trova un potente Wotan. Sua moglie Fricka ha le sembianze di Mary regina d’Inghilterra. Attraverso una finestra dipinta, l’allestimento (unico per l’intero ciclo dell’Anello) fa intrave- dere la dimora degli dei, il Walhalla, sotto forma di una fortezza in cima a una mon- tagna. Se per una parte del pubblico si trattava semplicemente di una sconcertante immagine visiva, per altri, quell’immagine, aveva molteplici risonanze. L’edificio, sul modello del Partenone, è in effetti una riproduzione del mausoleo del Walhalla, fatto erigere dal re Ludwig Ivicino a Ratisbona nel 1842, come simbolo della supre-

mazia teutonica.

Lo scenario montuoso in cui è situato il Walhalla di Wernicke è ugualmente ger- manico e carico di significato: esso rappresenta infatti la celebre veduta dallo studio del rifugio alpino di Hitler, il Berghof, nei pressi di Berchtesgarten in Bavaria, pro- spiciente il massiccio dell’Untersberg. Tale allestimento avviò l’intelligente confron- to di Wernicke con quell’inevitabile contesto interpretativo per tutti i registi (e i pub- blici) degli ultimi settant’anni o giù di lì: il modo in cui il nazismo si è appropriato di Wagner e della sua musica per le proprie finalità. I Nibelunghi erano rappresen- WAGNER E L’EUROPA POSTMODERNA: LE EREDITÀ DELLA GUERRA 

flitto. Il ruolo creativo di Wagner in quanto compositore e librettista è evidente nel suo caso, ma qual è il ruolo del regista? È bene ricordare che l’opera è una forma d’arte “allografica”, come la definisce Jean-Jacques Nattiez (11999900) sulla scorta di Nelson Goodman. Diversamente da un’arte “autografica” come la pittura, in cui ciò che vediamo è stato creato direttamente dal pittore sulla tela, una forma d’arte allo- grafica come l’opera richiede un regista e dei cantanti, ma altresì un’intera produ- zione, teatrale e musicale (compresa un’orchestra e un direttore), per essere rappre- sentata. In poche parole, l’opera consiste in un “testo spettacolare”, come osserva Keir Elam (1980), ovvero in ciò che il pubblico esperisce effettivamente a teatro (e in cui risiede di conseguenza il significato dell’opera). Questo testo non è meno importante dei due “testi drammatici” dell’opera, ossia il libretto e lo spartito.

Nei termini della cosiddetta “nuova” musicologia – ossia successiva al puro det- tato del formalismo – è ormai consuetudine sostenere che “l’opera dà voce alle forze storiche in cui è irretita” (Lindenberger 1984, p. 283). Vorremmo aggiungere che le produzioni operistiche sono ugualmente irretite nel contesto storico in cui sono rap- presentate. I testi spettacolari si attuano attraverso tempi e luoghi in modalità sco- nosciute ai testi drammatici prestabiliti. Nell’opera di Wagner, queste due implica- zioni storiche si saldano con particolare forza nella seconda metà del XX secolo.

Dopo la seconda guerra mondiale, Wieland Wagner, il nipote del compositore, assunse la direzione del festival wagneriano che si tiene nel teatro che lo stesso Wagner aveva fatto costruire a Bayreuth, in Baviera. Regista di talento, Wieland Wagner scelse di sfidare apertamente l’appropriazione (indebita) che i nazisti fecero delle associazioni romantiche e nazionaliste dell’originale produzione wagneriana dell’Anello. Naturalmente, Hitler si recò frequentemente a Bayreuth negli anni in cui era al potere ed era notoriamente un ammiratore della musica di Wagner.

L’ambientazione atemporale nella mitologia nordica del testo di Wagner era stata rappresentata sulla scena alla prima dell’opera, tenuta a Bayreuth nel 1876 (e succes- sivamente) secondo i canoni visivi della pittura romantica tedesca. L’ideologia nazi- sta, infatti, aveva adottato la pittura romantica come parte integrante dell’universo visivo del “Volk” teutonico. Per tutta risposta, negli anni Cinquanta del Novecento, Wieland Wagner ha spogliato completamente la scena, de-storicizzando e de-germa- nizzando l’opera di Wagner, per trasformarla in uno psicodramma universale con una scenografia astratta, non figurativa. Negli anni Settanta, tuttavia, avvenne un’altra svolta, stavolta tesa non a spoliticizzare ma, al contrario, a ri-politicizzare il testo: il regista Götz Friedrich (dell’allora Repubblica democratica tedesca) riversò il nuovo clima politico dell’Europa post-sessantottina nella sua produzione del Tannhäuser: ricomparvero i nazisti, stavolta però non tra il pubblico, ma rappresentati sulla scena. Evidentemente, i registi sono interpreti delle opere liriche ma altresì creatori a pieno titolo. Per il tramite di cantanti, scenografie, costumi, illuminazione ecc., danno vita a un mondo sulla scena teatrale, fornendo in tal modo un’interpretazio- ne e indirizzando, in parte, le aspettative del pubblico circoscrivendone le possibili reazioni interpretative. Con il loro operato, i registi fanno affidamento sulla nostra conoscenza dell’opera in quanto forma d’arte, di Wagner e di altre produzioni wagneriane, così come sulla nostra conoscenza della storia.

Invitato ad assumere la direzione del centenario bayreuthiano dell’Anello nel 1976, il giovane registra teatrale francese Patrice Chéreau decise a sua volta di sfi-

Götterdämmerung, il crepuscolo degli dei. Molti interpretano la musica in termini di redenzione, ma le indicazioni di scena lasciano molto più spazio all’interpretazione. Ecco che cosa richiedono per il cataclisma finale. Per prima cosa, il palco deve esse- re avvolto dalle fiamme:

Nello stesso tempo, il Reno straripa, inondando completamente la scena (…). Dalle rovi- ne del palazzo crollato, gli uomini e le donne assistono commossi nel più profondo del proprio essere, mentre le fiamme divampano fino al cielo. Una volta che l’incendio ha