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Parlare di linguaggi e strategie della paura significa indagare due piani stretta- mente correlati, in quanto la vita politica si nutre di rappresentazioni culturali, e in parallelo la cultura drammatizza le tensioni e gli enigmi del presente politico. Come noto, l’estetica della paura è già al centro della tragedia di orrori senechiana ed è discussa a livello teorico nella Poetica di Aristotele, dove la catastrofe tragica è defi- nita come “un’azione che reca seco rovina o dolore, dove si veggono, per esempio, cadaveri sulla scena, si assiste a dolori strazianti, a ferite e ad altre e simili sofferen- ze” (1992, p. 216). Tali immagini ci conducono nel territorio dell’orrore piuttosto che del terrore: due termini su cui ha riflettuto di recente la filosofa Adriana Cavarero (2007, p. 17), ricordandoci che il terrore si lega etimologicamente all’atto del tremare e all’impulso di fuga, mentre l’orrore evoca il rizzarsi dei capelli, l’ag- ghiacciarsi, la paralisi del corpo. Queste due parole denotano quindi esperienze per certi versi opposte: l’una dinamica e legata all’istinto di conservazione, l’altra statica e di annientamento interiore. Tuttavia, ai nostri tempi, come sottolinea Cavarero, le categorie dell’orrore e del terrore sono entrambe chiamate in causa – e diventano inseparabili – nelle strategie politiche dei conflitti e nelle loro rappresentazioni mediatiche. Alla paura è inoltre legata fin dall’antichità la categoria estetica del subli- me, cui già nel primo secolo d. C. lo Pseudo Longino dedica il trattato Del Sublime, anche se per una analisi a tutto campo del sublime come “terrore dilettevole” (susci- tato dall’oscurità, dall’immensità, dalle manifestazioni del potere…) dobbiamo aspettare il filosofo settecentesco Edmund Burke, con la sua Inchiesta sul bello e il sublime (1757)1.

In anni recenti, i linguaggi e le strategie della paura si sono imposti come ogget- to di studio anche in altri ambiti disciplinari: penso in particolare all’analisi della comunicazione politica e della rappresentazione mediatica di guerre e conflitti. Nel saggio che qui pubblichiamo, Paolo Fabbri e Federico Montanari si concentrano sul concetto di strategia per ricordarci che “lo stesso ricorso alla forza diviene ora sol- tanto una delle possibili opzioni, all’interno di un campo di manovre strategico che comprende anche ‘armi semiotiche’ come quelle della minaccia, della dissuasione, della manipolazione, della sanzione”. Fabbri e Montanari sottolineano il mutamen- to che nei conflitti internazionali si è verificato a partire dalla guerra fredda, in par- ticolare attraverso l’uso strategico delle armi nucleari come minaccia e deterrente. Si è aperto così uno scenario di “guerra semiotica”, nel quale “lo spazio di interazione e di comunicazione con l’altro diviene un vero e proprio campo di manovra”.

Studiosi di varie discipline concordano oggi nell’affermare che il fenomeno guerra va rapportato a più ampi contesti conflittuali e concentrano la loro atten-

a chi non ce l’ha e fare i nomi dei malfattori maschile di uomini sani, dare un nome

dalle due parti. ai “loro” malfattori.

Orientato verso una soluzione. Orientato verso la vittoria.

(Carpentier, Terzis, a cura, 2005, p. 14)

Questa nuova assunzione di responsabilità da parte dei giornalisti nel processo di costruzione della pace comporta il tentativo di superare la logica dicotomica – buono/cattivo, amico/nemico, civile/barbarico, organizzato/caotico… – che caratte- rizza troppo spesso i reportage sui conflitti (cfr. p. 7). I facili binarismi – e la retori- ca roboante che sostiene questa visione semplicistica del mondo – costituiscono un profondo ostacolo alla comprensione, come osserva Amos Oz quando scrive: “Nel conflitto tra ebrei e palestinesi non esistono buoni e cattivi, ma la tragedia di oppo- sti diritti” (2002, p. 18). Non a caso, contro il fanatismo Oz propone antidoti come l’umorismo – che notoriamente implica una presa di distanza da se stessi – e la lette- ratura, che inietta “immaginazione nei suoi lettori” (p. 49). Calarsi in vari personag- gi, sperimentando una condizione di pluralità, è di per sé un esercizio che facilita la com-passione, letteralmente il “sentire con l’altro”. Non dobbiamo infatti dimentica- re che la paura è spesso legata all’ignoranza (letteralmente, alla mancata conoscen- za) e al pre-giudizio (quindi a una conoscenza infondata), e ancora che la paura è parente prossima dell’odio, una delle più potenti “emozioni distruttive” (cfr. Goleman 2003)

Nutrendosi di una retorica a forti tinte, dalle connotazioni spesso religiose, quin- di assolute, i linguaggi della paura – siano essi utilizzati in comunicati terroristici, dalla propaganda di regime o da governi teo-conservatori – stigmatizzano il relativi- smo come un male, mentre ogni interrogazione critica sulla realtà e ogni tentativo di mediazione di un conflitto – fondato per sua natura su ragioni non facilmente con- ciliabili – comporta proprio una dose di relativismo. Un atteggiamento mentale che non coincide affatto, ricordiamolo, con una “de-responsabilizzazione” dell’indivi- duo o con una concezione nichilista del linguaggio e dei “valori” che esso veicola. Il linguaggio, anzi, pesa oggi più che mai, e non è un caso che a riaffermare l’impor- tanza del rapporto tra etica e letteratura sia stato in anni recenti il romanziere israe- liano Abraham Yehoshua, che nel 1998 scriveva: “L’etica non è una stella la cui luce brilla debolmente a distanze infinite, ma è onnipresente, ovunque esseri umani entri- no in relazione tra di loro” (Yehoshua 1998, pp. XVII-XVIII). In questo mondo glo-

balizzato – in cui i mezzi di comunicazione permettono di coprire immense distan- ze, superando frontiere naturali e politiche – è oggi necessaria quella che potremmo definire un’etica della complessità, capace di rispettare le diversità culturali, ma anche di rifondare regole comuni in una prospettiva planetaria.

Complesso è dunque il bilancio della nostra epoca, segnata da un grande afflato transculturale – che si esprime a livello politico (la missione di dialogo e monitorag- gio svolta da organismi internazionali come l’ONU), religioso (l’ecumenismo, il sin-

cretismo), accademico (gli studi postcoloniali e culturali, il comparatismo, anche con ambizioni planetarie) (cfr. Adamo, a cura, 2007; Spivak 2003) – dietro cui si celano tuttavia nuove forme di imperialismo e omologazione, legate in particolare al pro- cesso economico di “globalizzazione” dei mercati. Non stupisce che un mutamento

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zione sui processi comunicativi che tali contesti implicano. Per sistematizzare il problema, elencherò alcune prospettive di studio, a partire dall’analisi del terrori- smo. Gli esperti del settore studiano gli obiettivi che i gruppi terroristici si pon- gono, le strategie che utilizzano per raggiungerli e gli strumenti attraverso cui i governi possono rispondere agli atti terroristici evitando di cedere al ricatto della violenza. Andrew H. Kydd e Barbara F. Walter osservano in proposito che i regi- mi democratici sono più soggetti a certi attacchi terroristici rispetto ai regimi auto- ritari, sia perché i regimi democratici hanno più difficoltà nel raccogliere informa- zioni sulla popolazione sia perché sono più attenti ai diritti umani a livello di inter- rogatori e ritorsioni (cfr. Kydd, Walter 2006, p. 61). Lo stretto legame che nei paesi democratici unisce la classe politica all’opinione pubblica contribuisce di per sé a renderli vulnerabili al terrorismo, che può avere il preciso scopo di “disseminare sfiducia tra i moderati”, provocando “una reazione che faccia apparire il nemico barbaro e infido” (pp. 78-79).

In parallelo, gli esperti di sociologia e comunicazione esaminano le strategie della paura che il potere costituito fa proprie nel confrontarsi col terrorismo. James P. McDaniel definisce “teo-politici” gli strumenti retorici con cui il governo statuni- tense concettualizza le minacce internazionali poste da “Stati canaglia” e gruppi ter- roristici. Attingendo al repertorio lessicale delle sacre scritture, la “retorica sublime del terrore” – anch’essa di stampo “fondamentalista” (McDaniel 2003, p. 539) – rischia di compromettere un esercizio autenticamente democratico della vita pub- blica, finendo con l’“intensificare il potere esecutivo” (p. 540) e col minimizzare le opportunità di dibattito. Non manca poi chi esplora il potenziale ruolo dei leader politici nella costruzione sociale dell’insicurezza collettiva, ponendosi domande come: “Che rapporto c’è tra la paura e le politiche elettorali? In che modo i politici si servono della paura e dell’insicurezza, o comunque rispondono a questo stato di cose, per accrescere il loro sostegno popolare?” (Béland 2007, p. 318). Poste queste premesse, non stupisce che le “dietrologie” fioriscano, come mostrano Fahrenheit 9/11 (2004) di Michael Moore o il documentario Confrontando le prove (2004), pro- dotto dal miliardario americano Jimmy Walter, due pellicole che rileggono gli atten- tati dell’11 settembre secondo diverse teorie del complotto.

Centrale è nei processi di rappresentazione dell’insicurezza e del nemico il ruolo dei media, le cui tradizionali asserzioni di obiettività e fattualità vengono oggi messe in discussione dagli stessi giornalisti, che denunciano pressioni di carattere politico ed economico. Consapevoli del ruolo che esercitano all’interno dei conflitti per il loro potere di “costruire” la notizia, influenzando l’opinione pubblica, alcuni gior- nalisti cercano la strada per costruire quello che il norvegese Johann Galtung ha definito “giornalismo di pace” (peace journalism) e che si contrappone in questi ter- mini al “giornalismo di guerra”:

Giornalismo di pace Giornalismo di guerra

Orientato verso la pace / il conflitto: Orientato verso la guerra / la violenza: la guerra è il problema. “loro” sono il problema.

Orientato verso la verità: rivelare Orientato verso la propaganda: rivelare le menzogne delle due parti. le “loro” menzogne, coprire le nostre. Orientato verso la gente: mettere al centro Orientato verso un’élite: mettere al centro la sofferenza di chiunque, dare voce la “nostra” sofferenza, la presenza di un’élite

vittime che queste infermiere potranno salvare, ma semiotica, nella misura in cui Weil – fiduciosa nell’“efficacia morale di un simbolo” – vuole contrapporre un eroi- smo di cura all’eroismo di morte delle truppe hitleriane.

Una diversa forma di straniamento emerge dall’intervento di Daniela Fortezza sul teatro di Caryl Churchill, autrice di una pièce distopica – venata di amara ironia – in cui una condizione di conflitto globale coinvolge umani, animali e altri elementi naturali. Fin dal contrasto tra il Far Away – Lontano lontano – del titolo e il caratte- re intensamente britannico di certi elementi scenici, il dramma rivela la sua prospet- tiva “straniante”, con l’obiettivo di “destabilizzare lo spettatore” – come rileva Fortezza –, invitandolo a riconoscere l’effettiva prossimità di pericoli che ci rassicu- ra immaginare distanti. Allo straniamento si può ricondurre in ultimo la copertina del graphic novel di Art Spiegelman In the Shadow of No Towers (2004; reso in ita- liano con L’ombra delle torri), al centro dell’intervento di Franco Minganti. Sostituendo al profilo familiare delle torri gemelle la loro “ombra” Spiegelman rea- lizza un connubio impossibile tra presenza e assenza, restituendo nella sintesi di un’immagine il carattere paradossale del ricordo.

Come si vede, mentre i linguaggi della paura fanno leva sulla formula militante che previene il libero pensiero, l’antidoto contro la condizione di un conflitto per- manente è il pensiero critico, la dis-locazione del linguaggio, un posizionamento cul- turale che ricerca l’universale nella comunione delle emozioni e delle esperienze fon- danti l’umano. Solo la fiducia in questo incontro in un “oltre” comune può disinne- scare la miccia della paura e dell’odio.

1Il fascino della paura e il suo rapporto con il “fantastico” sono stati esplorati da un’ampia messe di studi cri-

tici e di estetica, che analizzano le successive declinazioni culturali del termine – dal gotico settecentesco ai recenti sviluppi della cinematografia horror e splatter (cfr. Milani 1998).

INTRODUZIONE 

così repentino susciti reazioni in senso conservatore – dettate dalla paura del cam- biamento – secondo le dinamiche culturali evidenziate da Ian Buruma e Avishai Margalit in Occidentalismo (2004):

I suoi nemici vedono l’Occidente come una minaccia non perché offra un sistema alter- nativo di valori, e meno che mai una strada diversa verso l’utopia. Esso costituisce una minaccia perché promettendo benessere materiale, libertà individuale e dignità a vite non eccezionali, le svuota di ogni ambizione utopica (p. 65).

È significativo che i due autori di questo libro utilizzino a più riprese il mito bibli- co di Babele/Babilonia per incapsulare lo sguardo dell’“altro” su un Occidente con- sumista, materialista, che trova in se stesso – nella propria organizzazione politica, economica e culturale – la ragione di esistere, a prescindere da ogni prospettiva tra- scendente.

Questo “Occidente” che fonda il suo presente politico-culturale sulle libertà del- l’individuo, proponendosi come civiltà laica e suscitando scandalo nei custodi delle tradizioni teocratiche, comporta tuttavia fenomeni mass-mediatici che ne evidenzia- no il lato oscuro. Osserva Susan Sontag che nella nostra cultura “lo shock è divenu- to uno dei più importanti criteri di valore e incentivi al consumo” (2003, p. 25). Questa considerazione ci riporta alla dimensione estetica che la violenza e la paura hanno nella cultura contemporanea, dove si legano al circuito commerciale, raffor- zandosi attraverso le connotazioni erotiche del corpo martoriato (p. 41). Per indur- ci a ripensare criticamente il legame tra eros e thanatos – al centro del voyeurismo mediatico, confinante con la pornografia e i video-games – Cavarero ha coniato, come si diceva, il termine orrorismo. Mentre parole chiave dei nostri tempi come guerra e terrorismo riconducono al territorio dinamico della strategia, orrorismo evoca la paralisi di chi assiste a quelli che Cavarero (2007) definisce “crimini onto- logici” perpetrati contro creature inermi: le vittime innocenti di genocidi, incursioni belliche e attentati terroristici, spesso donne e bambini.

Quello che Cavarero si propone con Orrorismo è farci vedere la storia dalla parte delle vittime. Attraverso questo neologismo la filosofa persegue una strategia di stra- niamento che ci permetta di uscire dalla prospettiva del “terrore dilettevole” in for- mato postmoderno – la sollecitazione “erotica” di un pericolo che esperiamo “a distanza di sicurezza”, per così dire, come quando seguiamo le azioni di guerra attra- verso uno schermo televisivo –, per restituirci il senso della vulnerabilità della carne e la speranza nella parola come strumento d’incontro, mentre l’orrore si condensa, secondo l’archetipo della Gorgone, in una sorta di grido muto e senza fine.

Proprio lo straniamento caratterizza – con modalità molto diverse – i fenomeni culturali analizzati in almeno due degli interventi raccolti in questa sezione del volu- me. Confrontandosi con la risposta etica di Simone Weil alla seconda guerra mon- diale, Adriano Marchetti cita infatti un articolo di Weil intitolato Non ricominciamo la guerra di Troia in cui si preannuncia “la necessità di svuotare le parole dei nostri significati e delle nostre certezze di cui le avevamo rivestite”. Contro i cliché di pen- siero si schiera dunque Weil, che traduce questa posizione nel progetto di formazio- ne di un corpo infermieristico chiamato a operare là dove la violenza della guerra è massima. La finalità del progetto non è tanto pragmatica, ovvero legata al numero di