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tegica e letteratura spionistica 1 Paolo Fabbri, Federico Montanar

Studiare i sistemi di significazione, di produzione del senso, attraverso il metodo della semiotica vuole dire articolare, smontare processi di costruzione e di espres- sione del senso, all’interno dei diversi sistemi sociali e culturali (dalla politica, ai media, fino all’arte e alla letteratura). E non occuparsi solo di comunicazione nel senso abituale che viene attribuito a questo concetto – vale a dire dei modi di scam- bio e trasmissione di messaggi e contenuti – anche se evidentemente tale ambito della comunicazione non può non assumere una certa preminenza. La semiotica cerca invece di considerare anche la comunicazione come un insieme processo di senso: una pratica culturale che consiste nella circolazione di modelli e di pratiche semiotiche, che va analizzata nelle sue diverse componenti e nello statuto dei suoi diversi partecipanti.

È in questa direzione, allora, che la semiotica si interessa di problemi concernen- ti la strategia e le forme della guerra. Essa cerca di mostrare quali condizioni – costruzioni, categorie implicite, modi di vedere, di pensare o sistemi di attese – si attivino nel corso di una interazione, di una relazione con l’“altro”: sia esso avversa- rio, nemico, partner.

Ma allora che cosa può dire e cosa ha detto la semiotica a proposito di conflitto e di “interazioni bellicose”? Prima di rispondere a questa domanda è necessario chiarirsi sulla definizione di testo. Per testo, come è noto, la semiotica, da tempo (e con essa tante altre discipline appartenenti al dominio delle scienze umane) non intende più soltanto testi letterari, scritti o verbali, ma, potremmo dire, porzioni di sistemi di significato situati all’interno di una data cultura. Forme di testualità diffu- sa che non si contrappongono affatto alle pratiche (modalità di agire e di produzio- ne) all’interno di un ambito culturale sociale. Un testo può essere un dipinto, un testo letterario, così come un dato comportamento o stile di vita sociale; e, dunque, anche un certo modo di vedere, o fare, la guerra, in un dato periodo storico-cultu- rale (cfr. Lotman 1984; 1985)2.

Tuttavia, un modo di vedere, di rappresentare la guerra, da parte di una data cul- tura (cone le sue forme testuali e letterarie) può produrre degli effetti all’interno di questa stessa cultura: divenire efficace addirittura sul piano strategico, fino a retroa- gire sulla stessa condotta di un esercito o di un conflitto. E di questo una semiotica della cultura – e della cultura strategica – deve saper rendere conto. A tale proposi- to, è un semiotico delle tradizioni culturali come Jurij Lotman a sottolineare, ad esempio, l’importanza di una “iper-estetizzazione” e teatralizzazione della guerra durante l’epoca napoleonica e in particolare nella Russia di Alessandro I3.

incerti gli stessi limiti di territorio da essi occupato; facendosi ubiquitari e mobili, provocando negli ufficiali nemici un senso di smarrimento, di “incoerenza” per l’in- capacità di capire la loro logica, la logica dell’altro.

Ed è in un senso assai simile, anche François Jullien afferma la radicale alterità di un altro pensiero, di un’altra cultura strategica e di guerra: quella cinese (cfr. Jullien 1996). Pensiero in cui prevale l’idea di divenire come fluire continuo di trasforma- zioni e di adattamenti elastici alla condotta del nemico: in questo caso la guerra si vince proprio non entrando in battaglia, logorando l’avversario “lasciando che le cose accadano” (cfr. anche Fabbri 1999), dunque mettendo in campo un tipo parti- colare di soggetto agente, assai diverso da quello pieno, “attivo” e razionale della strategia occidentale.

D’altra parte, ciò che è avvenuto, questa volta nella cultura occidentale, più in generale, soprattutto negli anni successivi all’avvio della guerra fredda, è stata una trasformazione dell’idea di strategia, la quale, partendo dall’ambito specifico degli studi concernenti la guerra, si è via via allargata, assumendo il carattere di modello ampio; e che curiosamente sembra assomigliare ai modelli “orientali” di guerra sopra citati.

Se le cause di questo ampliamento del concetto di strategia sono da imputare alla percezione delle trasformazioni storico-politiche – la guerra è diventata via via guerra globale e “totale”, tale da investire oramai tutte le strutture di una società, e sempre di più si è dilatata temporalmente e spazialmente, uscendo dai campi di battaglia tradi- zionali – ecco che, allora, il frutto di un tale cambiamento di percezione consiste in una trasformazione di pensiero e, potremmo dire, di punto di vista. Come afferma il gene- rale Poirier, a partire dall’eredità culturale dei secoli passati, la strategia – intesa “come pensiero dell’agire e sull’azione” – non esisteva che a partire da, e nella guerra (cfr. Poirier 1997, pp. 32-33); ora, via via la funzione strategica si estende sempre di più: dapprima alle operazioni preparatorie alla guerra – organizzare e mobilitare le forze, saper prendere in considerazione le innovazioni tecniche –; successivamente, una tale concezione, per quanto ancora limitata, si protende al di là della guerra stessa. E ciò, soprattutto a partire dall’avvento della guerra fredda (cfr. ad es. Schelling 1963).

In cosa è consistito tale cambiamento veramente culturale? E inoltre, in che modo esso ha prolungato le sue conseguenze sino ai giorni nostri e agli anni succes- sivi alla fine della guerra fredda con la guerra “al terrore”, quella “globale perma- nente” e “dell’enduring freedom”? E infine e soprattutto come si lega tale trasfor- mazione strategico-culturale con i modelli letterari?

Il concetto di strategia si è sviluppato sia in estensione che in profondità perché ha dovuto occuparsi non più della guerra ma della sua virtualità. Le armi nucleari ampliano sempre di più la possibilità di utilizzare non già il ricorso alla forza, ridot- to nella sua praticabilità, ma la minaccia. Ecco allora aprirsi quel nuovo scenario che gli studiosi di conflitto, dallo stesso Poirier ad Alain Joxe, definiscono proprio come “guerra semiotica”, arrivando sino al concetto di “gesticolazione strategica” (Joxe 1983, p. 24). La differenza consiste in questo: la guerra e il conflitto vengono ora considerate anche come un campo di possibilità per mostrare all’altro le proprie volontà, le proprie intenzioni o, al contrario, di dissimulare queste volontà e queste intenzioni; o, ancora, simulando certe intenzioni e azioni, per spingere l’altro a com- portarsi di conseguenza.

LE FORME NUOVE DEL WARFARE E LA CIRCOLAZIONE DI MODELLI 

Dunque, ecco un caso in cui la guerra o l’esercito, vengono “rappresentati” e quindi percepiti in un certo modo all’interno di una data società, con una serie di effetti di senso che si riverberano dai testi letterari all’interno di quella stessa cultu- ra e sulle sue pratiche, in particolare grazie a veri e propri “testi” sociali e rituali, quali possono essere il modo di marciare, le parate o il cambio della guardia a corte. A proposito di questa concezione di testo come vera e propria “tessitura” del significato dei fenomeni sociali all’interno di una data cultura, è anche vero che effet- tivamente, oggi, l’antropologia e le altre scienze sociali condividono con la semiotica l’interesse per una tale concezione. Un antropologo come Geertz (cfr. 1983)4sottoli- nea, proprio a proposito dell’atteggiamento verso la guerra depositato nella nostra cultura, in particolare in riferimento alla mentalità e alla memoria collettiva della grande guerra, l’idea secondo la quale i fenomeni culturali possono essere colti solo “in traduzione”: vale a dire attraverso la comparazione che lo studioso compie fra diversi fenomeni; dunque, anche fra i diversi “testi”, intesi come modi di apparire di quel dato evento attraverso descrizioni, visioni, resoconti. Ed è esattamente qui che si innesta il problema specifico del rapporto fra modelli semiotici, letteratura e strate- gia. La letteratura fornisce esempi di modelli strategici “potenziali” e di modi, non tanto o non solo di “rappresentare” la guerra, ma di “pensare e immaginare”, conce- pire la guerra stessa: come modi del cogliere, intercettare i “segni di guerra” – e al tempo stesso produrli e disseminarli in una data opera – in un dato periodo (pensia- mo ai casi sopra citati con Fussell, di Pynchon, di Lawrence; o di Lotman, con la let- teratura russa e Tolstoj; per arrivare sino al Proust studiato da Gilles Deleuze).

Ma veniamo al problema specifico del rapporto strategia-letteratura e spionaggio. Innanzi tutto sottolineando ancora una volta come esso consista in una questione squisitamente culturale e culturologico-semiotica. Ovviamente non è pensabile ana- lizzare un dato pensiero di tipo strategico, o una data condotta strategica di azione senza tener conto della cultura che l’ha prodotta. Tuttavia, come dicevamo sopra, per l’approccio semiotico non si tratta di dare per scontato il contesto o l’ambito socio-culturale, pensando che da quest’ultimo si possa far derivare una data conce- zione di azione o di strategia. Semmai si tratta, al contrario, di analizzare una con- dotta o concezione strategica per ricavarne la cultura o una “visione del mondo” soggiacenti.

A questo proposito forniamo un altro esempio. Studiare un modello di raziona- lità strategica – magari a partire da Lawrence d’Arabia – significa parlare di “cultu- ra strategica” o di un’antropologia della strategia con lo scopo “di rendere conto delle differenti forme che la guerra adotta a partire dalla tradizione storica e cultu- rale degli attori implicati” (Alonso Aldama 2003). Nello specifico, nel caso della guerriglia o “rivolta araba” di Lawrence, si tratta di una forma e di un modello stra- tegico assai diverso da quello ordinario, e in cui prevale un’idea di “non-battaglia”, di “linea di fuga” nel deserto, di condotta “flou” o “acentrata” dello scontro (con- cetti fra l’altro ripresi e sviluppati da teorici della strategia come Brossolet, Poirier [1997] o Joxe, o da filosofi come Deleuze e Guattari [cfr. 1980])5e in cui l’avversa- rio è paralizzato dalla sua stessa adesione a modelli “razionali”, tipici della tradizio- ne di guerra occidentale.

Gli arabi, per Lawrence, ignorano le lezioni della grande politica e della grande guerra: si trasformano in una sorta di “nuvola” che si muove nel deserto, rendendo

“capacità di conoscere” ma, appunto, concernente il dispiegarsi del senso, dei pro- cessi di significato in una data situazione: dimensione propriamente e pienamente semiotica.

Ma perché una dimensione strettamente psicologica non è sufficiente a definire il campo dell’interazione conflittuale e occorre proprio una semiotica? In primo luogo perché, in situazioni di conflitto, non ci si trova di fronte soltanto a soggetti singoli, individuali o ad attori isolati, dotati di loro istanze o motivazioni, ma a “inter- attori”: soggetti che si costituiscono proprio in quanto sono gli uni in contatto con gli altri, gli uni di fronte al proprio avversario: legati a esso nelle varie forme del con- fronto. Un esempio classico di analisi semiotica è dato, a questo proposito, da “la sfida”, figura semiotica analizzata da Algirdas J. Greimas in un suo articolo (1983). Questa figura, così come il duello – che, sulla scia di Clausewitz, viene considerato, da un punto di vista prasseologico, conflitto fra “stesso” e “altro”, come la “cellula” di base di qualunque relazione fra attori socio-politici e, dunque, alla base di tutte le condotte strategiche (cfr. Poirier 1997, pp. 59-61) –, è una figura che si costruisce attorno a una struttura detta, in semiotica, “attante duale”: struttura di senso che implica il riconoscimento dell’altro in quanto sfidante, e la partecipazione di entram- bi alla disputa.

Scrive a questo riguardo Greimas: “il buon funzionamento della sfida implica una complicità oggettiva fra manipolatore e manipolato” (1983, p. 211)8. Per l’anali- si semiotica delle strategie, la struttura fondante consiste in una configurazione di tipo polemico-conflittuale che starebbe alla base della comunicazione e dell’azione stessa. I soggetti si trovano a lottare per congiungersi con tali valori, a scontrarsi e incontrarsi con altri soggetti che lottano per essi, alle volte contrapponendo invece altri sistemi valoriali. Quindi, un soggetto, in queste “trame narrative” di azioni, si trova sempre di fronte a un “anti-soggetto”, un “ostante” (sia esso incarnato in un nemico, in un’idea, o in una tentazione a cui resistere) e che va anch’esso a compor- si in programmi narrativi.

Dunque, per una semiotica della strategia, non si tratta soltanto di tener conto della storia e della cultura degli armamenti (Poirier), della loro dinamica e influen- za, ma di comprendere la costruzione di quei veri e propri attori ibridi che sono i “partecipanti” a un conflitto. Attori ibridi, in quanto composti di “armi e uomini”. In questo senso, come si è visto riguardo alla sfida, o al duello, possiamo parlare di attante duale (tipo di attante collettivo), in quanto tale partizione (operata sulla base di criteri comuni fra gli attori, come il loro “campo funzionale” o le loro “qua- lificazioni specifiche”)9è condivisa dai due partecipanti a questa azione.

Il confronto fra semiotica e strategia

La semiotica contemporanea possiede un doppio codice genetico. Oltre alle sue ascendenze strutturaliste-continentali, vi è una tradizione filosofica di tipo soprat- tutto americano, in particolare derivante dal pragmatismo di Charles S. Peirce. Tale filone di studi (di cui Eco è stato il principale fautore) si concentra, in particolare, su di una concezione del senso e della produzione del significato di tipo interpreta- tivo-inferenziale: il senso, il significato, si costituirebbe a partire dalle inferenze e LE FORME NUOVE DEL WARFARE E LA CIRCOLAZIONE DI MODELLI 

Dunque, lo spazio di interazione e di comunicazione con l’altro diviene un vero e proprio campo di manovra. Ecco che si tratta d’ora in avanti di guerra per segni. Ed è per questo che, a detta degli stessi esperti militari, possiamo parlare di vera e propria semiotica di guerra: semio-guerra.

Una virtualizzazione della guerra ne trasforma le dimensioni e lo stesso senso: ora, la guerra, intesa in senso specifico, diventa solo uno dei possibili modi della vio- lenza armata (cfr. p. 38). E pure lo stesso ricorso alla forza diviene ora soltanto una delle possibili opzioni, all’interno di un campo di manovre strategico che compren- de anche “armi semiotiche” come quelle della minaccia, della dissuasione, della manipolazione, della sanzione. Tale dilatazione dell’idea di strategia avviene dunque non solo in estensione, ma anche in profondità: trasforma la natura stessa del con- cetto, oltre che la forma del conflitto.

Infatti, se proviamo a definire meglio queste armi semiotiche, vediamo che esse concernono soprattutto il campo, non dell’agire in senso stretto, ma della trasfor- mazione e deviazione di questo agire: dallo “spingere a fare o a non fare” (manipo- lazione) all’“impedire di fare” (dissuasione), all’“obbligare a fare” (costrizione), alla seduzione (intesa come un “mostrare di essere in un certo modo, affinché l’altro fac- cia qualcosa”), e così via.

Si potrebbe replicare che tale dimensione, all’interno delle strategie e delle con- dotte belliche, è sempre esistita, un po’ come oggi si discute tanto della novità nel- l’uso, all’interno dei conflitti, dell’arma della comunicazione. È chiaro che non si tratta di novità “in sé”: l’innovazione consiste precisamente nel modo di pianificare l’uso di tali “armi”; dunque, si tratta, piuttosto, del cambiamento dei modi, o punti di vista, della stessa pianificazione strategica, e quindi di una logistica: si potrà par- lare allora di una vera e propria logistica dei segni e della comunicazione.

D’altra parte, è anche vero che oggi, dopo la fine del ciclo della guerra fredda, l’uso delle armi, come sottolineano gli studiosi di strategia, è ridiventato chiaramen- te possibile e praticabile (cfr. Jean 1996). Ma ciò ha forse portato a un superamento della fase “virtuale” e “gesticolatoria” della guerra? Nient’affatto. Anzi, constatiamo come l’uso sempre più frequente di armi “reali” – anche all’interno di spazi geopo- litici come l’Europa per lungo tempo considerati pacificati, o meglio “congelati”, dal sistema bipolare USA-URSS– venga sempre più pianificato in accoppiamento strate-

gico-tattico con le armi “virtuali” o semiotiche (sia “classiche” come la minaccia, la promessa, la sfida e la contro-sfida; sia attraverso l’uso, parrebbe, di logiche di tipo “arcaico”, come quelle della vendetta6; in più, accompagnate dall’utilizzo massiccio delle armi tecnologiche dell’informazione e della comunicazione)7.

“Espressione” e “contenuto” dei “racconti” strategici

Si sta dunque parlando dell’introduzione, nel campo dei conflitti, di una dimen- sione nuova, in quanto osservabile come autonoma nel dispiegarsi tecnologico; ma da sempre presente nei campi di battaglia. Dimensione che diviene essa stessa campo di manovre strategico-tattiche e che, in prima approssimazione, potremmo definire “cognitiva”. D’altra parte, è importante sottolineare come tale dimensione cognitiva venga intesa qui non in quanto dimensione meramente psicologica e di una

zioni, sono soggetti “pieni”: queste funzioni si riempiono, si arricchiscono via via di un volere, dovere, potere, sapere, credere e far credere. Istanze modali suscettibili, naturalmente, di costituirsi nelle diverse combinazioni. Lo scambio polemico non avviene più allora fra attori “compatti” e monolitici; ma fra diversi livelli, o “strati” di queste soggettività composite.

Ecco allora che arriviamo all’importanza dei modelli spionistici.

Un soggetto qualunque – sia a livello “micro”, come un soggetto singolo, che a livello “macro”, come nel caso di un soggetto collettivo, ad esempio uno Stato, o, ancora, di un personaggio pubblico o politico – può esprimere, nel corso di un nego- ziato o di un conflitto, un “volere” qualcosa, ma, al contempo, “credere” che l’“altro” (il nemico, l’avversario, l’alleato) “voglia” qualcos’altro; o ancora, che “sap- pia”, “creda” o meno qualcos’altro.

In questa direzione l’intelligenza dei segni sta nel modo di osservarsi reciproco all’interno dei processi discorsivi. Chi enuncia non solo emette segni e significati, ma, nello scambio comunicativo, tenta di zoomare sulle immagini e sulle tracce del- l’altro; in un continuo gioco e scambio tattico-strategico.

La guerra è al tempo stesso forma “di vita” alternativa a quella quotidiana ma anche potenzialmente presente nei momenti e nei luoghi dell’interazione comunica- tiva. In questo senso il terrorismo diventa davvero cosmopolita, nel suo manifestar- si (come del resto la mafia) nella sua rete al tempo stesso globale e inserito nei con- testi. Ed è su questi terreni che tentano di inseguirlo. Di qui anche l’idea grandiosa portata avanti da studiosi di interazione sociale come Goffman; studiare l’ordine sociale è studiare il suo contrario o studiarlo per contrasto; l’ordine è una maschera che viene usata da chi lo attraversa e lo infrange (criminali, ma anche spie evidente- mente). Vi è qui tutta una semiotica del non detto delle spie e dei rivelatori di senso; e in questa direzione, ancora una volta i “segni rivelatori” non sono elementi isolati ma strategie reciproche. Ed è per questo motivo che va studiato il regime del segre- to e della allusione come nucleo centrale della competenza e delle pratiche comuni- cative, spesso anche quelle della vita quotidiana.

Dunque, a fronte dello status tipico delle ultime guerre (guerre condotte in forma “narrativa”, nel senso dell’apparente organizzazione e lucida e trasparente pianifica- zione comunicativa, e di dichiarate definizioni di scopi come “Enduring freedom” oWar on terror”) ecco che la pratica sporca della comunicazione spionistica torna come altro lato del campo di battaglia. Le spie sono veri e propri analisti dell’altro; controllano e osservano i punti di passaggio fra modelli culturali; sono infiltrati non solo in campo nemico ma anche nelle culture altre, non proprie. Gli agenti segreti, come è noto, devono sapersi perfettamente calare non solo nel ruolo ma negli ambienti culturali dell’avversario, sin nei più minimi dettagli. Ma questo è niente ed è quasi scontato; si tratta di un sapere che deve essere come “incarnato” per diveni- re efficace. Non solo non farsi sorprendere dall’altro ma saper praticare una dop- piezza culturale; esser altro da sé; fino al conformismo.

Un esempio classico da The perfect Spy di John Le Carrè, è proprio questo: la spia deve assumere i tratti del conformista sottomesso. L’identità clandestina deve essere banale e “naturalizzata” (ad esempio, assumere un nome simile al proprio: è il mime- tismo, alla lettera, a essere il tratto rilevante della spia, dell’infiltrato). In questo senso, ancora una volta, è interessante sottolineare l’importanza dei modelli narrati- LE FORME NUOVE DEL WARFARE E LA CIRCOLAZIONE DI MODELLI 

ipotesi che un interprete compie, grazie alla propria competenza culturale, a partire da fenomeni, oppure testi, da “leggere”, da interpretare, appunto, sulla base di un principio di tipo cooperativo10. Questo interprete compie una serie di “mosse” a partire dalle istruzioni che inferisce dal testo stesso. Ecco un altro punto di contatto