1. Mano a mano che il tempo passa e si è ormai celebrato anche il quinto anni- versario di 9/11, la contro-narrazione – anzi, il “racconto-contro” – di Art Spiegelman concretizzatosi nell’oggetto-libro In the Shadow of No Towers (2004) – inspiegabilmente proposto da noi come L’ombra delle torri, traduzione che tradisce decisamente il senso di un originale quantomeno velato – si rivela sempre più pre- gnante ed efficace. Soprattutto in relazione alla messe ipertrofica, pervasiva, financo compulsiva di frammenti di immaginario e di intrecci di discorso intorno all’evento epocale in assoluto più mediatizzato, rimbalzato come è, ossessivamente, nelle paro- le della gente e nelle immagini televisive.
Più passa il tempo e più l’avvenimento viene triturato, derealizzato, così che ci allontaniamo da esso e dalla sua realtà, dato che pare restare sul terreno solo quella retorica che lo ha quasi trasformato, come si è scritto, in “una litania, uno iato, un’in- vocazione taumaturgica o blasfema” (Canova 2006, p. 7). L’aggiunta di sempre nuovi tasselli – libri, film, testimonianze, canzoni e quant’altro, un tutto che si eleva di rado da un deludente orizzonte di mediocrità tra il trito, il sensazionalistico-a-tutti-i-costi, il personale-a-rischio-narcisismo – fa aumentare il sospetto del parassitismo del mer- cato (prima ancora che del mondo dei media) e non sembra farci uscire dai binari dell’accumulazione “originaria” per avvicinarci a qualche brandello di verità in più1. Eppure, l’“attrazione del fuoricampo”, come l’ha definita Gianni Canova, quella funziona: “il desiderio di vedere le zone oscure della tragedia, quel non visibile che aleggia e serpeggia dentro e oltre la pletora di immagini e visioni con cui l’11 settem- bre si è consegnato alla nostra memoria mediatica e al nostro ricordo personale” (ib.). Le immagini televisive degli aerei – che, leggeri, si incuneano nelle torri trovan- do all’improvviso il peso della gravità, ovvero imponendo la gravità del loro peso –, delle fiamme, dei voli umani, degli schianti e dell’immane nuvola di polvere, repli- cate all’infinito da una sorta di eterno replay, paiono aver assorbito tutto 9/11, facen- dolo quasi implodere. Così che galleggia in una specie di vuoto pneumatico del nostro vedere e della nostra percezione: la documentazione visiva mostra solo quel- lo, non c’è verso, e nemmeno la fedele replica on line della giornata fatale da parte della CNNpuò offrire di più… il senno di poi non serve a catturare la ratio, dato che
è quanto accade – è accaduto – fuori scena o, meglio, fuoricampo – “con tutta la sua opacità, con tutto il suo enigmatico silenzio, a dominare ciò che invece sta in campo, ciò che si mostra e si offre allo sguardo dello spettatore” (ib.).
Se è vero che il fuoricampo non ha immagine, probabilmente lo si può, anzi lo si deve, interrogare, o forse provocare e stanare, soprattutto là dove l’indicibile, l’im- pensabile, il mostruoso – da noi prodotti – paiono annidarsi.
co che, di fatto, vanifica la raccolta di dati attendibili circa l’idea di un “inconscio al lavoro”. È un fenomeno che spesso associamo alla commodification, al mercato, alle politiche del profitto, ma talvolta – la cosa è davvero paradossale – sottovalutiamo le conseguenze di un’arte che si dichiara, o si spaccia per, appunto, “inconscio al lavo- ro”, denegando la propria verità in quel senso.
Al contrario, proprio una cultura o, ancora meglio, un’arte (“vera”) che muove dalla necessità, dall’urgenza e che sposta alla sfera estetica l’“etica (artistica)” è ciò che, mi pare, muove Spiegelman e che l’ha sempre mosso, sin dal lavoro editoriale con «Raw Magazine», fino a Maus. Ed è curioso che «McSweeney», esperienza di punta nel panorama della scrittura americana contemporanea, nel numero curato dal fumettista Chris Ware, ripercorra e riproponga oggi, nel contenitore della rivista letteraria, percorsi, autori e sensibilità di quella testata («Raw»), oltretutto dedican- do il progetto antologico non a Spiegelman personalmente, ma a Spiegelman & (Françoise) Mouly, moglie di Art, condirettrice di «Raw», colei che ne aveva condi- viso il lavoro editoriale e distributivo (cfr. Ware, a cura, 2004).
Insomma, è proprio alla scelta di campo della propria arte, della cultura del fumetto (qui rigorosamente americano – whatever it means, naturalmente, dato che alcuni tra gli autori più classici amati e citati da Spiegelman sono immigrati dalla Vecchia Europa), dunque della forma artistica, e non alla selezione e all’esa- sperazione dei contenuti o del mood, che Spiegelman si appella per articolare la propria invettiva e la propria personale discesa agli inferi di 9/11 e dei mesi che sarebbero seguiti.
Allora è proprio la circonlocuzione intorno all’11 settembre, il girare intorno a un evidente vuoto, che risulta al centro del libro; non importa tanto l’evento in sé, quanto interessano le conseguenze “intorno”. E questo nonostante il fil rouge tematico, l’immagine che (com)muove – che letteralmente trascina l’occhio del let- tore su e giù per la pagina o ne orienta almeno qualche tragitto di lettura – resti l’icona sensibile dell’evento nelle tavole di Spiegelman, modulata in chiave anti- realistica: scheletri incandescenti tratteggiati dal retino come in una nebbiolina di fumo e forse fiamme, significativamente mai ritratti nella loro interezza attraverso la memoria fotografica pre-crollo o pre-implosione, appropriatamente il segno del vuoto simbolico di cui si diceva.
3. Spiegelman apre “l’inserto a fumetti” con cui completa In the Shadow of No Towers – ennesima cornice metalinguistica, di metafumetto, fumetto nel fumetto… tutti aspetti che lo avevano fatto conoscere come un innovatore, all’epoca dei suoi esordi e, più tardi, con Maus – con un’autocitazione dal decimo “capitolo”, l’ultima tavola del suo lavoro. L’epigrafe recita: “Subito dopo l’11/09/01, aspettando che cadessero altre scarpe terroriste, molti si sono rifugiati nella poesia. Altri hanno cer- cato sollievo nei vecchi fumetti dei quotidiani”. Echeggiando le valutazioni del Robert Pinsky di “Enormity and the Human Voice” (cfr. 2002)2, Art continua:
In seguito all’11 settembre, i reading di poesia erano diventati frequenti quanto l’ululato delle sirene della polizia. I newyorkesi avevano bisogno della poesia per dare voce al loro dolore, della cultura per riaffermare la loro fede in una civiltà ferita. In quelle settimane IN THE SHADOW OF NO TOWERS: L’ARTE GRAFICA DI ART SPIEGELMAN
Come il cinema, la letteratura e la televisione, anche il fumetto ha cercato dun- que di fornire le immagini di quel fuoricampo, con risultati contrastanti. Il panora- ma dei contributi è amplissimo e non accenna a esaurirsi: si va dalla pletora di edi- torial cartoons agli instant comics sul 9/11, dalle raccolte come Heroes (Marvel 2001), 9-11: Emergency Relief (Alternative Comics), 9-11 Artists Respond Volume One o 9- 11 The World’s Finest Comic Book Writers & Artists Tell Stories to Remember Volume Two (entrambi DC Comics 2002) alle strisce (come l’impareggiabile This Modern World di Tom Tomorrow), dai numeri “speciali” di talune testate (come Spiderman o Captain America), alle miniserie come The Call of Duty (Marvel 2002), all’unicum costituito dal deludente The 9/11 Report. A Graphic Adaptation (2006), tanto atteso quanto appiattito sul documento ufficiale denominato Final Report of the National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States.
2. Su un tale sfondo il contributo di Art Spiegelman si è rivelato particolarmente efficace. C’è indubbiamente una quinta terapeutica su cui si proietta il lavoro, o meglio il lavorio, di Spiegelman, il suo attivismo, la sua capacità di mobilitazione, anche internazionale. È da questo che si evince l’atto di una presa di parola reattiva, spesso viscerale, magari ripescata dai recessi oscuri del subconscio, eppure nel senso di quel “testimoniare, nel tempo, l’evoluzione di un cuore spezzato” di cui qualcu- no ha detto.
Ma c’è anche un’altra quinta, non meno importante, costituita dalla sfida dell’ar- te che si fa carico del discorso politico, non solo della sfuriata etica o, peggio, dagli intenti moralizzatori. Viaggiamo ai limiti di quella versione dell’estasi per cui, ex sta- tici, usciamo fuori di noi per la rabbia e il dolore, come scrive Judith Butler in Violenza, lutto, politica (2003, p. 52), e, come scrive Bruce Bond (2002, p. 55),
la sfida di tutta l’arte impegnata politicamente consiste nel fatto che l’autorità dell’opera non sta semplicemente nella situazione, carica com’è del suo pathos bell’e pronto, ma nella qualità della spontanea partecipazione immaginativa alla situazione, ciò che ci invi- ta a riavvolgere il film fino ai recessi dell’inconscio, per far sì che un’autenticità piena di passione si congiunga con la libertà espressiva.
Insomma, lavoro e lavorio di Spiegelman in In the Shadow of No Towers si segna- lano proprio per autenticità, appassionata e passionale, e per libertà espressiva. Ma soprattutto per urgenza.
Joseph McElroy, critico del «Village Voice», parla del fumetto di Spiegelman come di una “democrazia dello shock” (2004), là dove le torri diventano il grande vuoto simbolico del nostro inconscio urbano entro cui implodono anche tutte le contraddizioni della guerra di Bush – oltre alla confusione di Art che, direttamente coinvolto sul piano personale, deve trascinarsi appeso al collo questo “dannato alba- tros” di coleridgiana memoria e sente il dovere di “continuare a raccontare e rirac- contare, compulsivamente, le calamità” (Spiegelman 2004).
Certo, l’inconscio collettivo rischia di essere falsificato dalla messa in cornice dello storytelling, forse stimolato – sia pure in tutta onestà – dallo shock, poi però incanalato e igienizzato nei modi e nelle retoriche di genere. Un atto programmati-
O come quando Happy Hooligan (da noi diventato Fortunello) viene dipinto come “un precursore della vittima chapliniana”, attivando le sinapsi e facendole flir- tare con l’idea del Chaplin antimilitarista, se non proprio pacifista.
O come quando il “vaudeville di stampo nichilista” – altrove nello stesso saggio associato all’aggettivo “terroristico” – dei protagonisti del fumetto americano delle origini viene messo in luce in quell’energia giovanile e anti-istituzionale che sarebbe stata ferocemente stigmatizzata dai sociologi reazionari degli anni Cinquanta e che ironicamente Spiegelman battezza “una trama anarchica”…
O come l’Ignatz della striscia Krazy Kat di George Herriman – una sorta di sem- piterna metafora aperta, uno straordinario “contenitore umano” capace di “conte- nere contemporaneamente TUTTEle storie” – che alla luce di 9/11 comincia ad asso-
migliare tremendamente a Osama Bin Laden.
O come tutte le torri che compaiono “antologizzate” nel supplemento spiegel- maniano, i grattacieli di New York di Little Nemo come la torre pendente di Pisa di Bringing Up Father, l’Arcibaldo e Petronilla di George MacManus. Oppure il “mondo alla rovescia” (tavola 7, datata 11 marzo-2 aprile 2003) ispirato direttamen-
te al Gustave Verbeck di Upside Downs of Little Lady Lovekins and Old Man
Muffaroo, fumetto poco noto, dalla vita piuttosto breve, eppure totalmente signifi- cativo per quello Year Zero – l’ennesima assonanza con Ground Zero –, l’anno zero di quel primo decennio di fumetti americani che Spiegelman (2004) vede come “il momento in cui tutto è ancora possibile e regna un senso di euforico disorienta- mento, tutte condizioni che, inevitabilmente, cederanno il passo alle costrizioni man mano che la forma andrà ad autodefinirsi”.
Ma oltre alla grazia – anzi, allo stato di grazia – di tutti questi personaggi, è tut- tavia la grandezza dell’arte dei loro autori a esplicitarsi: da George Luks destinato a diventare uno dei pittori della Ash Can School a Lionel Feininger divenuto un “cele- bre esponente del cubismo di seconda generazione, uno dei ragazzi della Bauhaus” (oltre che uno dei geni assoluti dei primi anni dell’animazione), anche se Spiegelman non avrebbe certo bisogno di essere così didattico in questi suoi passaggi nello spo- stare verso l’alto di rankings & ratings la statura artistica di geni assoluti – e tutto sommato riconosciuti – come Winsor McCay o George Herriman. Categorie criti- che come “Vulgar Modernism” e “Avant-Pop”, o agende culturali contrassegnate da marchi come “High & Low”, sono divenute palestra ormai abituale di dibattito, rilettura e storicizzazione culturale.
4. La copertina di In the Shadow of No Towers riprende il famoso bozzetto “tutto nero” concepito da Art per il «New Yorker». A questo proposito, credo valga la pena citare il suo autore per esteso, soppesando le parole che ricapitolano le tensio- ni emotive del momento e il percorso realizzativo del progetto:
Non essendo particolarmente attrezzato per essere d’aiuto nella ricerca di sopravvissuti, mi dedicai a cercare un’immagine che illustrasse la catastrofe. Nonostante quella che sen- tivo essere l’irrilevanza del compito, la cosa mi diede modo di neutralizzare il trauma e di concentrarmi su qualcosa. È stato doloroso riconciliarmi con il nuovo vuoto. Volevo vedere il vuoto, e volevo trovare l’immagine terribile, quella che ispira lo sgomento, di IN THE SHADOW OF NO TOWERS: L’ARTE GRAFICA DI ART SPIEGELMAN
credo di aver sentito leggere una dozzina di volte “1 settembre 1939” di W. H. Auden, ma la mia mente continuava a vagare. La musica non mi era di alcun conforto, anzi sem- brava troppo schifosamente deliziosa. Le vecchie strisce a fumetti, così vitali e modeste, stampate all’alba ottimista del XXsecolo e subito dimenticate, erano gli unici manufatti
culturali che riuscissero a superare le mie difese per riempirmi gli occhi e il cervello con immagini che non fossero quelle delle torri in fiamme. Il fatto che venissero realizzate con grande abilità e vigore, pur avendo una vita limitata al solo giorno di pubblicazione nel quotidiano, attribuiva loro una grande intensità. Erano proprio quello che ci voleva in un momento da fine del mondo (Spiegelman 2004).
Nella testata della sua tavola 8 – segnalata come “A. S. out of A. S.!”, chissà, forse concepita e disegnata in una sorta di lunghissima trance tra il 29 aprile e il 27 mag- gio del 2003 – si legge:
L’esplosione che ha disintegrato le torri di Lower Manhattan ha riesumato i fantasmi di alcune star degli inserti domenicali nati lì vicino, a Park Row, quasi un secolo prima. Sono tornati per tormentare un abitante del quartiere confuso da quant’era successo fino ad allora (ib.).
Spiegelman mette bene in prospettiva le cose: a due isolati di distanza da Ground Zero, un centinaio di anni prima, Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst ave- vano fatto da balie al fumetto quale by-product della loro sfida: il «New York World» contro il «New York Journal». La guerra di testate giornalistiche fu persino concau- sa di una guerra vera, quella tra Spagna e Stati Uniti intorno a Cuba – prima (dis)avventura coloniale americana –, condotta attraverso campagne sensazionalisti- che di disinformazione che, aggiunge Spiegelman, avrebbero inorgoglito il canale televisivo Fox News.
La ricapitolazione della storia del fumetto da lui operata nelle due pagine del sag- gio che fa da cuscinetto tra le sue dieci tavole e le otto dei fumetti “storici” non dise- gnati da lui è persino commovente; mette in prospettiva (storicamente) e seleziona (affettivamente) i materiali costruendo, di fatto, un fil rouge che diventa una sorta di ipertesto virtuale, dove singoli dettagli minimi si offrono come importanti link asso- ciativi con altri paradigmi, ponti lanciati verso altri universi di consapevolezza, come quando l’ossessione per twin & towers, interiorizzata e avviata al subconscio – eppu- re per ora un passaggio del tutto razionale –, “chiama” frasi come “così i Kid gemel- li torreggiavano sullo skyline di New York” per descrivere la clonazione dell’anonimo Yellow Kid di Hogan’s Alley, la strip di Richard Outcault del «World», nel nuovo supplemento fumetti del «Journal», ora reintitolata McFadden’s Row of Flats e sem- pre disegnata da Outcault, mentre The Yellow Kid continua a vivere sul «World» a opera di George Luks. Nella tavola 5 (15-30 novembre 2002) i vari gemelli “storici” del fumetto – da Max und Moritz alla progenie susseguente, cloni e variazioni – si tra- sformano nei Tower Twins, i “Gemelli Torre”, qui in una vera e propria strip dopo che già nella tavola 2 (concepita e disegnata tra il 20 febbraio e il 2 maggio 2002) ave- vano fatto la loro comparsa come singoli ‘fotogrammi’ della vicenda raccontata da Art. Lì i due gemelli erano mescolati alle “fotografie”, in fuga in preda al terrore in uno scenario astratto, ognuno con la sua brava torre fumante in testa, le loro imma- gini regolarmente corredate dalle didascalie del racconto di Art3.
Se il tempo si era fermato l’11 settembre 2001, già il giorno dopo gli orologi ave- vano ripreso a ticchettare, anche se – ci dice dalla tavola Spiegelman, ritornato con le fattezze di Art – tutti erano consapevoli che quello era il ticchettio di una bomba a orologeria. Persino i newyorkesi più ansiosi, come appunto Art, esaurita l’adrena- lina, paiono esplodere con la bomba, ma dopo il boom, tutt’altro che fatale, finisco- no – di nuovo con la faccia di Sfortunello – per tornare a pensare di essere pratica- mente immortali.
Per l’elaborazione del lutto, si sa, serve tempo e ricorrenze e anniversari si succe- deranno, mentre le torri, subito torreggianti larger-than-life, paiono già rimpicciolir- si e poi svanire, come suggerisce Spiegelman nell’ultima striscia della tavola 10 (l’ul- tima del lavoro, terminata il 31 agosto 2003), che si chiude con la scritta “Buon Anniversario” che innerva una dissolvenza al nero.
L’aver saputo dare unità di disegno e di intenti agli impulsi irrazionali di ansia e rabbia colloca Spiegelman tra i terapeuti potenziali del trauma di 9/11. In effetti, egli riesce a coniugare la monumentalità, la tragica spettacolarità e le dimensioni dell’e- vento con un senso delle cose del mondo che tratteggia la vita come fragile, perico- losa, transitoria; qualcosa che ci fa venire in mente i genitori di Art, sopravvissuti alla Shoah, che in Maus consigliano al figlio di tenere sempre le valigie pronte.
Chissà, magari anche un “contro-racconto” di 9/11 come In the Shadow of No Towers
1Per “accumulazione originaria” intendo qui quella forma narrativa convenzionale retoricamente igienizzata e
consolatoria che da un inizio-shock, attraverso la “risposta”, l’orgoglio ferito, la solidarietà, l’eroismo, il tormento- ne più o meno patriottico del “perché ci odiano?”, costruisce una parabola fino a una conclusione che, come ha scritto Michiko Kakutani sul «New York Times», “implica guarigione o trascendenza” (2004).
2“In buona misura, questo profluvio [di poesie nei giorni immediatamente successivi alle nefandezze dell’11
settembre] ha ridotto l’arte poetica a reparto-rime della clinica psichiatrica, ovvero ad alternativa laica al conforto religioso. Ma alcune poesie sono parse semplicemente e terribilmente appropriate” (Pinsky 2002, p. 303).
3Qui Spiegelman “si registra” in terza persona, anche se nella striscia in basso della tavola le vignette tornano
subito alla prima persona, più autorevolmente, ovvero normativamente, autobiografica – e, relativamente al fumet- to, autoreferenziale, dal momento che, con grande efficacia, alcune vignette leggibili verticalmente in totale auto- nomia dal resto, nella stessa tavola, sostanziano l’agenda artistica di Spiegelman, là dove il suo viso davanti allo spec- chio si tramuta in quello del topo di Maus, rubricando il tutto con il balloon “Non ne posso più della questione del-
l’autorappresentazione”.
4Vale la pena sottolineare che uno di questi bozzetti è diventato poi la copertina di 110 Stories. New York Writes
after September 11 (Baer, a cura, 2002).
5Nel testo si fa riferimento a Concert for America, con gli interventi di “Bush e Laura”, l’esibizione di Placido
Domingo e Tom Brokaw che – dice Françoise ad Art – “vuole proprio te” per un collage di interviste “con newyorkesi doc”.
6Il riferimento è naturalmente all’episodio di Flitcraft in The Maltese Falcon (1929) di Dashiell Hammett, a
“Wakefield” (1834) di Nathaniel Hawthorne e a “Bartleby, the Scrivener” (1853) di Herman Melville.
IN THE SHADOW OF NO TOWERS: L’ARTE GRAFICA DI ART SPIEGELMAN
ogni cosa che è scomparsa quella mattina. Il surrealismo era inadeguato e, dopo aver dise- gnato diversi simil-Magritte a colori brillanti4, dovetti indirizzarmi verso i quadri nero-su-
nero di Ad Reinhardt per trovare una soluzione. Françoise – a lei il mio eterno apprez- zamento – risistemò le mie silhouette in modo che l’antenna della torre nord spezza la “W” della testata della rivista.
Ciò che appare sullo schermo del computer ricorda molto rozzamente la copertina che verrà poi stampata. Greg Captain, capo del comparto immagini del «New Yorker», mi aiutò a individuare il modo migliore per stampare l’immagine e si fece quattordici ore di auto per recarsi in tipografia a supervisionare la delicata operazione. In un certo senso, la copertina stampata, come un’incisione, è l’unico “originale” possibile. I profili di quelle torri erano stampati in pentacromia, a inchiostro nero, su una campitura nera ottenuta con i quattro inchiostri base. Una finitura lucida sovrastampata contribuisce alla persi-