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Come in altri ambiti dell’espressione per immagini, nel cinema il paesaggio si costruisce a partire da uno sguardo percepibile: una “veduta” che il film offre di uno spazio o un territorio. La configurazione di un “teatro di guerra” dipende da questo sguardo. Esso contiene ed esprime un’esperienza collettiva, nonché l’immaginario e le implicazioni narrative a essa connessi. A partire da questa vista possiamo fare delle riflessioni su un sistema rappresentativo: operare una critica alla cultura.

La costruzione di uno sguardo è un fatto seminale nella relazione tra lo spazio fil- mico e i motivi culturali a esso sottesi. Il punto di vista, la durata dell’inquadratura, l’enfasi che scaturisce da un gesto, dalla recitazione e da tutti gli apparati di com- mento, musica, pause e silenzi, rendono il paesaggio ricettacolo di significati profon- di. Nel ribadire che “il motivo dell’uomo che guarda uno scenario naturale” è una delle più rappresentative forme simboliche della società occidentale, Sandro Bernardi afferma, che “il paesaggio è considerato per tradizione come trionfo della cultura, dello sguardo sovrano che ha dato forma al kaos, che ha trasformato il mondo in uno spazio definito, luogo di piacere e di contemplazione visiva”. Allo stesso tempo l’autore mette in evidenza come proprio il paesaggio racchiude in sé gli aspetti più fragili di questo principio di sovranità dell’uomo, del suo mettere ordine, della sua tensione conoscitiva (cfr. Bernardi 2002, pp. 15-16).

Quanto al film bellico, in esso troviamo espressa in modo eclatante questa fon- damentale necessità di dare una forma al caos. Consideriamo qui il genere combat americano come luogo in cui si costruisce un immaginario culturale relativo alla guerra, che varia al mutare delle stagioni del cinema e della vita sociale americana. All’interno di questo genere scegliamo il film sul secondo conflitto mondiale, poiché si tratta del più codificato tra i racconti bellici della tradizione hollywoodiana, sia in ragione dell’immensa mole numerica, sia perché esso costituisce un sistema narrati- vo e iconografico che sopravvive nei decenni rappresentando un modello (o un anti- modello) per la rappresentazione di altri conflitti.

Si noti, tuttavia, che la necessità di codificare cinematograficamente il territorio di combattimento non nasce subito, ossia nel corso della seconda guerra mondiale. La lettura del paesaggio di guerra varia infatti al mutare del clima ideologico nazio- nale. Si può osservare un’oscillazione da un “grado zero” del paesaggio nei primi film degli anni Quaranta, all’estremo sforzo della sua ricostruzione e spettacolariz- zazione delle differenti epoche successive.

È inoltre importante precisare che quando si analizzano film bellici hollywoodia- ni che rappresentano il fronte occidentale o quello orientale emergono enormi dif- ferenze. I due esempi su cui ci concentriamo riguardano il fronte europeo. Quando

a Hollywood restano la seconda guerra mondiale e il Vietnam, recuperate e rivisi- tate nelle diverse fasi di crisi della auto-rappresentazione nazionale, ivi compresa la più recente, e irrimediabilmente protratta, della politica bellica nel Medio Oriente, del cosiddetto anti-terrorismo. Per ovvie ragioni di economia del discor- so lasciamo da parte la fase formativa del combat sulla seconda guerra mondiale, ossia il periodo degli anni Quaranta. Superata tale fase sono due le epoche semi- nali della rivisitazione dell’immaginario bellico relativo agli anni 1941-45: 1) gli anni della protesta giovanile, della sfiducia, cominciati con la seconda metà dei Sessanta; 2) gli anni della politica post-reaganiana, del nuovo espansionismo e delle tecnologie di guerra.

La fase formativa del genere combat sulla seconda guerra mondiale era coincisa con il consolidarsi di alcune esigenze dell’auto-rappresentazione americana. Questa tipologia di film presentava infatti una serie di caratteristiche che in ultima analisi offrono una fotografia della comunità ideale: un gruppo di combattenti con abilità differenti (il cui affiatamento può essere messo in discussione ma in finale viene sem- pre ripristinato), l’obiettivo bellico, il senso del sacrificio finalizzato alla buona riu- scita dell’azione, la figura del leader evocatrice del padre, la nostalgia di casa. Nel corso dei decenni questo modello è andato via via modificandosi, corrodendosi, tal- volta diventando un anti-modello, talvolta un oggetto della nostalgia. La guerra di Corea per esempio ha messo in crisi per la prima volta alcuni presupposti del com- portamento integerrimo e della psicologia limpida del combattente. La messa in discussione dell’eroismo del soldato americano, è un fatto che ha preso forma nel racconto bellico hollywoodiano con la Corea di Sam Fuller (Corea in fiamme), ossia fin da quando nell’opinione pubblica americana si è insinuato il dubbio che la poli- tica estera potesse significare combattere per cause oscure o ingiuste. Progressivamente, nel cinema si è approfondito anche l’ascendente antimilitarista derivante dal romanzo sulla prima guerra mondiale. Con il Vietnam, poi, l’America fa i conti con il fatto che i

“bravi ragazzi” americani avevano non solo commesso delle atrocità, ma, cosa ancor più sconcertante, malgrado la loro presunta virtù e abilità in combattimento, avevano perso! E gli americani non sono abituati a pensare a loro stessi come perdenti, ma come vincen- ti (Fiedler 2005, p. 60).

Questo senso della sconfitta si riverbera, come vedremo, anche sui film della seconda guerra mondiale.

Il film di guerra è stato da sempre luogo di negoziazione di un’immagine nazio- nale di potenza e di valore. L’uomo che combatte è figura simbolica dell’identità nazionale. Nel conflitto, osserva Lesile Fiedler in un saggio, tra quelli recentemente raccolti, sulla guerra nella cultura americana, trova origine l’identità americana. Esso è il luogo dell’affermazione di potenza dell’americano archetipo. Secondo questo archetipo la potenza maschile non passa attraverso l’esperienza sessuale, bensì con- siste nell’abilità di uccidere. Secondo tale modello di mascolinità, che affonda le radici in una tradizione letteraria autoctona, la potenza dell’individuo è riposta nella tecnologia bellica. Facendo riferimento alla narrativa di James Fenimore Cooper, e al personaggio da lui creato, Fiedler commenta:

IL PAESAGGIO BELLICO SECONDO HOLLYWOOD 

si tratta del fronte asiatico, l’immaginario bellico metabolizza i concetti di mistero e barbarismo, facendo i conti con i propri pregiudizi razzisti. Lasciamo così da parte i contesti esotici, gli ambienti naturali estremi, minacciosi, come la giungla che, in una tradizione che va da Obiettivo Burma a La sottile linea rossa, simboleggiano le forze primordiali e maligne di un nemico archetipo, o le oscure profondità dell’ani- mo umano1. Il fronte europeo rappresenta invece un territorio in qualche modo familiare, perché già filtrato dalla letteratura, dall’arte e, proprio dopo il secondo conflitto mondiale, dalla nascita di una relazione diversa tra Europa e America, che, come tutti sappiamo, si è espressa in termini politici, commerciali e culturali.

Nel film di guerra il paesaggio può quindi svolgere una funzione ausiliaria all’in- treccio, e avere un ruolo di sfondo o addirittura non comparire per niente, perché immerso nelle tenebre o perché escluso dall’intreccio, che si svolge invece all’inter- no di un aereo, di un sottomarino, di una base militare, di un carro armato (Arcipelago in fiamme, Destinazione Tokyo, Cielo di fuoco, Sahara). Tuttavia, il com- bat hollywoodiano contiene anche una tradizione che attribuisce al paesaggio un significato speciale e che ne fa l’oggetto di uno sguardo esplicito. Si tratta general- mente del pretesto per richiamare l’attenzione a uno spazio più importante, che viene costantemente rievocato, quello statunitense. Se il soldato si ferma a contem- plare il paesaggio straniero, lo fa per rievocare le verdi praterie, le fattorie o le città del suo paese. È principalmente un’esigenza di normalità a intervenire in questi momenti. Il combat americano infatti fa appello a una necessità fondamentale, ripri- stinare un ordine. Il paesaggio partecipa degli espedienti che innescano questo mec- canismo di genere, fa emergere la nostalgia, il desiderio di casa.

Esiste, inoltre, un altro modo di intendere il paesaggio: ciò che Bernardi (p. 37) definisce paesaggio pittorico. Esso non dipende necessariamente da uno sguardo die- getico, ossia non è reso significativo unicamente da un personaggio che guarda o da un’enfasi posta dall’intreccio. Il paesaggio pittorico apre allo spettatore altre dimen- sioni o altre storie, lo induce ad attingere alla propria immaginazione, alla memoria. Gli aspetti stilistici della resa dello spazio assumono un valore significante forte. Nel combat classico questo aspetto è meno evidente o addirittura nullo (sempre che non vogliamo considerare significativo lo spazio immaginabile, ossia mai mostrato, in un film comeArcipelago in fiamme: i cieli attraversati dagli eroi dell’aeronautica, sono un richiamo ai vasti territori selvaggi e minacciosi del genere western, densi di insi- die, che gli eroi tentano di mantenere il più possibile al di fuori di una diligenza che vi corre attraverso, qui emblematicamente evocata dall’aereo militare). Nel film bel- lico successivo al Vietnam, invece, il cinema si apre al simbolismo, alla stilizzazione. Il paesaggio diventa contesto per mettere in scena una crisi di identità, in un cinema che pone il problema della moralità della stessa cultura delle immagini. Il film sulla seconda guerra mondiale è stato influenzato dal conflitto in Estremo Oriente, spe- cialmente per quanto concerne l’etica del cinema e la sollecitazione dello spettatore. Il Vietnam ha messo in discussione la responsabilità del film bellico e dell’immagine documentaria di guerra, mutando la relazione tra il film e il suo referente, e chia- mando in causa l’arbitrarietà dell’immagine e la sua funzione ideologica.

Gli esempi che facciamo in questa sede mirano dunque a sintetizzare alcune tendenze predominanti della raffigurazione del paesaggio di guerra nel cinema americano post-Vietnam. Possiamo dire che le stagioni belliche più rappresentate

ni meteorologiche, nel ricorso a fonti orali e scritte ecc.). Il luogo del combattimen- to ha la funzione di dato, di informazione precisa ed efficace. Siamo all’interno di un’estetica che riduce il paesaggio principalmente a circostanza. Ciò è vero anche quando si percepisce chiaramente uno sguardo, che sia interno o estero alla diegesi. Questo avviene quando il film offre una vista sul teatro di guerra, come l’elegante inquadratura del bombardamento notturno, avvistato all’orizzonte, dove una colon- na di militari attraversa il quadro da parte a parte, sullo sfondo delle luci fiammeg- gianti dei bombardamenti. Si tratta di un paesaggio inteso in senso classico, in cui le informazioni sono ordinate da un’istanza narrativa esterna, onnisciente, che svolge sapientemente la propria funzione organizzativa. In altri casi viene data una partico- lare enfasi a un soggetto che osserva la battaglia: l’esempio è quello del caporale Timothy Upham (Jeremy Davies), il soldato timoroso che si tiene in disparte, che osserva a debita distanza l’attacco al bunker usando il visore del fucile. Viene così tematizzato l’atto di osservare il paesaggio di guerra, iscrivendo nel film una funzio- ne essenziale del racconto bellico per immagini: lo sguardo attonito. Questo sguar- do tuttavia, poiché nel personaggio di Upham è disgiunto dall’azione eroica, ha il compito di iscrivere nel film un elemento tanto più significativo perché lasciato in sordina: un’ambiguità del tutto contemporanea, un’ambivalenza del soldato, che non è semplice esitazione, ma cattiva coscienza, e lo spinge da un lato a parlare con il nemico, e dall’altro a ucciderlo paradossalmente quando la partita è ormai finita (cfr. Fornaia 1998, pp. 6-7).

Nel caso di Pollack la distanza critica tra lo sguardo del film e quello del perso- naggio è più evidente. In Ardenne 44 uno scarto percepibile divide ciò che i soldati guardano e commentano e ciò che mostra la macchina da presa. Essi sono sottopo- sti a un occhio esterno che li espone a un giudizio, mentre gli stranieri, ossia, il conte e la contessa di Maldorais, non sono mai “oggettificati” dallo sguardo del film, ma si presentano come personaggi tridimensionali. Il castello è contemporaneamente ricettacolo di una cultura millenaria e luogo emblematico di una bellezza irraggiun- gibile, territorio in declino, privato di un’autorità forte. Su di esso incombe la minac- cia della distruzione, l’impossibilità da parte dei militari di difendere un patrimonio inestimabile: non è possibile, e tanto meno auspicabile, istituirvi un nuovo ordine, americano.

Sulla base di questi esempi possiamo affermare che il paesaggio di guerra diven- ta il luogo per un risveglio del senso morale e nazionale americano, un’occasione per celebrare, e talvolta deporre le spoglie di, un sentimento collettivo, mettendo in discussione la dimensione storica dell’individuo. È interessante osservare come que- sta funzione venga svolta in modo marcato laddove il contesto sia direttamente imparentato alla codificazione proveniente da una tradizione letteraria e artistica che pone l’Europa come cultura antesignana rispetto all’America (si vedano i riferimen- ti all’arte pittorica contenuti nel romanzo di Eastlake, Castle Keep, cui Pollack si ispi- ra, concedendo nel proprio film ampio spazio al potere poetico ed evocativo dell’o- pera d’arte antica e moderna). Altri paesaggi (l’Estremo Oriente in particolare) sono connotati dal cinema bellico come primitivi, privi di cultura e a-storici. Il paesaggio di guerra europeo, al contrario, è meta-storico: è sufficiente citarlo per chiamare in causa la Storia. All’operazione “archeologica” di Spielberg abbiamo accennato; quanto a Pollack, si consideri il tema della guerra come difesa di un patrimonio cul-

IL PAESAGGIO BELLICO SECONDO HOLLYWOOD 

Qualunque potere fallico sia in lui, risiede non nei genitali ma nel suo fucile… Per diven- tare americano, quello che è il frutto maschio di un padre europeo senza nome, dimenti- cato, deve imparare a uccidere piuttosto che a riprodurre, come pure deve imparare a rimanere per sempre fedele ai suoi compagni maschi e rifiutare tutte le donne (p. 51). Non a caso, nelle epoche qui prese in esame, che corrispondono a periodi di gros- sa messa in discussione della politica estera americana, si mettono in crisi non solo e non tanto i modelli narrativi (il combat sopravvive, deformato, trasformato, ripristi- nato, a tutte le stagioni), quanto il potere stesso delle immagini. Subentrano quindi regimi di scrittura filmica dominati dall’alterazione, dal simbolismo, dall’estasi del- l’accentuazione realistica.

Veniamo dunque ai nostri esempi. Si tratta di Ardenne 44. Un inferno, Sydney Pollack (1969), e Salvate il Soldato Ryan, Steven Spielberg (1998). Essi ci servono a stabilire alcune tendenze di carattere generale del “modo americano popolare” di metabolizzare i conflitti in alcune epoche. A questi esempi aggiungiamo riferimenti a opere più recenti, in particolare le due ultime fatiche di Clint Eastwood: Flags of our Fathers e Lettere da Iwo Jima (entrambi del 2006). Sono film la cui invenzione paga un tributo al combat classico, e lo fa secondo modalità assai diverse, sintetizza- bili, per quanto riguarda Pollack e Spielberg, nella parodia e nell’iperbole. Il primo è un esempio di come l’immaginario bellico cinematografico possa fare appello a un linguaggio poetico. Il film crea un’atmosfera onirica, e proprio lo spazio è il referente di un gioco continuo tra reale e surreale. Il castello di Maldorais nelle Ardenne, in cui si insediano i soldati americani per costruire un avamposto di resistenza all’a- vanzata dei tedeschi, ha evidenti connotazioni irreali, fuori dal tempo, fatto eviden- ziato dalla truppa medesima, che rimane attonita di fronte alla maestosità di un luogo di antiche e nobili glorie.

Nel caso di Spielberg la scelta stilistica va nella direzione di una esasperazione dell’estetica realistica, che si traduce in estrema sollecitazione visiva. La rappresen- tazione del combattimento produce un’esperienza sensoriale quasi intollerabile per lo spettatore. Lo stesso Spielberg commenta in proposito: “la tecnica serve a farti sentire come se fossi in mezzo alla battaglia e non come un civile seduto in poltro- na” (in Pizziello 1998, p. 48). La lunga sequenza dello sbarco a Omaha Beach san- cisce il carattere di ogni successivo sguardo del film sul paesaggio di guerra. L’espressione spaventata dei soldati, il loro modo di guardare, sono uniformi stilisti- camente alla visualizzazione nervosa, frammentata, limitata, dello spazio del com- battimento. Questo fatto è funzionale alla resa della paura, dell’incombere casuale della morte, all’idea della enorme perdita inflitta all’esercito americano. La rappre- sentazione del paesaggio è concentrata sulla percezione di chi sbarca e perfino le soggettive della mitragliatrice tedesca non introducono una prospettiva differente da quella dell’esercito alleato. Del resto questa sequenza è stata annunciata da quella precedente: da un primo piano di Ryan, che si conclude con il dettaglio degli occhi, dello sguardo. Il teatro di guerra che il film ci mostra è l’oggetto di quello sguardo, quello che vediamo è un paesaggio ricordato da un soldato americano.

In questo film il paesaggio di guerra rappresenta infatti una sorta di sito archeo- logico virtuale: qualcosa che si può ricostruire con i mezzi di un’accurata operazio- ne filologica (nella ricostruzione dell’arsenale bellico, delle strategie, delle condizio-

problema etico. L’occhio mancante di Falconer è qui una chiave di lettura. Non pos- siamo trascurare come essa faccia direttamente appello a un fatto della percezione, chiamando in causa, in ultima analisi, la comprensione di sé. Le Ardenne sono infat- ti l’occasione per l’eroe americano di vedere, o rivedere, se stesso, e questa occasio- ne si sbriciola e si annienta di pari passo con la dissoluzione di Maldorais.

Nessuno dei personaggi del film è in grado di percepirsi in una prospettiva criti- ca, ma è il film nel suo complesso che ha questo potere. Dopo quel primo sguardo rapito al castello di Maldorais è principalmente il punto di vista del film a divenire responsabile del discorso sul paesaggio di guerra. Il film non salva nemmeno l’ele- mento consapevole del gruppo, il capitano Beckman, che apprezza autenticamente il valore artistico di Maldorais e cerca, da un lato di educare i soldati, dall’altro di ammansire la ferinità di Falconer. Un punto di vista esterno organizza e contrappo- ne le prospettive dei diversi personaggi intessendo un discorso più complesso di quello di ciascuno di essi.

Ovvero, non conta tanto lo sguardo degli uomini quanto quello del cinema. Uno sguardo insistito, consapevole, che risponde a un impulso irresistibile di dare forma. L’occhio della macchina da presa riscatta i limiti degli uomini, e lo fa proprio attra- verso l’atto di mostrare, con movimenti maestosi quanto il luogo che descrive, offrendo vedute dall’alto, usando sapienti movimenti di macchina, prospettive com- plesse. Da un lato il film domina la realtà, dall’altro ostenta la fragilità di tale opera- zione. Infatti, mano a mano che il paesaggio prende una forma complessa la minac- cia della sua distruzione diventa concreta. La precarietà di questa azione, il suo illu- sionismo, la qualità onirica, si mostrano continuamente, grazie alla espressività auto- riflessiva della fotografia di Henri Decaë e a una macchina da presa che fa sentire continuamente la propria presenza.

La guerra, la circostanza che induce i personaggi a osservare, studiare, ammirare, il giardino e il castello, rappresenta la condizione per una presa di coscienza. Accettare l’incombere della fine non è un fatto legato soltanto all’impossibilità di sottrarre la bellezza all’incedere della storia. Lo stupore per il paesaggio di guerra serve a ricomporre gli elementi di un quadro umano e sociale, identificabile con una cultura, americana, ormai sorpassata, fondata sulla wilderness (il film iscrive, conse- gnandolo alla voce greve di Falconer, un momento di rievocazione di un luogo archetipo dell’immaginario bucolico americano, la fattoria immersa nella pianura immensa e tranquilla) e su una mascolinità incorruttibile e dominatrice. Il film di Pollack è sintomatico di una poetica della nostalgia, di un cinema autoriflessivo che attraversa l’America dalla seconda metà degli anni Sessanta.

A partire da questa stagione, dalla rivoluzione formale e generazionale della cosiddetta New Hollywood, e dalla guerra in Vietnam, fino ai giorni nostri il cinema bellico pone implicitamente e immancabilmente il quesito del proprio potere mito- poietico. Il cinema bellico risponde sempre al bisogno di riconfermare un’ideale di