“Non esiste una letteratura dell’Olocausto, né può esistere”. “Scrivere poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Nella letteratura che affronta l’Olocausto parole come queste di Theodor W. Adorno e di Elie Wiesel sono spesso un punto di partenza. Chi si avvia a scrivere deve rispondere a questi impliciti imperativi pren- dendo posizione a proposito dei silenzi – metaforici e letterali, degli uomini e di Dio1 – che circondano l’Olocausto. Chi ne scrive segnala la propria consapevolezza di par- tecipare a un paradosso. Scrivere dell’Olocausto è una negoziazione con il silenzio.
Maus, il graphic novel del fumettista ebraico-americano Art Spiegelman, si situa al centro di questo paradosso. Spiegelman cerca di ricostruire la vicenda del padre sopravvissuto ad Auschwitz, e nel far questo – per potere fare questo – rappresenta nel libro se stesso e la propria lotta metaforica con il silenzio. In Maus, infatti, al rac- conto della lotta per la sopravvivenza di Vladek Spiegelman nell’Europa della Shoah si sovrappone, in un continuo intrecciarsi di livelli temporali, il racconto di una negoziazione con il silenzio che assume caratteri apertamente conflittuali.
Fin dall’inizio, e regolarmente nel corso di tutto il libro, il lettore è reso parteci- pe dei dubbi di Art il personaggio sul proprio scrivere di Auschwitz, un gesto che considera un atto di presunzione: “È così presuntuoso da parte mia. Insomma, non riesco neppure a dare un senso al rapporto con mio padre… come posso dare un senso ad Auschwitz?… O all’Olocausto?” (Spiegelman 1991, p. 14). In uno dei momenti in cui affronta i propri dubbi in modo più ottimistico Art, che si trova in un momento di crisi nel suo lavoro per il libro, è a colloquio con il suo psicanalista. Dopo una discussione sulla questione del senso di colpa dei sopravvissuti, lo psica- nalista Pavel, ceco, anch’egli sopravvissuto ad Auschwitz, conclude: “le vittime non possono mai dire la loro sulla storia, per cui forse è meglio non scriverne”. Art risponde: “Samuel Beckett disse una volta: ‘Ogni parola è come una macchia non necessaria sul silenzio e sul nulla’”. Nella vignetta successiva i due tacciono, seduti immobili. Poi Art aggiunge. “D’altra parte lo DISSE” (p. 45).
Seguendo il consiglio dello psicanalista, Spiegelman include queste parole nel suo libro, rendendo esplicito il cortocircuito che è già alla base del libro. Maus mette in scena, espandendolo a principio organizzatore del testo, il sublime postmoderno, il paradosso del dover rappresentare ciò che non è rappresentabile. Per poter raccon- tare la storia dei genitori, incomprensibile e in-credibile, come viene ribadito in tutto il libro, Art deve raccontare anche il processo della narrazione.
Il fumetto si apre su una “scena di narrazione” in cui vediamo Art Spiegelman incoraggiare il padre, Vladek, a raccontare la sua vita in Polonia durante la seconda
nonostante tutti i segnali alle “soglie” del testo indichino la centralità del testimone dell’Olocausto Vladek, si può quindi riferire anche ad Art, che è vittima di seconda generazione. E anch’egli, come in modi diversi si può dire del padre e della madre, non è sopravvissuto2.
L’intrecciarsi di biografia e autobiografia è anche, come accennato, l’intrecciarsi di due lotte. Se il racconto della vicenda di Vladek è il racconto di una lotta per la sopravvivenza, l’autobiografia Maus è il racconto di una lotta per rappresentare. La necessità che spinge Art Spiegelman a raccogliere la testimonianza del padre incon- tra diversi ordini di ostacoli, che vengono in parte superati, o meglio accettati, gra- zie all’inclusione del racconto del racconto. Mostrare al lettore di essere colpevole di quella che chiama presunzione – perché dare un senso ad Auschwitz non è possibi- le – è un modo per Spiegelman di perdonarsi e permettersi comunque di dire e dise- gnare, pur sapendo che quel che dirà/disegnerà con il suo inchiostro di china sono forse solo inutili macchie sul silenzio.
Uno dei primi ostacoli incontrati da Art è la fallibilità della memoria individuale. La memoria di Vladek Spiegelman si rivela in alcune occasioni inaffidabile. A volte è egli stesso a rendersi conto di non ricordare. Altre volte Art e il lettore se ne accor- gono senza che il fatto venga commentato esplicitamente nel testo. E il libro si con- clude con un richiamo alla realtà sulle capacità mnemoniche di Vladek, che per un attimo, proprio prima di lasciare il lettore al silenzio, ha chiamato Art con il nome del primo figlio, morto durante la guerra.
Altro problema centrale è costituito dall’organizzazione e selezione del “materia- le”. Art cerca di fare raccontare il padre seguendo un ordine cronologico: quella cro- nologica sembra essere l’unica struttura “rassicurante” a cui riferirsi. Ma è difficile. L’esperienza di Vladek sembra sotto l’effetto di una continua spinta centrifuga, e più volte Art è costretto a riportare bruscamente il padre all’ordine bloccando digres- sioni che spostano il discorso. Resta sottinteso che ogni volta che Art interrompe Vladek sacrifica una diramazione del discorso che forse avrebbe aggiunto informa- zioni preziose.
Per quanto riguarda la selezione del materiale un problema si pone quasi subito: Art si scontra con la resistenza di Vladek a che vengano riportati fatti troppo perso- nali. Quando ha finito di raccontare il suo primo incontro con la madre di Art, si interrompe bruscamente: “quello che ho detto (…) non voglio che tu scrivi in tuo libro”. Alle obiezioni del figlio risponde “non ha nulla a che fare con Hitler e OLO- CAUSTO!” (1986, p. 23) e Art promette di non raccontare fatti così privati nel suo
libro. Ma naturalmente non può mantenere la promessa, il lettore lo sa fin dall’ini- zio e segue lo scambio da complice di Art. Sono proprio queste cose, che apparen- temente non c’entrano, che possono servire a restituire il senso di realtà. Come dice Art, rendono “tutto più reale – più umano”. Tentare di scrivere la storia attraverso la petite histoire di Vladek significa anche tradire l’individuo Vladek sacrificandone il pudore, mortificando la sua vita nel trasformarla in “materiale”.
Un’altra resistenza incontrata da Art e segnalata continuamente da Spiegelman è quella del corpo del padre, indebolito dalle privazioni subite durante la guerra. In tutto il testo viene sottolineato lo sforzo fisico che rappresenta per Vladek il raccon- tare la sua esperienza: un pericolo reale per la sua salute, minata da diabete, fragilità cardiaca e polmonare. Nel corso del primo capitolo lo vediamo raccontare mentre si MACCHIE SUL SILENZIO. AUSCHWITZ NEL GRAPHIC NOVEL DI ART SPIEGELMAN
guerra mondiale. Ci aspettiamo che la scena faccia da cornice a una storia principa- le narrata in flashback, secondo lo schema a cui siamo abituati dal cinema, e a cui ci hanno preparato le soglie del testo, a partire dal sottotitoloRacconto di un soprav- vissuto. Ma dopo le prime interruzioni dobbiamo ricrederci. Quella di Art che inter- vista il padre non è una storia di cornice. Il lettore si trova di fronte a una rappre- sentazione della realtà in cui passato e presente coesistono e sono in comunicazione continua. In questo Maus riflette mimeticamente la realtà della vita di Vladek e Art. Nel caso di Vladek è evidente. Viene sottolineato, per esempio, come la sua lotta per la sopravvivenza iniziata ad Auschwitz sia diventata riflesso condizionato. Negli anni Settanta raccoglie pezzetti di filo del telefono per strada, per esempio – potrebbero tornare utili – e risparmia sui fiammiferi in modo isterico. Qualsiasi oggetto può essere un piccolo tesoro prezioso perché ad Auschwitz un fiammifero o una sigaret- ta possono valere la sopravvivenza, e in Vladek Auschwitz è ancora presente. Ma anche Art ha sempre convissuto con il passato di Vladek. Spiegelman lo mette in chiaro in più di un’occasione. Per esempio la sera in cui Art e la moglie Françoise, in visita da Vladek, lo sentono urlare nel sonno (cfr. p. 74). Françoise preoccupata chiede spiegazioni e Art risponde che il padre urla nel sonno ogni notte, tanto che Art da piccolo pensava che questa fosse una caratteristica di tutti gli adulti.
L’insinuarsi del passato nel presente viene reso anche sul piano grafico. Un caso paradigmatico si trova in una tavola del capitolo …E qui cominciarono i miei guai… Durante la conversazione precedente Art chiedeva incredulo al padre come mai i prigionieri di Auschwitz non si ribellassero (cfr. p. 73). Ora i due stanno viaggiando in auto con Françoise nelle Catskill Mountains dove Vladek è in villeggiatura, e Art menziona al padre di aver letto di un tentativo di ribellione da parte di alcuni pri- gionieri che lavoravano nelle camere a gas. Erano state uccise tre SS, e distrutto un
forno crematorio. Vladek aggiunge che però erano stati immediatamente uccisi tutti i responsabili. E le quattro ragazze che avevano procurato l’esplosivo erano state impiccate vicino alla sua officina. Nella vignetta culminante di questo scambio ini- zialmente lo sguardo del lettore è concentrato sull’auto bianca in basso a destra, che si sta allontanando, parzialmente nascosta dietro due tronchi d’albero. Vladek sta dicendo, nel balloon appena sopra l’auto, che le quattro ragazze erano amiche di Anja, sua moglie. Forse è mentre legge queste parole che lo sguardo del lettore si sposta verso la sinistra della vignetta abbastanza da notare, quasi mimetizzate fra i tronchi bianchi e neri, quattro paia di gambe con gonne a strisce verticali bianche e nere, sospese in aria. Le parti superiori dei corpi sono coperte dalla parte alta del balloon. “Rimasero appese per tanto, tanto tempo”, aggiunge Vladek (p. 79), ma il lettore ha visto che in realtà le quattro ragazze di Sosnowiec sono ancora lì.
All’opposizione binaria passato-presente corrisponde una serie di ulteriori oppo- sizioni. Da un lato la biografia di Vladek, associata al narrare fluido, la voce, dall’al- tro la narrazione autobiografica di Art, il chiedere e il dubitare, l’inchiostro. Da un lato Vladek vittima e testimone dell’Olocausto, dall’altro Art vittima indiretta dop- piamente impotente, perché non testimone, dell’Olocausto. Nonché vittima delle vittime. Art sottolinea più volte come la sua infanzia sia stata segnata dall’ansia e l’euforia della sopravvivenza che caratterizzano la vita di Vladek. D’altro canto descrive anche se stesso come vittima della madre che, suicidandosi, ha rafforzato in lui dei sensi di colpa sempre presenti. Il sottotitolo Racconto di un sopravvissuto,
spago e una scarpa della mia misura!” (p. 29). Ne racconta la breve terribile feli- cità provata quando Vladek era riuscito a procurargli una cintura e due scarpe della misura giusta: “Mio Dio. Mio Dio. Mio Dio… È un miracolo, Vladek. Dio mi ha mandato scarpe tramite te” (p. 34). Ma dopo il “pieno” di questi racconti è tanto più forte sul lettore l’impatto emotivo del vuoto che trova al posto del rac- conto della sparizione di Mandelbaum. Un giorno era stato scelto per i lavori for- zati e da quel momento Vladek non l’ha più visto. Sa che Mandelbaum è morto, ma non si saprà mai come. Vladek descrive delle ipotesi, basate sulle abitudini delle SSad Auschwitz. Ma la domanda di Art “cos’è successo a Mandelbaum?” rie-
cheggia nel vuoto lasciato da tutte le storie irrecuperabili, che rinforzano nel let- tore la consapevolezza del valore di ogni dettaglio conosciuto contro l’espandersi del silenzio.
Un silenzio che merita attenzione particolare è quello di Art Spiegelman. Il letto- re si abitua presto alle sue interruzioni per chiedere chiarimenti o esprimere la pro- pria consapevolezza su argomenti che vengono affrontati, ma ci sono momenti in cui risalta fortemente il suo silenzio. Come il silenzio (auto)ironico a conclusione del capitolo Auschwitz – Time Flies, in cui Vladek ha descritto le camere a gas e i forni crematori, troviamo Art e la moglie sulla veranda. Si lamentano degli insetti che li stanno disturbando e Art semplicemente spruzza loro contro dell’insetticida. Nell’ultima tavola del capitolo vediamo in secondo piano le figure tagliate di Art e Françoise – sono visibili solo le gambe – e al centro dell’immagine un insetto che cade, colpito dallo spruzzo di insetticida.
Art resta in silenzio anche quando Vladek menziona il suo passaggio a Würzburg a guerra conclusa. Vediamo tra le rovine una famiglia di tedeschi dispe- rati. La didascalia – la voce di Vladek – dice: “Partimmo felici. / Che tedeschi abbiano un po’ di quel che hanno fatto a ebrei” (p. 130). Spiegelman non può commentare.
Questi e altri silenzi sono riconducibili al desiderio di Spiegelman di non interfe- rire, per quanto possibile, con il “materiale”. Tale desiderio è anche alla base della scelta di raffigurare gli ebrei come topi, scelta a cui fa riferimento in più occasioni il personaggio Art3. Il rappresentare gli ebrei con volti di topo relativamente inespres- sivi4quasi uguali tra loro è stata spesso interpretata come una strategia tesa a creare distanza. Nelle intenzioni di Spiegelman invece dovrebbe produrre un effetto in certo senso opposto. I volti di topo simili a maschere sono il distillato di anni di spe- rimentazione attenta tesa a evitare tecniche di rappresentazione che dicano al lettore come sentirsi5. Spiegelman vuole usare i topi come cifre poco cariche di significato che permettano al lettore di passare oltre il segno, di arrivare in modo più diretto all’esperienza rappresentata. Si può dire che questo sia un principio che vale per tutto il testo Maus. Art costruisce una collaborazione con il lettore nella propria lotta con l’irrappresentabile.
Dietro tutti gli altri silenzi in Maus risuona fortissimo quello di Anja Spiegelman, la madre di Art. Tra i vari sottotesti menzionati risalta un breve “comic within the comic”, posto poco oltre la metà del primo volume. Si intitola Prigioniero sul piane- ta Inferno – Un caso clinico, e presenta il silenzio di Anja come il silenzio motivante per la spinta a narrare di Art. Nella prima tavola è raffigurato quest’ultimo, con volto umano, stavolta, espressione sofferente, in divisa da detenuto o forse da prigioniero MACCHIE SUL SILENZIO. AUSCHWITZ NEL GRAPHIC NOVEL DI ART SPIEGELMAN
allena alla cyclette. Dopo aver narrato avvenimenti della persecuzione degli ebrei tra il 1940 e il 1942 si accascia, completamente esausto. Il lettore percepisce come causa dello sfinimento non solo lo sforzo fisico, ma anche il dolore di Vladek per aver appena rivissuto la “selezione” della Gestapo nella quale sono stati deportati la sorella e il padre. Più avanti, nel secondo volume, si fa ancora più esplicito il signi- ficato di sacrificio emotivo e fisico del raccontare. Alla conclusione del penultimo capitolo Vladek ha mostrato ad Art le poche fotografie dei familiari scomparsi sopravvissute alla guerra, ma mentre sta per raccoglierle per donarle ad Art è sul punto di avere una crisi cardiaca ed è costretto a distendersi. Art si scusa col padre per averlo fatto parlare troppo. L’effetto di questa scena è ancora vivo nel lettore alla conclusione di Maus, dove le ultime parole pronunciate da un personaggio sono quelle di Vladek che dichiara il proprio sfinimento per aver raccontato “abbastanza storie” (p. 136).
Il mezzo espressivo con cui lavora Art comporta problemi specifici. Sia Spiegelman che Art il personaggio sono consapevoli del fatto che non ci sia scampo dall’approssimazione. “È inevitabile che io faccia qualcosa di inautentico” (in Witek 1989, p. 102), spiega Spiegelman in un’intervista. Tutte le volte che è possibile si documenta accuratamente per la raffigurazione grafica degli ambienti, includendo mappe e cartine geografiche che, come le fotografie inserite a volte nel testo, se da un lato rompono la continuità delle immagini, dall’altro restituiscono però un qua- dro più “autentico” possibile (cfr. Brown 1988). Ma, soprattutto, questi sottotesti svolgono un’altra funzione cruciale: comunicano il senso di emergenza, dell’urgenza del tentativo di conoscere. Questi sottotesti dicono al lettore: il racconto lineare di Vladek è un’approssimazione, una finzione. Dobbiamo impiegare tutti i mezzi disponibili nel tentativo di restituire da angolazioni diverse l’esperienza, nella spe- ranza di contrastarne almeno in parte l’elusività e incomprensibilità.
Ma a volte documentarsi non è possibile. O non è sufficiente. È il caso dell’offi- cina di lattoniere ad Auschwitz in cui Vladek aveva lavorato per un periodo. Art rac- conta le sue difficoltà nel visualizzare l’ambiente per poter disegnare gli sfondi, e finisce con l’utilizzare la descrizione generica fattagli dal suo psicanalista Pavel, che da bambino aveva lavorato in un’officina simile (Spiegelman 1986, p. 46).
I vuoti e il silenzio si insinuano ovunque. Perfino su ciò che è documentato viene negata la certezza. Nel momento in cui Vladek sta raccontando del suo arrivo ad Auschwitz, Art gli chiede notizie della famosa orchestra che accoglieva all’entrata. Vladek dice di non aver mai visto alcuna orchestra. Art obietta che si tratta di un fatto ben documentato (p. 54), ma Vladek ribadisce che secondo lui non c’è mai stata un’orchestra, e il lettore partecipa dello sbigottimento di Art nello scontrarsi di nuovo con il silenzio, nel prendere atto del fatto che non si saprà mai.
Come non si saprà mai come sia morto Mandelbaum, vecchia conoscenza di Vladek prima della guerra, con cui ad Auschwitz instaura un forte legame di soli- darietà, e il cui caso viene rappresentato da Spiegelman come un exemplum. Mandelbaum è la vittima di Auschwitz non sopravvissuta: non reattiva, astuta e fortunata come invece lo è stato Vladek. Questi racconta la disperazione di Mandelbaum per l’aver ricevuto al suo arrivo ad Auschwitz pantaloni troppo lar- ghi e scarpe di due misure diverse per la sua uniforme di prigioniero, e ne riporta la preghiera struggente: “Mio Dio. Dio, ti prego… Aiutami a trovare un pezzo di
1Cfr. il discorso di Neher 1970 sui silenzi che circondano le vittime di Auschwitz.
2Françoise: “Tutto quello che ha passato Vladek. È un miracolo che sia sopravvissuto”. Art: “Già… Ma in un
certo senso non è sopravvissuto” (p. 90).
3Sono frequenti in Maus gli accenni autoreferenziali all’uso delle “maschere” da topo. Ne è un esempio la
discussione tra Art e Françoise su quale animale Art debba scegliere per raffigurare quest’ultima, visto che è fran- cese, convertita alla religione ebraica (cfr. Spiegelman 1991, pp. 11-12). Si vedano anche gli accenni tongue-in- cheek a proposito del quadretto con il gatto e dei cani e gatti randagi che frequentano la casa dello psicanalista
Pavel (p. 43).
4È molto ampia la gamma di espressioni che Spiegelman riesce a creare con l’uso dei trattini che fanno da
sopracciglia e pochi altri mezzi.
5Sulle varie soluzioni immaginate da Spiegelman per il problema dello stile grafico da utilizzare per Maus cfr.
per esempio Witek 1989, pp. 102-104; Bolhafner 1991, p. 98.
MACCHIE SUL SILENZIO. AUSCHWITZ NEL GRAPHIC NOVEL DI ART SPIEGELMAN
di campo di concentramento. Ci informa: “Nel 1968, io avevo 20 anni, mia madre si uccise. Non lasciò nessun messaggio” (p. 100).
Questo breve fumetto è disegnato con una tecnica volutamente espressionistica che contrasta fortemente con il resto di Maus. Qui Spiegelman comunica molto esplicitamente cosa deve sentire il lettore: la disperazione di Art per il suicidio della madre, e per questo suo non aver lasciato un messaggio.
Poco prima è iniziata (p. 93) la ricerca di Art dei diari di Anja. In più punti Vladek aveva menzionato l’esistenza di questi diari, e Art insiste perché il padre cer- chi di recuperarli, ma questi lascia la questione in sospeso, e la speranza di Art di ritrovare la voce della madre rimane per un po’ presente tra le tavole. Solo alla con- clusione del primo volume Vladek ammette che in un momento di depressione aveva bruciato i diari.
Art, ancora incredulo ma già sconvolto dalla frustrazione, chiede a Vladek se prima di bruciarli non li abbia almeno letti. “No, io ho guardato ma non ricordo… Solo io so che lei diceva: ‘Spero che mio figlio, quando è grande sarà interessato a queste cose’” (p. 159). Il conflitto padre-figlio rimasto latente fin qui culmina così in