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La relazione di Linda e Michael Hutcheon sull’allestimento del Ring curato da August Wernicke contiene informazioni sufficienti per consentire una discussione anche a chi, come il sottoscritto, non abbia avuto modo di farne esperienza diretta in teatro. Certo non ci si può formare un’idea precisa, attraverso delle semplici foto, della componente gestuale e della recitazione; ma il lavoro di Wernicke propone molti altri temi alla riflessione. Ne toccherò alcuni in una serie di punti1.

Per prima cosa desidero sollevare un problema generale, cioè la leggibilità del- l’intenzione registica all’interno del quadro scenico. Per quanto è dato vedere, l’al- lestimento di Wernicke è astuto, studiatissimo, a tratti geniale: gareggia con la crea- zione di Wagner aspirando anch’esso allo stato di opus. La messinscena assurge al rango di opera d’arte, ricca di relazioni e allusioni in relativa autonomia rispetto al dramma. Ed è significativo, come hanno ricordato i relatori, che Wernicke abbia sentito il bisogno di guidare il pubblico con “un voluminoso cofanetto che racco- glieva i diversi libretti, ciascuno dei quali era disseminato di celebri immagini (foto- grafie, dipinti, disegni) che avevano ispirato Wernicke nella regia e nella scenogra- fia”. Mi permetto tuttavia di nutrire qualche dubbio sull’efficacia di una regia che necessita di tante spiegazioni per essere compresa (detto in forma più sofisticata: sulla funzionalità di un testo che affida la propria decodifica alla conoscenza preli- minare di massicci paratesti collocati nei suoi dintorni). Il caso della veduta del Walhalla nella seconda scena del Rheingold è emblematico del sovraccarico seman- tico generato da Wernicke: affinché essa non appaia “semplicemente (…) una scon- certante immagine visiva” e acquisti invece molteplici risonanze, bisogna sapere già che il profilo della fortezza replica il Walhalla di Regensburg fatto edificare nel 1842 da Ludwig Idi Baviera a maggior gloria della stirpe teutonica. E bisogna anche sape-

re che lo scenario alpino su cui sorge è analogo a quello che si poteva ammirare dallo studio di Hitler nel rifugio di Berchtesgaden (un ambiente certamente molto foto- grafato sino al 1945, ma non per questo riconoscibile d’acchito al giorno d’oggi). Quello di Wernicke è un allestimento “decisamente postmoderno” in quanto tende a fare dell’esperienza estetica un’occasione per supplementi di riflessione. E in que- sto modo mina un pilastro dell’estetica wagneriana, cioè la comprensione immedia- ta e totale di quanto avviene sulla scena (cfr. Wagner 1887a, p. 98, sulle pastoie della Verstandessprache, del “linguaggio dell’intelletto”, che impediscono la “comprensio- ne tramite il sentimento”)2. Ora, non c’è dubbio che il tessuto sinfonico dei Leitmotiv nel Ring sia talmente denso che solo numerosi riascolti permettono di afferrarne tutta la complessità; ciò vale in genere per quella che siamo soliti etichet- tare come “grande arte”. Anche un romanzo di dimensioni colossali come Der e sempre (The Nibelungs and their significance for Today and Forever). Il simbolismo

della scena iniziale dell’Anello dei Nibelunghi è una chiara prova di come Wagner conoscesse l’interpretazione di van der Hagen che considerava la saga dei Nibelunghi “la saga ancestrale dell’origine della razza umana”. Essa racconta “come attraverso il serpente (con una testa umana), una donna e l’oro, il peccato e la morte entrarono nel mondo” (Deatridge 1991). In Inghilterra assistiamo a un’analoga ricerca dell’identità nazionale attraverso una rilettura delle saghe nordiche, della Germania di Tacito e dei poemetti germanici dell’Edda. È indicativo e sconcertante per esempio come William Morris, uno scrittore utopico, diffusore delle idee di Marx, ricerchi le origini germaniche del socialismo e celebri le origini sassoni della nazione inglese. Nei “late romances”, scritti dopo aver visitato l’Islanda, Morris opera una pericolosa idealizzazione del mondo germanico perché preannuncia non solo l’esaltazione della purezza della razza ariana, ma anche perché rimane invi- schiato in una ideologia nazionalista e imperialista (cfr. Fortunati 2005; 2007b)

La complessità dell’opera musicale di Wagner mi sembra risieda proprio nell’a- vere al suo interno le premesse per una manipolazione ideologica che in seguito sarà messa in atto dal nazismo. Nel libretto dell’opera di Wagner la ricerca dell’identità nazionale sfocia in una pericolosa identità biologica, di sangue e quindi razziale. Sono proprio concetti ambigui quali quello di “Blod” e di “Volk” che si presteran- no durante il regime nazista a una interpretazione della identità nazionale in chiave razzista e antisemitica.

La messa in scena da parte di Herbert Wernicke dell’Anello dei Nibelunghi viene infatti letta da Linda e Michael Hutcheon come un modo per liberare Wagner dal- l’ideologia nazifascista: il ciclo dei Nibelunghi non è più rappresentato come l’epo- pea del popolo germanico, ma come la sua fine. Nella produzione di Wernicke, la razza ariana subisce un declino fisico e morale in un contesto fascista dominato da minacce e intimidazioni, mentre le classi dirigenti europee stanno a guardare con inutile sgomento. Per questo motivo il regista accentua il tema della morte e alla fine dieci cadaveri vengono ammonticchiati sul palcoscenico, diventando una sorta di fossa comune. Il finale apocalittico, tanto discusso dalla critica, segna la fine e non la rigenerazione del popolo germanico. Questa ri-lettura e riappropriazione dell’o- pera di Wagner diventa una forma di rappresentazione drammatica efficace per pro- vocare nel pubblico un riesame e una riflessione critica sul passato controverso della Germania nazista.

1Ringrazio il dott. Daniele Urlotti per le utili conversazioni su Wagner postmoderno e per avermi fornito mate-

riale prezioso per l’approfondimento di questo tema.

tempo storico di Wagner, con la comparsa in scena di tratti distintivi dell’epoca in cui la Tetralogia venne composta (per citare qualche esempio non menzionato dai relatori: il Reno-fabbrica, le ondine in vesti di ballerine di can can, Wotan e Loge abbigliati rispettivamente come un ricco borghese e un istitutore pietista). In tal modo la rappresentazione dell’“elemento puramente umano” perseguita da Wagner veniva messa in rapporto dialettico con le contraddizioni e la violenza imperanti nella società di cui egli era figlio. Di quello spettacolo memorabile il Ring di Wernicke appare una consapevole radicalizzazione. Lo scopo evidente è anche qui di invitare lo spettatore a una riflessione che scavalcando i confini della drammatur- gia wagneriana permetta di valutarne il rapporto con un altro tempo storico – gli anni del dominio nazista sino al crollo del Terzo Reich, quello sì “stato della com- piuta peccaminosità”, per riprendere un’espressione di Fichte cara al giovane Lukács (1916, p. 138) –, con cui il nostro tempo non ha finito di fare i conti, dal momento che ancora si esige l’“espiazione estetica” e si va proclamando l’irrimedia- bile perdita dell’innocenza che il teatro musicale ha subito proprio con Wagner (cfr. ancora Drüner 2003, p. 322).

Tutto questo sembra però rovesciarsi nel suo contrario, se – e vengo al terzo punto – si esamina il rapporto tra finzione, realtà e dimensione storica nella dram- maturgia musicale. Comincio con un’assoluta ovvietà: ogni rappresentazione artisti- ca dell’orrore contiene in sé un tratto ineliminabile di finzione, e gioca su un autoin- ganno pacificamente accettato. Nessuno muore realmente sul palcoscenico; nessuna musica, per quanto straziante, genera nell’ascoltatore la sofferenza provocata dal dolore fisico. In questo senso l’arte è menzogna, perché reca con sé un ineliminabi- le carattere affermativo (cfr. Marcuse 1965, pp. 43-85). Ma Wernicke vorrebbe redi- mere l’arte da questa menzogna, proiettarci fuori da Wagner, e nel finale della Götterdämmerung, con l’irrompere del bulldozer che demolisce un lato della scena, addirittura fuori dall’illusione teatrale. Tuttavia l’effetto che così si genera non è lo straniamento del teatro epico, ma semmai un’esperienza estetica violentemente disturbata. La dimensione spettacolare va contro la dimensione drammatico-musi- cale, ma in ultima istanza, oggi possiamo ben dirlo, contro se stessa. Non desidero certo portare acqua al mulino del disimpegno e patrocinare l’idea di un’arte collo- cata in una sicura torre d’avorio; piuttosto, vorrei invitare a riflettere – nell’unico tempo reale a nostra disposizione, cioè il tempo in cui la realtà ha superato la fin- zione scenica oltre ogni immaginazione – sulla ormai smascherata inanità degli sfor- zi volti a ottenere la politicizzazione permanente dell’arte, e sulla miseria di un’este- tica che pretende di valutare le opere d’arte in base al grado della loro rivolta con- tro l’ordine costituito. Ripetiamolo per l’ennesima volta: il più grave attentato terro- ristico della storia ha assunto sin dall’istante del suo verificarsi i tratti della fiction, è divenuto esso stesso spettacolo, e uno dei suoi effetti collaterali è stata la ridicoliz- zazione retroattiva dei tentativi di introdurre nell’arte la “realtà vera”. Per dirla con franchezza, nel mondo post 11 settembre o si chiudono una buona volta i teatri, oppure, ed è un paradosso solo apparente, si deve togliere il bando alla possibilità di “parlar di alberi” – che a Brecht pareva quasi un crimine e oggi molti vorrebbero aggiornare a tempo indeterminato4 – e coerentemente ricominciare a consentire all’arte, anche all’arte di Wagner, di manifestare la propria sacrosanta non-verità, senza il rumore di fondo della cattiva coscienza che vorrebbe “salvarla” dal suo ine- WAGNER, L’EUROPA POSTMODERNA E IL PASSATO CHE NON PASSA 

Zauberberg dovrebbe essere letto almeno due volte – lo dichiarò Thomas Mann in persona, presentandolo nel maggio 1939 agli studenti dell’Università di Princeton – perché se ne possa comprendere appieno la concatenazione “sinfonica”. Si può porre però la questione se anche una regia operistica, per quanto geniale, possa avanzare la medesima pretesa ai suoi spettatori, e se non si annidi qui una dose ben maggiore di “arroganza” di quella che lo stesso scrittore sentì di dover riconoscere nella propria richiesta (cfr. Mann 1939, p. 610).

Un secondo punto riguarda quella che si potrebbe chiamare con Hegel la “coscienza infelice” di Wernicke, al pari di molti altri intellettuali e artisti tedeschi, di fronte all’esproprio di Wagner da parte del regime nazista, che esaltandone l’an- tisemitismo e la cultura fortemente impregnata di nazionalismo ha finito per rende- re il rapporto con la sua opera, nella cosiddetta postmodernità, un problema quasi insolubile. Ulrich Drüner ha affermato di recente che l’immagine attuale del com- positore si sarebbe imposta tra la fine della guerra e la riapertura del teatro di Bayreuth (1951) e sarebbe dominata dalla rimozione del passato e da una “scissione assurda tra personalità ed opera” (Drüner 2003, p. 2). Uno sguardo alle scelte che portarono Wieland e Wolfgang Wagner alla rinascita del festival conferma almeno in parte questa tesi. Come hanno fatto giustamente notare Linda e Michael Hutcheon, nelle innovative regie firmate da Wieland negli anni Cinquanta e Sessanta non vi fu più posto per l’intreccio di realismo e mitologia germanica che caratterizzava gli alle- stimenti precedenti: la componente visiva dei drammi veniva ora proiettata in una dimensione altamente stilizzata, nell’intento di conferire all’opera wagneriana tratti universali e sovratemporali. A partire dal 1976 però il panorama cominciò a mutare: l’anno del centenario del Ring, oltre al rivoluzionario e dissacrante allestimento di Chéreau-Boulez, coincise anche con l’avvio di una vasta e documentata letteratura scientifica sugli aspetti più sgradevoli o addirittura ripugnanti della personalità e del- l’ideologia wagneriane (cfr. Zelinsky 1976). Già Theodor W. Adorno, nel suo cele- bre Wagner (Versuch über Wagner, 1952), aveva colto nell’opus wagneriano tracce antisemite (pp. 35-39): ma si era trattato di una voce nel complesso isolata. In ogni caso, con buona pace di Drüner, è innegabile che gli studi su questo aspetto dell’o- pera wagneriana si siano succeduti senza interruzione, e che il dibattito sia oggi più vivo che mai, tanto da essere divenuto, forse inevitabilmente, uno degli emblemi del passato che non passa, non solo nella Germania riunificata3. Della trasformazione dell’interesse scientifico in vera e propria ossessione è documento, fin dal suo titolo, il volume pubblicato da Köhler nel 1997, che in italiano suonerebbe Hitler di Wagner. Il profeta e il suo esecutore materiale: un caso esemplare – e tutto tedesco – della ricorrente “compulsione a fare di Wagner un nazista” (cfr. Bermbach 1997), anche se non sono mancate dopo la svolta di secolo voci più concilianti (cfr. ÎiÏek, Dolar 2001; Barenboim, Said 2002).

Per tornare al tema che più c’interessa, cioè la messinscena, non c’è dubbio che gli allestimenti curati da Wieland Wagner contenessero un elemento che a una visio- ne della storia e della società di derivazione marxista non poteva che apparire “ideo- logico” (anche se ci si può chiedere se esista oggettivazione che non comporti una componente ideologica). In un clima culturale ancora dominato dall’onda lunga del ’68, il bisogno di smascherare la presunta “falsa coscienza” della Neu-Bayreuth ispirò l’allestimento di Patrice Chéreau, teso a sovrapporre al tempo mitico del Ring il

ampia misura coincide con il futuro testo de Il crepuscolo degli dei (Götterdämmerung). Qualche precisazione richie-

de anche il, temo sin troppo nobile, profilo di Wotan offertoci più avanti: egli “garantisce l’ordine del mondo attra- verso una serie di accordi e la storia della tetralogia è sostanzialmente il racconto dei suoi tentativi di ottenere l’a- nello senza violare tali accordi”. Difficile essere d’accordo con questa interpretazione, se si tiene conto che poco dopo essere entrato in scena il “signore dei patti” sconfessa se stesso negando ai giganti il possesso di Freia, con- cordato come ricompensa per la costruzione del Walhalla, e che più avanti il primo mezzo da lui impiegato per entrare in possesso dell’anello è la rapina (verso la fine del L’oro del Reno (Rheingold) sarà l’intervento di Erda a

farlo desistere dalla volontà di trattenere l’anello, ma non attraverso il richiamo ai patti, bensì con il preannuncio della catastrofe che si abbatterà sugli dei). Anche il progetto di Wotan di creare una razza libera – i Welsunghi – da cui nascerà l’eroe in grado di impossessarsi dell’anello è costruito su un’ambiguità: nel drammatico scontro che ha luogo nel IIatto della Walkiria Fricka avrà buon gioco nel dimostrare al consorte che Siegmund non può essere con-

siderato davvero libero e autonomo, dal momento che Wotan lo ha aiutato in un punto decisivo, facendogli trova- re la spada Nothung da lui stesso infissa nell’albero in casa di Hunding.

2Non sarà male ricordare che nell’archetipo del Ring, il Siegfried’s Tod, allo scopo di rendere chiaro lo svilup-

po dell’azione – limitata allora a quella che sarebbe poi divenuta l’ultima parte della Tetralogia, la Götterdämmerung

– Wagner aveva dovuto ricorrere a inserti “epici”, che spiegavano il vasto antefatto. Ma l’eccesso di episodi narrati- vi impoveriva la componente drammatica vera e propria, il che, unito alla difficoltà di realizzare all’interno di un solo dramma la vastissima rete di Leitmotivche nella mente di Wagner cominciava ad assumere contorni definiti, portò al fallimento del tentativo di musicare il Siegfried’s Tod e alla smisurata dilatazione del progetto originario

(sugli abbozzi musicali per il Siegfried’s Tod, e sul loro rapporto con la Tetralogia, cfr. Nattiez 2004).

3Dopo Zelinsky 1976, e limitandoci alle monografie, cfr. Wessling, a cura, 1983; Katz 1985; Rose 1992; 1999;

Köhler 1997; Drüner 2003; Hartwich 2005, alla serie si aggiungerà presto l’annunciato volume di cui, proprio in questa sala, Jean-Jacques Nattiez offrì un’anteprima nelle sue lezioni magistrali tenute per la Scuola Superiore di Studi Umanistici nella primavera del 2006.

4“Che tempi son questi, in cui / parlar degli alberi è quasi un crimine / poiché comporta il tacere su tante /

atrocità!”, A coloro che verranno (An die Nachgeborenen, vv. 6-9).

5Mi riferisco ovviamente a McClary 1991. Giova ricordare che feminine ending, come il nostro “cadenza fem-

minile”, nel linguaggio della teoria musicale allude alla risoluzione sull’accordo di tonica a metà battuta anziché sul “tempo forte”. È evidente che le due espressioni sono complementari e rivelano nella loro legalità terminologica il sedimento di un’associazione gendered, dove “forte” è di fatto equiparato a “maschile” e “femminile” a “debole”.

WAGNER, L’EUROPA POSTMODERNA E IL PASSATO CHE NON PASSA 

stirpabile momento ideologico. Concluderò pertanto da musicologo, tornando sulle ultime battute della Götterdämmerung discusse da Linda e Michael Hutcheon, per cercar di mostrare che proprio nel loro essere, per dirla con Adorno, “apparenza socialmente necessaria” (Adorno 1949, p. 210), esse sanno assai meno di redenzio- ne e di appagamento di quanto non si pensi, e presentano un aspetto che non dovrebbe essere trascurato dalla cultura postmoderna.

La musica che chiude la ciclopica creazione wagneriana scrive infatti una storia ben diversa da quella di cui sono protagonisti “sovrani per lo più mascalzoni” e “sol- dati per lo più folli”, come scrive Ambrose Bierce nel Devil’s Dictionary. L’ultimo Leitmotiv che ascoltiamo viene tradizionalmente definito, sulla scia del primo ese- geta di Bayreuth Hans von Wolzogen, motivo della “redenzione d’amore” (cfr. Wolzogen 1876, p. 128). In una lettera inedita a Edmund von Lippmann del 6 set- tembre 1875, però, Cosima Wagner affermò che Richard chiamava questo motivo “glorificazione di Brünnhilde” (Verherrlichung Brünnhildens), e tre anni prima, in data 23 luglio 1872, aveva annotato nel diario un’altra espressione usata dal consor- te: “inno per l’eroina” (Chorgesang auf die Heldin) (cfr. Darcy 1994, p. 8). Questo Leitmotiv compare per la prima volta nella Walkiria (III, 2), cantato da Sieglinde, il

cui sposo-fratello Siegmund è stato appena assassinato da Hunding. Lei già reca in grembo il frutto della loro unione, Siegfried (come si apprende nel capitolo succes- sivo della Tetralogia,Siegfried, lo darà alla luce tra mille pene e morirà dopo averlo affidato a Mime), ed è Brünnhilde, che cerca di proteggere la sua fuga a prezzo del sacrificio di sé, ad annunziarglielo. La replica di Sieglinde, sulle note dell’“inno”:

Miracolo sommo! Donna sublime! A te fedele io debbo

Sacro conforto! (Wagner 1887b, p. 69)

è sorretta in orchestra da una delle più appassionate eruzioni sinfoniche dell’in- tero Ring. Ma alla fine della Götterdämmerung, dopo che Brünnhilde è scomparsa tra le fiamme salite sino al Walhalla ad annientare il vecchio ordine cosmico, il moti- vo ritorna in piano nei violini, e accompagna il calar del sipario in tono nostalgico e retrospettivo. Non v’è più spazio per “sovrani per lo più mascalzoni” e “soldati per lo più folli”: Wagner si congeda da noi evocando le ombre di due donne morte, e lo fa con i mezzi della pura musica strumentale, che in Oper und Drama aveva definito senza giri di parole “una donna” (1887a, p. 316). In questa prospettiva, oggi che la new musicology tanto spazio dedica, a buon diritto, a ciò che è stato rimosso o tra- scurato dal “discorso maschile” sulla musica, non sembra provocatorio interpretare la chiusa della Tetralogia come un’autentica feminine ending5

1Confinerò in nota, attenuati dal corpo minore, alcuni pochi rilievi critici al testo degli Hutcheon. Anzitutto nel

loro intervento si legge che dopo la fuga da Dresda (maggio 1849) Wagner “passò i successivi dodici anni in Svizzera, dove scrisse quelli che possono considerarsi essenzialmente i suoi manifesti politici ed estetici. Fu duran- te questo periodo che compose il poema e gran parte della musica di L’anello del Nibelungo (Der Ring des Nibelungen)”. In realtà una parte significativa del poema del Ring Wagner l’aveva già scritta proprio a Dresda, nel-

l’autunno del 1848: si tratta di La morte di Sigfrido (Siegfried’s Tod), che poi venne riveduto e modificato, ma in