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Victoria Clarke, capo dell’Ufficio pubbliche relazioni del Pentagono, sta mano- vrando delle marionette quando suonano contemporaneamente il telefono di casa, il cellulare e il pager. È il giorno del compleanno di suo figlio e in casa Clarke si sta svolgendo una festicciola con una dozzina di ragazzini. La funzionaria del Pentagono è impegnata a divertirli con le marionette.

I soldati del suo ministero stanno conducendo una “guerra al terrore” in un paese lontano mille miglia. Là in Afghanistan deve essere successo qualcosa. Le suonerie continuano imperterrite. Victoria Clarke interrompe lo spettacolo e si precipita al telefono. Infatti ci sono brutte notizie.

L’interruzione della festa era dovuta a una serie di telefonate di protesta da parte di alcuni editori e caporedattori di giornali. Durante un’azione vicino a Kandahar erano stati feriti dei marine. Fotografi e inviati si erano affrettati sul posto per dare la notizia. Ma le unità speciali li avevano immediatamente rinchiusi in un deposito impedendo loro di svolgere il proprio lavoro. Il capo dell’Ufficio Pubbliche Relazioni del Pentagono si scusa sul «Washington Post»: “Si tratta di un evidente errore. Tutto ciò è contrario ai nostri principi e alla nostra politica. Non avremmo dovuto farlo”. Il fatto risaliva al 5 dicembre 2001.

A quel tempo gli Stati Uniti stavano già pensando alla guerra successiva: dopo l’Afghanistan in testa alla lista degli strateghi del Pentagono c’era l’Iraq e – come sapevano benissimo – questa nuova guerra sarebbe stata preceduta da una campa- gna propagandistica. Victoria Clarke era di nuovo sul fronte (Second Front) dove le battaglie vengono condotte con le parole e con le immagini.

È nel nostro interesse informare la popolazione attraverso i mass media sulle menzogne e sulle manovre tattiche di Saddam Hussein (…). Posizionerà le sue artiglierie pesanti nelle vicinanze di importanti edifici civili per dare poi a noi la colpa di eventuali danni collate- rali. È dunque molto meglio che la gente venga a sapere queste cose da tutti i «Washington Post» di questo mondo piuttosto che da noi.

Con queste parole Clarke illustrò la sua strategia di informazione.

Clarke sottolinea che il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, il generale Tommy Franks e il capo di Stato maggiore Richard Myers hanno personalmente chiesto ai loro comandanti di cooperare con la stampa. Una vera svolta: dalla guer- ra del Vietnam in poi gli Stati Uniti hanno impedito ai giornalisti di lavorare libera- mente in zone di guerra (lo stesso valeva per la Iugoslavia e l’Iraq). Durante la guer- ra del Golfo del 1991 i media venivano ingannati, utilizzati e manipolati, come risul- ta dal libro di John R. MacArthur Second Front. Censorship and Propaganda in the to. Fornisce piuttosto un’illusione di realtà. La televisione in tempo di guerra, e non

solo, si trasforma da finestra sul mondo a specchio della società che rappresenta e che la sceglie come sua voce narrante. Ma se questo specchio riflette una visione distorta della realtà e le facce nello specchio non si lamentano di questa situazione, quale conclusioni possiamo trarre circa l’opinione pubblica ne

1L’affermazione è stata fatta il 6 giugno 2000 nel corso del programma/documentario How the war spun, tra-

smesso da BBCWorld.

2Il contributo di Miller e Johnson è in corso di stampa in altra collettanea e quindi non presente in questo volu-

me, ma si farà comunque riferimento al loro intervento.

3Ho discusso l’effetto della Public Affairs Guidance on Embedding sull’opinione pubblica e sui giornalisti secon-

do una prospettiva CADS nella sezione Embedding the media: a way to limit perceptions by public opinion (cfr.

Conoscenti 2004a, pp. 163-179).

4La vivacità e potenzialità del modello è testimoniata anche dalla ricca attività di scambio e proposte generata

dalla discussion list all’indirizzo http://tech.groups.yahoo.com/group/AppraisalAnalysis/

5La sezione che segue è discussa ampiamente e inquadrata metodologicamente nell’articolo in corso di stampa

dal titolo Visions of India: (Self)representations of a (Re)emerging Culture. An Interim Report.

6Un type è una forma lessicale unica (a unique word form).

7Questa problematica non è solo utile per rendere conto dell’effetto echo-chamber di Thompson e Hunston

(2006), ma anche dell’emergere di concetti memici di cui ho discusso in altri testi (cfr. Conoscenti 2005 e c.d.s.).

8WordSmith Tools è disponibile all’indirizzo http://www.lexically.net/wordsmith/version4/index.htm, TACTè

disponibile all’indirizzo http://www.chass.utoronto.ca/tact e Xaira a www.xaira.org. TACTè sempre stato un softwa- re freeware dell’Università di Toronto, sebbene recentemente il sito chieda ai possibili utilizzatori di acquistare la copia cartacea del manuale che contiene il software.

9La definizione è tratta dall’aiuto in linea del programma.

10La differenza fra TACTe Xaira (nella sua attuale versione) è che TACTgenera autonomamente la lista delle col-

locazioni per la parola nodo (node word) selezionata (si veda la tabella nel testo), mentre Xaira, data una node word

chiede all’utilizzatore di definire una possibile collocazione per calcolare il suo relativo Z-score. Va tenuto presente che Xaira è in corso di sviluppo ed è parte di un progetto accademico e allo stato attuale, sebbene presenti alcuni

problemi tecnici dovuti alla normale fase di vita del prodotto, sembra essere molto promettente per le funzionalità che potrebbe offrire.

128 giornalisti britannici inviarono le loro corrispondenze sulla guerra in Iraq incor- porati nelle unità del Regno Unito. Dissero Artz e Kamalipour (2005, p. 271):

Non si può mai sottolineare abbastanza la svolta importante che il programma di inseri- mento ha significato per il rapporto tra militari e media. Il programma era il risultato di un lungo processo storico, durante il quale l’élite politica e militare ha modificato il pro- prio atteggiamento nei confronti dei mass media. L’atteggiamento di compiacenza si è tra- sformato nell’appoggio a una gestione attiva dei media.

Non solo il Pentagono ma anche giornali e settimanali, nonché le emittenti radio- televisive, si sono armati per la guerra mediatica. Si trattava certamente di informa- re il pubblico, di fornire analisi intelligenti e reportage avvincenti. Ma anche di pro- durre opinioni e di assicurarsi quote di mercato e indici d’ascolto. Inoltre per la prima volta si verificò una sorta di “scontro delle civiltà” giornalistico: Al-Jazeera e Al-Arabiya contro CNNe Fox News.

Per quanto riguarda l’addestramento dei giornalisti da inviare al seguito delle truppe, questo era particolarmente intenso per i giornalisti statunitensi. Prima dell’“inserimento” venivano mandati in boot-camps a Fort Bragg, North Carolina, e nel Training Center a Quantico, Virginia. I colleghi sghignazzavano di questo nuovo programma Weight Watcher per reporter out-of-shape. Ma per i partecipanti c’era ben poco da ridere. Membri coriacei di unità speciali sottoponevano giornalisti pro- venienti dalla stampa, dalla radio e dalla televisione a un durissimo addestramento in mezzo al fango. Dovettero imparare come si salta da un elicottero, strisciare nel sottobosco con addosso tutto il peso della divisa protettiva ABC e nutrirsi di cibo

confezionato in plastica MRE(Meals ready to eat). Qualcuno sostiene che alcuni invia-

ti un po’ arrugginiti che avevano messo su qualche chilo in più persero in questo modo un bel po’ di ciccia.

Nel libro Reporting America at War – An Oral History si trova la seguente cita- zione dell’inviata della CNNChristiane Amanpour:

Tutto sommato la strategia dei giornalisti inseriti ha prodotto delle buone immagini tele- visive ma non del buon giornalismo. La televisione è fatta di immagini e l’ embedding ha fornito proprio quelle. Ma si trattava di una parte infinitesimale di ciò che accadeva real- mente (in Ferrari, Tobin, a cura, 2003, p. 221).

Disse Jeff Hoons, l’allora ministro della Difesa inglese: “Mentre i telespettatori vedono più della guerra di quanto non sia mai successo prima, capiscono sempre meno, per quanto spettacolari possano essere le immagini trasmesse” (Tumber, Palmer 2004, p. 24).

Personalmente ho vissuto la guerra in Iraq a Baghdad trovandomi al receiving end, cioè dalla parte contro cui era diretta l’azione di questa smisurata forza bellica. Anche noi eravamo, per così dire, inseriti, e cioè nelle strutture create dal Ministero dell’Informazione iracheno per sorvegliare e manipolare i giornalisti stranieri. Le conferenze stampa del ministro Mohammad Sayeed Al-Sahaf rendevano la realtà della guerra ancora più surreale di quanto non fosse già di per sé. Il ventesimo gior- no di guerra, mentre sulle sponde del Tigri di fronte all’Hotel Palestine (dove era alloggiata la maggior parte dei giornalisti) giravano già i carri armati statunitensi I GIORNALISTI E LA GUERRA: RIFLESSIONI DI UN INVIATO 

Gulf War. Anche nel caso dell’Afghanistan i giornalisti erano relativamente liberi di riferire ciò che volevano sulle operazioni dell’Alleanza del Nord, ma l’accesso alle unità speciali statunitensi era strettamente limitato.

A metà gennaio 2003 il capo dell’Ufficio Pubbliche Relazioni Clarke invita al Pentagono i responsabili degli uffici di Washington (Bureau Chiefs) dei più impor- tanti media per informarli sulla strategia mediatica nell’imminente conflitto (si allu- deva forse alla futura guerra contro l’Iraq?). Questa volta il Pentagono inserisce (embed) i giornalisti in singole unità militari per mostrare al contribuente americano come vengono spesi i suoi soldi nella regione del Golfo. Il Pentagono assegna ai media di una certa rilevanza posti presso le truppe (presso le unità di fanteria e le divisioni corazzate, su navi e portaerei) da dove possono realizzare i loro servizi. Ovviamente è l’Ufficio Affari Pubblici del Pentagono a decidere quale rappresen- tante di quale media viene inviato in quale zona.

Howard Kurtz, inviato del «Washington Post» che si occupa criticamente del ruolo dei media, cita il responsabile dell’Ufficio di Washington dell’emittente statu- nitense CBS:

Il Pentagono vuole controllare questa faccenda. Saranno loro ad assegnare le concessio- ni per i giornalisti embedded. Decideranno loro dove inviarli. Dicono che se un inviato venisse richiamato dall’unità a cui è stato assegnato non ci sarebbe alcuna garanzia di sostituzione.

Robin Sproul, responsabile della rete concorrente ABC sfoggiava maggiore otti-

mismo: “Se le cose si potessero realizzare come pensa il Pentagono, si avrebbe un livello di notizie sulle truppe USAin azione mai visto prima. Sarebbe una vera svol-

ta. Ma il diavolo si nasconde nel dettaglio”.

Ad ogni modo, gli addetti alle pubbliche relazioni del Pentagono hanno chiarito durante il loro incontro con la stampa che era loro desiderio avere i giornalisti vici- ni alle truppe1. Diceva il responsabile dell’ufficio stampa Bryan Whitman (durante la suddetta riunione del 15 gennaio 2003):

Una volta che i giornalisti saranno incorporati nelle truppe e vorranno continuare a svol- gere il proprio lavoro in una situazione ideale avranno l’occasione di far parte di un’u- nità, di essere con i soldati quando lasciano gli Stati Uniti, quando sbarcano, quando vengono spediti in zona di guerra. I giornalisti saranno con loro quando si preparano alla battaglia. Combatteranno con loro. Marceranno con loro dovunque andranno, verso qualunque capitale saranno diretti.

[Risate]

Victoria Clarke: Se questo facesse parte del piano. Bryan Whitman: Se questo facesse parte del piano. [Risate]

I giornalisti accompagnerebbero le truppe anche al ritorno negli Stati Uniti fino alla loro base, dovunque essa sia, e farebbero anche la cronaca della parata della vittoria. È que- sto che ho in mente quando parlo di “inserimento vita natural durante”.

Era forse questa la strategia del Pentagono nella guerra contro l’Iraq, la guerra come reality soap? GI-starmania e GI -popstars? C’erano 775 giornalisti embedded,