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La storia delle battaglie è innanzitutto quella della metamorfosi dei loro campi di percezione (P. Virilio).

Nell’ambito dei film di guerra, può sembrare decisamente fuori luogo o di catti- vo gusto inventare guerre a scopo fictional quando le guerre vere non mancano affat- to e anzi ce n’è un ampio repertorio a cui attingere, nel passato come nel presente. Ciononostante, il cinema americano ha fatto anche questo, creando una sorta di sot- togenere del war movie che non ha niente a che fare con mitologie fantasy o scenari di invasioni aliene, ma si basa su alcune ipotesi di realtà alternative in cui una guer- ra – verosimile a tutti gli effetti – potrebbe effettivamente essere dichiarata e com- battuta dagli americani nella nostra contemporaneità.

I tre film di cui si parlerà in questa sede appartengono tutti all’ultimo scorcio del primo millennio, dal 1995 al 1997 (in piena presidenza Clinton, 1993-2001), un periodo relativamente pacifico della storia statunitense in cui poco si parlava di ter- rorismo e molto spazio si concedeva alla figura del presidente. Sono anni, infatti, che vedono una democratizzazione e perfino una demistificazione della figura presiden- ziale, che viene progressivamente privata della sua immagine magico-sacrale (Alonge, Menarini, Moretti 1999, p. 124). Questo si traduce nel cinema in perso- naggi che sono amorevoli padri di famiglia come in Independence Day, o nella loro controparte parodica come in Mars Attacks (rispettivamente di Ronald Emmerich e Tim Burton, entrambi del 1996).

Il 1996 sembra essere un anno cruciale, non solo nel mondo del cinema ma anche in quell’altro show che è la politica: il 1996 vede infatti svolgersi sotto gli occhi della audience mondiale lo scandalo Lewinsky. Nello stesso anno il presidente aveva scrit- to un libro che si intitolava Between Hope and History: un omaggio al grande poeta irlandese e premio Nobel Seamus Heaney (di cui riporta nel titolo, appunto, i versi “once in a lifetime (…) hope and history rhyme”, ovvero “capita una volta nella vita che la parola speranza e la parola storia facciano rima”). Il suo libro voleva infonde- re negli americani un senso di ottimismo unito a un grande senso di responsabilità collettiva nel raccogliere le sfide poste dall’imminente nuovo millennio, e trasmette- re la necessità di rispettare i valori del passato senza perdere di vista la visione del futuro (cfr. Clinton 1996).

Lo stesso anno esce un altro libro, Clinton: The President They Deserve: una bio- grafia politica scritta da un non-elettore, il giornalista britannico Martin Walker, cor- rispondente del «Guardian». Fra i numerosi argomenti che affronta, i media occu- pano un ruolo di prima importanza. Per esempio, Walker osserva che quando Clinton fa il suo ingresso alla Casa Bianca i mass media hanno già subito una vera e propria rivoluzione, imparando a reagire alle emergenze globali nel tempo brevissi-

so, ed essere rieletto alle prossime elezioni. Così, dopo un lungo brain storming, il presidente (Alan Alda) ordina al Pentagono: “Se proprio non trovate niente di meglio… invadete il Canada, almeno è vicino!”. Basandosi sullo stereotipo che “tutti odiano i canadesi”, parte la campagna dei media, contrastata paradossalmente dallo sceriffo di una località di confine (Bud B. Boomer, interpretato da John Candy, che per colmo d’ironia è canadese), che combinerà solo guai.

La seconda guerra civile americana è una black comedy frutto della collaborazione fra il regista Joe Dante, lo scrittore canadese Martyn Burke e il produttore Barry Levinson. Realizzata per l’emittente televisiva HBO, fu poi portata anche nelle sale

cinematografiche dalla Mikado e presentato in anteprima alla 54ª Mostra del Cinema di Venezia. Questa la trama. In un vicino futuro, Farley (Beau Bridges), il governa- tore dell’Idaho, decide di chiudere le frontiere a un gruppo di orfani pakistani sfug- giti a una guerra nucleare tra l’India e il Pakistan, che chiedono asilo politico. Senza pensare al proprio interesse personale (è innamorato lui stesso di una giornalista di origini messicane che lavora per un importante network televisivo) e contro ogni logica democratica e multiculturale, la sua decisione si allarga alla chiusura dei con- fini a chiunque non sia “americano”: immigrati, clandestini, chiunque abbia origini non wasp. Mentre le truppe dell’Idaho si schierano ai confini dello Stato, i media si scatenano: e di notiziario in notiziario enfatizzano, distorcono e manipolano la situa- zione fino ad aggravarla al di là di ogni possibilità di ritorno. La deflagrazione etni- ca coinvolge tutto il paese, inchiodando milioni di telespettatori alla poltrona duran- te il prime time e trascinando altrettante persone sull’orlo della seconda guerra civi- le. Sarà la fine del melting pot e del Sogno Americano?

Sesso e potere, girato come un instant-movie in soli 29 giorni e costato 15 milioni di dollari (contro un budget medio di 100) vanta una sceneggiatura di David Mamet e Hilary Henkin (dal romanzo American Hero di Larry Beinhart), musiche di Mark Knopfler e Willie Nelson, e un cast d’eccezione che comprende Robert De Niro e Dustin Hoffman. La situazione descritta è per certi versi analoga ai film precedenti: è necessario creare un diversivo per distrarre l’elettorato da uno scandalo che coin- volge il presidente, mettendone a repentaglio la rielezione. Il tempo a disposizione è esiguo: 15 giorni. Viene così chiamato alla Casa Bianca un esperto di manipolazione dei media, lo spin doctor Conrad Brean (Robert De Niro), il quale, dopo aver sug- gerito al presidente di prolungare un viaggio in Cina, contatta il celebre produttore hollywoodiano Stanley Motss (Dustin Hoffman) e insieme creano il diversivo di una guerra con l’Albania. “Se ne accorgeranno”, replica qualcuno, dubbioso. “E chi glie- lo dirà?”, risponde lui.

Anche se nel romanzo il presidente è esplicitamente George Herbert Walker Bush e l’operazione bellica è, altrettanto esplicitamente, Desert Storm, nel film la guerra contro l’Albania è dunque una fake war, una guerra totalmente fasulla, com- battuta solo sugli schermi: non può mancare un riferimento alla lezione provocato- ria di Jean Baudrillard (1991) sulla guerra come frutto di un’illusione mediatica. Negli anni a venire, il tema della fake war o della guerra in ucronia (un luogo-tempo narrativo dove tutto è possibile, anche un passato diverso da quello che conosciamo) continuerà a destare interesse, come si può vedere da due esempi recenti: il roman- zo di Harry Turtledove How Few Remain (1997), dove sono gli Stati del sud a vin- cere la guerra di secessione americana e, nei primi anni del nuovo millennio, un

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mo di uno spot pubblicitario, e che durante la campagna elettorale Clinton era soli- to rilasciare interviste a TVlocali via satellite (cfr. Walker 1996, p. 195).

Vediamo bene da questi esempi come si sia costruita in quegli anni la simulta- neità dell’informazione-ricezione e la (falsa) familiarità presidente: audience, falsa, un disembodied affair, in quanto local e global non sono compatibili e difatti “Clinton parlava nel buco nero della lente di una telecamera, senza vedere mai in faccia l’interlocutore a cui pure si rivolgeva con tanta familiarità” (ib.). Tutto que- sto determinò inevitabilmente nel pubblico un senso di overconfidence mediatico, un eccesso di confidenza, fiducia e familiarità col mondo (e il mercato) dei mass media (p. 196). Allo stesso tempo, la popolarità di Clinton, la sua posizione nella costruzione di una nazione democratica e il suo impegno nelle riforme sociali fanno di lui “l’archetipo americano del dopoguerra” (p. 347). Ma i tempi sono maturi per un postwar cinema?

Si è detto che la guerra del Vietnam è stata la prima guerra postmoderna; più dif- ficile è dire quale sia il primo film postmoderno sulla guerra, Vietnam o qualunque altra. Forse Apocalypse Now di Coppola? O piuttosto 1941: Allarme a Hollywood di Spielberg, entrambi del 1979? O bisogna andare ancora più indietro?… Certo non I berretti verdi di John Wayne e Ray Kellogg (The Green Berets, 1968), ma piuttosto Amore e morte di Woody Allen (Love and Death, 1975); oppure M.A.S.H. di Altman (1969)... ma allora, perché non Il dottor Stranamore di Kubrick (Dr Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964)? E poi, se da un lato la guerra del Vietnam è stata la prima guerra postmoderna, si è detto anche che la guer- ra del Golfo è stata la prima guerra mediatica o televisiva o teletrasmessa, e la guer- ra del Kosovo la prima guerra del web. E quali sono stati i primi film che hanno interpretato queste nuove forme dello spettacolo bellico di massa?

Nello sterminato panorama del war movie, mi è parso di poter individuare nei tre film di cui parleremo un modo assolutamente unico e veramente postmoderno di porsi nei confronti della rappresentazione della guerra. Oltre a inserire una guerra inventata in un ampio contesto multietnico e multiculturale reale che rende il senso di frammentazione della contemporaneità, questi film compiono infatti tre opera- zioni importanti: la decostruzione dell’evento bellico in sé, la denuncia del legame fra politica e media, e lo smascheramento della retorica del potere. Nel far ciò si con- frontano continuamente col problema del rapporto fra vero, reale e falso; con la riscrittura della Storia; col rapporto fra centro e margini.

I film in questione sono: Operazione Canadian Bacon (Canadian Bacon, Michael Moore 1995), La seconda guerra civile americana (The Second Civil War, Joe Dante 1997) e Sesso e potere (Wag the Dog, Barry Levinson 1997). Tre registi diversi: docu- mentarista e dissenziente Moore; proveniente dalla science fiction e dall’animazione Joe Dante; legato al mondo delle serie TVLevinson che ha prodotto anche La secon- da guerra civile americana.

Operazione Canadian Bacon, diretto da Michael Moore, è una commedia satirica che immagina uno scenario diverso. Finita la guerra fredda e caduto il Muro di Berlino, occorre un nuovo nemico per gli Stati Uniti, un nemico che possa rimpiaz- zare quell’Unione Sovietica che Reagan definì “l’impero del male”; un nemico che minacci la patria, affinché lui possa difenderla; e, soprattutto, un nemico a cui dichiarare guerra così che il presidente possa recuperare la sua popolarità in ribas-

tica non rappresenta certo un’affermazione originale, e anzi era già ben chiaro da tempo; e non sto pensando a Marylin Monroe, a Ronald Reagan, o alle liste nere del maccartismo, ma a una celebre battuta di un film 1941: Allarme a Hollywood. Dopo l’attacco di Pearl Harbor, il comandante del sottomarino giapponese interpretato da Toshiro Mifune chiede: “Cosa vale la pena bombardare a Los Angeles?”. E gli viene risposto: “Hollywood!”. Bombardare Hollywood era non solo lo spunto per una gag, ma il riconoscimento che proprio in quegli anni si stava entrando (il film è del 1979) in un’era dominata dalle immagini, dove la stessa posizione della Casa Bianca al centro del potere politico mondiale e la nozione di America-mondo (cfr. Valladao 1993, p. 150) poteva essere mantenuta solo a patto che fosse sostenuta da un’indu- stria cinematografica e televisiva adeguate. Pensiamo che poco più di un decennio più tardi l’industria cinematografica avrebbe costituito il secondo prodotto d’espor- tazione degli Stati Uniti e i ? delle immagini guardate ogni giorno dagli abitanti del pianeta sarebbero stati made in USA(p. 192).

Legata all’idea di manipolazione c’è naturalmente l’alterazione della nozione di vero e di falso. In un altro film interessante, più o meno coevo di 1941: Allarme a Hollywood, Capricorn One (Peter Hyams, 1978), per “salvare” una fallimentare mis- sione su Marte questa viene filmata a terra da cineprese e trasmessa come se fosse vera. Vero e falso si intrecciano continuamente nei film presi in esame: per esempio in La seconda guerra civile americana viene fatto notare come usando un grandango- lo anziché un teleobiettivo gli orfani sembrano essere di numero molto inferiore, e a un certo punto alcuni personaggi concordano che se ci fosse stato John Wayne la guerra del Vietnam sarebbe finita dopo una settimana. E il pensiero corre al consu- lente del Pentagono Edward Luttwak che, alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, profe- tizzò incautamente: “Sarà la guerra dei sette giorni… durerà una settimana al massi- mo” (de Carlo 2003, p. 5). Una curiosità: al termine del film una voce off informa che a tutti gli effetti la guerra è durata una settimana: dunque il nome di John Wayne non è stato pronunciato invano.

Anche in Operazione Canadian Bacon la guerra dovrebbe durare sette giorni: “Una settimana, Presidente: una settimana”. Il film è una satira che si avvale, per costruire la sua comicità, dello stereotipo del canadese pacifista, disarmato, fin trop- po educato e politicamente corretto, per cui la gag nasce dalla distorsione mediatica che “reinventa” i canadesi e incrina i rapporti di buon vicinato fra Canada e Stati Uniti. In tutti i programmi televisivi si insiste sul fatto che fra Stati Uniti e Canada corre il confine più lungo e meno protetto del mondo, e una delle frasi della propa- ganda anti-Canada è questa: “Come sciroppo d’acero l’infausto canadese cola lenta- mente sugli Stati Uniti”. I canadesi sono da evitare, come il loro paese, freddo e ino- spitale.

È interessante anche sottolineare che la guerra, che all’inizio dovrebbe restare una guerra fredda, rischia di trasformarsi in una guerra vera e propria per colpa di alcuni fanatici capeggiati da uno sceriffo estremista. Fra una battuta e l’altra arriva puntuale la denuncia di Moore: un ex generale confessa per esempio che anche la guerra del Vietnam iniziò così, inscenando un falso attacco a una nave americana nel golfo del Tonchino quando in realtà si trattava del lago Eire.

Sesso e potere è l’unico dei tre film che racconta una storia in cui la guerra non scoppia veramente, ma viene solo girata in studio. Il film si basa sul principio per cui

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videogame prodotto e commercializzato dalla Pop Top Software, che reca un nome significativo: Shattered Union.

Le guerre fittizie create dai tre film qui esaminati si svolgono in un contesto reale e verosimile, senza alcun displacement geografico o storico: non hanno nulla a che fare con mitologie fantasy o scenari di invasioni aliene, ma si basano su alcune ipo- tesi di realtà alternativa in cui una guerra – verosimile a tutti gli effetti – potrebbe effettivamente essere dichiarata e combattuta dagli americani qui e ora – anche se “dichiarare” non è forse il verbo più adatto, poiché, come ci ricorda lo spin doctor in Sesso e potere, è dalla seconda guerra mondiale che gli Stati Uniti non dichiarano più guerre ma “sono” semplicemente in guerra.

Tutti e tre i film citati si muovono nell’ambito della satira e del genere grottesco, con spunti di minore o maggiore comicità mescolati a effetti drammatici. Alcune scene in particolare danno ragione del perché questi film siano “spariti” nel vero senso della parola negli ultimi anni. Basti pensare che in Sesso e potere la bara con- tenente il cadavere di un falso eroe nazionale viene mostrata su tutti gli schermi d’America, accolta da una folla di bandiere, mentre in La seconda guerra civile ame- ricana un telecronista viene assassinato in diretta e un gruppo di sedicenti “patrioti” danno fuoco alla Statua della Libertà, uno dei massimi simboli dell’America e del Sogno Americano. Se in Independence Day (1996) è Capital Hill a essere distrutta dagli alieni, qui è la Statua della Libertà a bruciare a opera di un gruppo di terrori- sti-patrioti, una scena che dopo l’11 settembre e Ground Zero acquisirà tinte più inquietanti, dando a queste scene un imprevisto senso di realismo che le renderà non più “sostenibili” come fiction.

Scene del genere non saranno dunque più vedibili dopo l’inizio della guerra in Iraq, ma negli anni della presidenza Clinton erano invece assolutamente giustificate: questi film infatti, pur attraverso la leggerezza tipicamente postmoderna della riscrit- tura, del gioco “what if…”, del ribaltamento della Storia, mettono in guardia contro la manipolazione dei media che, così come sono capaci di inventare, sono capaci anche di cancellare, modificare, ricombinare, e sembrano quasi presagire i tempi in cui le guerre non si potranno più inventare e soprattutto non si potrà più sorriderne. La presenza dei mass media in questi film è predominante e devastante. I media sono al servizio del potere a tal punto che le due entità vengono a confondersi, e la guerra diventa una delle possibili arene su cui esercitare il controllo dell’individuo, della società, e della Storia. Sbaglia il presidente in La seconda guerra civile america- na, quando afferma che se Mosè avesse avuto i media tra i piedi non sarebbe riusci- to a portare il suo popolo fuori dall’Egitto; in realtà, come viene più volte ripetuto nel corso del film, “l’immagine è qualcosa di più importante della realtà”. Tant’è che il problema principale legato all’attesa della scadenza dell’ultimatum pronunciato dal presidente è la coincidenza con l’ultima puntata di una soap opera.

I tre film ci dicono che i media sono al servizio del potere, e fin qui niente di nuovo; ma nel momento in cui i tre registi si spingono a indagare le dinamiche estre- me che sottendono al raggiungimento e al mantenimento del potere emerge una comune verità angosciosa: ciò che viene offerto al cittadino/spettatore è il privilegio di assistere al combattimento, piangere insieme alla vittima, acclamare l’eroe.

Che la Casa Bianca e il potere politico fossero legati a doppio filo al mondo dello spettacolo, e che anzi Hollywood rappresentasse una delle punte dell’egemonia poli-

anche a partire dai media, e che proprio a questi spetta il compito di costruire la retorica del consenso.

Tornando a Sesso e potere, vi troviamo un ultimo colpo di scena: l’eroe, prele- vato per essere portato in trionfo, si rivelerà un pericoloso psicopatico, ex dete- nuto in carcere di sicurezza, e verrà ucciso nel tentativo di stuprare una donna. Dopo un primo attimo di smarrimento, il regista e lo spin doctor hanno una nuova idea: sarà la sua salma, circondata da mille bandiere sventolanti, a entrare in tutti gli schermi televisivi ed essere salutata, nella commozione generale, dalle lacrime degli spettatori.

Anche in questo film non mancano i toni di denuncia. Per esempio, lo spin doc- tor profetizza che le guerre del futuro saranno combattute non contro le nazioni ma contro piccoli gruppi di terroristi non necessariamente legati ai loro governi. Non è una novità: già in Ritorno al futuro (Zemeckis 1985) e in True Lies (Cameron 1994) aveva fatto il suo ingresso il terrorismo arabo. Questo film, però, si conclude ina- spettatamente con la notizia che alcuni terroristi albanesi hanno di fatto rivendicato un attentato. La notizia di un vero attentato, unitamente alla morte del regista (che viene “eliminato” perché non sveli la verità) significa che la guerra deve andare avan- ti: “the show must go on”, lo spettacolo deve continuare, si trasforma in un ordine più inquietante: “the war must go on”. In conclusione, questi film creano di fatto una sorta di guerra-che-non-c’è, una never war nello stile di Peter Pan, dove, a una lettura approfondita, l’isola-che-non-c’è non rappresenta una fuga dal reale o un desiderio di non misurarsi con le proprie responsabilità sociali, ma al contrario una delle metafore più riuscite degli orrori del reale: un quadro che ci svela l’assurdità di una guerra che non solo “c’è”, ma è never-ending.

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lo spettatore crede a tutto quello che vede sullo schermo: “Alle volte una guerra la si inventa davvero: non viene mai combattuta, ma alla TV si vede. Per cui esiste”

(Alonge, Menarini, Moretti 1999, p. 113). Si tratta dunque, in questo caso, di una doppia “mise en abîme”, ovvero della rappresentazione di una guerra immaginaria girata in studio per essere teletrasmessa come documentario nei notiziari.

Il regista che Brean interpella è Stanley Motts, famoso fra l’altro (nuova ironia) per aver “rifatto Moby Dick dal punto di vista della balena”. L’idea che egli propo- ne a Brean è che un terrorista albanese abbia introdotto una bomba atomica in Canada dentro una valigia. L’Albania viene scelta in quanto “terreno fertile per il ter- rorismo internazionale”, mentre il Canada ben si presta (ancora il Canada!) a essere descritto come un luogo ostile, brullo, ventoso, ghiacciato. Tramite vari provini si sceglie una ragazza per girare un servizio per il telegiornale, e intanto il pubblicita-