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In questo mio intervento vorrei prima di tutto introdurre la figura di Charles Staples Lewis (Belfast 1898-Cambridge 1963) e porre l’accento sulla sua attività di romanziere, che forse in Italia fino a ora è stata meno conosciuta del suo lavoro quale saggista e filologo. In tale campo ha dato una grande impronta all’interpretazione dell’influenza del pensiero medievale nella nostra consapevolezza moderna. Penso, a questo proposito, al lavoro The Allegory of Love, del 1936, il cui titolo è stato spes- so proposto come chiave di lettura per la sua opera più conosciuta al grande pub- blico, cioè un ciclo di racconti per bambini pre-adolescenti, scritti nell’arco di tempo che va dal 1950 al 1958, dopo che aveva già pubblicato la maggior parte delle sue scritture, rivolte invece a un pubblico di adulti. La chiave allegorica, però, fu da lui sconfessata, ed egli sostenne di avere semplicemente provato a immaginare che cosa e come avrebbe potuto essere l’incarnazione per la salvezza del creato in un pianeta e in un mondo diverso dal nostro.

La sua opera di romanzi e saggi – egli fu uno dei più prolifici saggisti della cor- rente apologetica della Church of England – risale soprattutto al periodo tra le due guerre mondiali, e durante la seconda ebbe anche grande fortuna allorché venne tra- smessa dalla BBC una serie di sue conferenze sull’amore, poi raccolte nel volume I quattro amori (The Four Loves 1960). La sua popolarità presso il grande pubblico si allargò anche grazie al successo di tali trasmissioni negli Stati Uniti. Due lati, quin- di, del suo corpus letterario: squisitamente accademico il primo, di divulgazione reli- giosa e narrativo il secondo.

Mi sembra importante, per l’opera che ho esaminato, insieme alla sua trasposi- zione cinematografica, ricordare che egli istituì a Oxford in un famoso circolo let- terario accademico, gli Inklings, gioco di parole tra ink (“inchiostro”) e inkling (“percezione, sospetto”), la cui traduzione dovrebbe trovarsi, con un gioco di paro- le impossibile in italiano, a cavallo tra il significato di scribacchini e sensazioni. Di tale circolo fu membro anche Tolkien (Bloemfontain, Sudafrica 1892-Bournemuth,

UK 1973), filologo germanico di chiarissima fama, meglio conosciuto dal grande

pubblico come l’autore della imponente trilogia di romanzi Il Signore degli anelli, epica di stampo mitologico sulla guerra tra forze del bene e forze del male che anch’essa è stata portata sul grande schermo con grandissimo successo proprio in questi ultimi anni.

Il Signore degli anelli è rivolto a un pubblico adulto, ma l’antefatto di tale impressionante impresa letteraria, che crea una sorta di mitologia della Britannia, si trova in un libro, The Hobbit, che Tolkien cominciò come racconto a sé stante

pagna e trovarsi in case piene di tesori benignamente custoditi da eccentrici ma sim- patici professori celibi. Di personaggi simili la letteratura inglese, per ogni fascia d’età, ne ha sempre avuti, e sembrano incarnare un paese e un periodo, il secolo che va dall’incoronazione di Vittoria a imperatrice delle Indie all’indipendenza di tale subcontinente, che per molti è rimasto la quintessenza della britannicità, tanto da riproporsi come cliché in film diversi tra loro come A Passage to India e The Lady Vanishes. Nella trasposizione filmica della Disney, che è stata fortemente voluta e sostenuta da gruppi cristiani americani, ma che è solo l’ultima di una serie di fortu- nate trasposizioni che l’opera ha avuto, l’aspetto bellico del libro è, invece, sottoli- neato oltre a quanto richiesto dal normale passaggio dalla narrazione letteraria alla rappresentazione visiva, con una netta rottura rispetto all’originale che invece, nel resto della pellicola, è seguito scrupolosamente.

Per quel che riguarda il racconto, la totale immersione dello spettatore nelle scene di conflitto non era prevista dall’autore, ed era la lotta tra bene e male nello spirito che doveva essere di centrale importanza. Ciò che succedeva sul campo di battaglia era di minore importanza, come si evince anche osservando le pellicole bel- liche del periodo. In questa riduzione sono di grande importanza, per l’impatto forte che hanno sullo spettatore, i primi minuti del film. Essi precedono i titoli, creando una introduzione che si distacca dall’ambientazione rurale e/o fantastica del resto del film, e crea un antefatto non solo temporale, ma anche didascalico, che illustra vividamente e in dettaglio alla platea che cosa si lasciavano alle spalle i bambini, quando dalla città partivano in treno verso il cuore della campagna (la parola ingle- se country traduce sia campagna, sia nazione, per cui si può sostenere che da un punto di vista lessicale, il cuore della nazione è anche nel cuore della campagna).

L’introduzione, cupa, con Londra attaccata dall’alto, vista dal punto di vista dei bombardieri tedeschi, e il sonoro costituito solo dal rombo dei motori e dalle istru- zioni urlate in tedesco, che non è mai tradotto, né sottotitolato, almeno non nel DVD

in mio possesso, è di forte suggestione, con lo schermo buio e la città identificabile solo alla luce delle esplosioni e degli incendi e, dopo che si è alzato il lamento delle sirene degli allarmi, dai fari della contraerea. La scena introduttiva ci permette anche di visualizzare brevemente i genitori e la classe sociale dei quattro bambini, tutto all’incerta luce degli incendi divampati dopo gli scoppi delle bombe. Nulla di così traumatico vi è nel libro. Si potrebbe obiettare che la memoria dei bombardamenti poteva essere ancora difficile da affrontare, per un trauma così vicino. Ma preferirei riflettere sul fatto che quando il libro fu scritto vi era a priori una non visualizzazio- ne della guerra, e che il cinema di guerra avrebbe a lungo avuto una visione “pulita” della stessa. Solo nel decennio successivo, gli anni Sessanta, i film di guerra mostra- no delle immagini di battaglia quasi documentaristiche, con dettagli bellici e campi di combattimento ricreati con una minuzia di immagini e suoni cruenti che fanno sentire lo spettatore all’interno dei combattimenti di massa. (Da Tora!, Tora! Tora! al recente Salvate il soldato Ryan)1.

Oggi deve essere in un certo qual modo ricreata la memoria condivisa di un trau- ma. Un pubblico di bambini occidentali, nati verosimilmente nell’ultimo decennio del XXsecolo, e non vissuti in zone di combattimento civile – per esempio le zone

dell’ex Iugoslavia – difficilmente ha avuto anche solo racconti familiari di testimoni di un conflitto vissuto e sofferto dai civili nelle loro case. Case che devono essere

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negli anni Venti, e che solo dopo utilizzò come antefatto alle vicende poi narrate ne Il Signore degli anelli. Anche Il leone, la strega, l’armadio (The Lion the Witch and the Wardrobe 1950) di Lewis, del 1950, il primo libro di quella che sarebbe diventata una serie che al suo interno comprendeva una cosmogonia e anche, se mi permettete il termine, una cosmotanasia, fu ideato come racconto indipendente. Come The Hobbit di Tolkien, esso racchiude una serie di dettagli che mal si addi- cono all’ambientazione squisitamente medievale del resto dell’opera, e che fanno riferimento alla vita casalinga inglese del periodo in cui furono scritti. Un esempio per tutti, in entrambi i racconti i protagonisti prendono il tè, che non solo come bevanda è anacronistica rispetto a una raffigurazione del Medioevo, che sia essa realistica o fantastica (fantasy, potrei dire, in onore proprio del genere che Tolkien in un certo qual modo divulgò), ma che, inteso quale pasto, rimanda inequivoca- bilmente al mondo dell’infanzia, quando la merenda pomeridiana (tea time, la nostra merenda) ha una importanza che in età adulta perde, tranne che in una certa Inghilterra della middle class.

A differenza di quel che accadde alla produzione letteraria di Tolkien successiva a The Hobbit, Lewis continuò a rivolgersi a un pubblico infantile nei racconti susse- guenti, dando a questi ultimi, però, una colorazione sempre più cortese e simile al romance, staccandosi quindi dalla vita homely (cioè casalinga, di registro certamen- te basso, ma rassicurante) dei piccoli lettori, e così creando una specie di Medioevo classicista e parallelo, che poco aveva da spartire con l’Inghilterra contemporanea, post-bellica. Per questo mi sembra interessante soprattutto esaminare il primo volu- me delle Cronache di Narnia, e come cinquant’anni dopo il grande schermo ha ripre- sentato i forti rimandi che nel libro ci sono, anche se impliciti, al vissuto della secon- da guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra.

Vorrei introdurre brevemente l’opera, che ha riscosso sin dall’inizio un successo enorme di pubblico, ed è diventato un classico dell’infanzia in Gran Bretagna e nei paesi dell’area di lingua inglese e di cultura anglosassone prima, e in tutto il mondo poi, soprattutto per l’uscita, l’anno scorso, del film prodotto dalla Disney, che ha ottenuto un guadagno di 745 milioni di dollari.

Il libro è ambientato durante la seconda guerra mondiale, e, almeno nel nostro mondo, il conflitto è anche uno dei fattori che danno il via alla trama. Come dice l’in- troduzione,

Una volta c’erano quattro bambini che si chiamavano Peter, Susan, Edmund e Lucy. Questo è ciò che successe loro quando furono mandati via da Londra a causa delle bombe. Furono inviati a casa di un vecchio professore che abitava nel cuore della campagna, a dieci miglia dalla stazione più vicina e a due dall’ufficio postale (Lewis 1950, p. 9). Scrivendo nel 1950, Lewis poteva contare sul fatto che qualsiasi bambino, se non aveva esperienza diretta dell’evacuazione di civili dai centri urbani, per la sicurezza e per il decentramento della popolazione che andava nutrita in periodi di raziona- mento, era certamente a conoscenza di quanto era successo tramite i racconti di parenti e amici. Per decenni bambini inglesi e americani hanno letto l’incipit del libro senza bisogno di una trasposizione grafica: la guerra, non meglio precisata, accadeva, ma nel racconto essa diveniva una specie d’occasione per andare in cam-

La paura di spie era comune durante la seconda guerra mondiale, con le varian- ti dei manifesti italiani “Il nemico ti ascolta” affissi in tutti i luoghi pubblici euro- pei. Ciò nondimeno lo scambio di frasi dei bambini, nello scoprire che il capo della polizia della Regina ha distrutto la casa di Tumnus, il fauno che ha accolto la piccola Lucy e non l’ha consegnata alla Regina, rende consapevoli che non siamo più in guerra, bensì in uno Stato di polizia. Davanti alla graziosa casa perquisita e vandalizzata, avendo letto il messaggio di accusa lasciato a monito da Maugrim, capitano delle forze della Regina, Susan propone di chiamare la polizia, e Peter ribatte “È stata la polizia”. La rivolta contro l’idea di uno Stato di polizia è la ragione che spinge i bambini ad accettare di collaborare con una forza di resisten- za che non conoscono e di cui potrebbero diffidare, collaborazione che sulle prime si svolgerà proprio nel tipo di contatti fatti di incontri fuggevoli, pieni di timore e reciproco sospetto che sono poi diventati caratteristici delle spy stories di Le Carrè. Il fatto che si svolgano in una foresta di sempreverdi ricoperta di neve può forte- mente richiamare (al pubblico adulto) le atmosfere del confine tra DDR e BDRdel

decennio successivo e gli scambi d’agenti che vi avvenivano. Essendo questo un film d’avventura, e non di spionaggio, lo scontro decisivo frontale avverrà, ed esso è stato realizzato con un dispiegamento d’effetti speciali veramente spettacolari. Come le immagini della battaglia d’Inghilterra dell’introduzione anche in queste scene del film sono utilizzate le riprese dall’alto, sottolineando come i bombarda- menti subiti dai bambini siano stati una formazione al combattimento, da cui essi hanno imparato nuove strategie con cui combattere le forze usurpatrici e dispoti- che. Questo è ulteriormente sottolineato dalla battaglia aerea che ha luogo tra le orde fantastiche, in cui la funzione dei bombardieri tedeschi è svolta dai grifoni – alleati – che volando attaccano il nemico, episodio nuovo rispetto al romanzo, in cui le uniche armi non magiche sono quelle bianche, ma che, per la spettacolarità delle riprese dall’alto sulle masse in combattimento riprende le scene più famose della recente filmografia di guerra, da Braveheart al già citato Il Signore degli anel- li. Un appunto possibile al film è proprio un’eccessiva visualizzazione e dominan- za delle battaglie militari rispetto alla lotta interiore tra il bene e il male che inve- ce caratterizza il libro.

Per concludere, vorrei avanzare un’ipotesi che mi appare probabile sul tema del “buon governo” da reintegrare dopo la caduta di un usurpatore, sia che il totalitari- smo sia da identificare con uno dei dittatori nazifascisti dell’epoca sia che prefiguri la stretta di pugno dei paesi est europei nelle mani della dittatura stalinista. I quat- tro bambini che devono sedere sui troni di Narnia perché l’armonia vi regni sono simboli delle virtù cardinali, Peter the Magnificent (Fortezza), Susan the Gentle (Temperanza), Edmund the Just (Giustizia), Lucy the Valiant (Prudenza, nel senso di osare seguire ciò che è buono)2. La vittoria dell’etica “mondana” cristiana è assi- curata (cfr, Lewis 1950, pp. 166-167). Essendo questo un libro per bambini e di con- seguenza un film per bambini, il combattimento, per quanto cruento, si conclude senza morti, cioè senza morti di persone care o di alleati. (“Childhood is the king- dom where nobody dies, nobody that matters, that is”)3. In questo spero di avere esaminato un’opera che, facendo riflettere, porta una ventata di leggerezza tra i temi purtroppo cupi che sono stati affrontati in questo convegno. Almeno per ciò che riguarda questo conflitto, l’happy end hollywoodiana perdura.

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abbandonate per l’effimero rifugio nel giardino, i cui abitanti sono strappati ai loro letti, costretti a lasciare tutto dietro di sé: sono traumi che devono essere visivamen- te ed esplicitamente narrati, non possono più, in Europa occidentale, essere consi- derarsi parte della consapevolezza comune.

L’introduzione, tuttavia, tratteggia un altro conflitto, vale a dire quello interno al gruppo di protagonisti/combattenti, un litigio che si sostituisce alla voce narrante del libro, in un’anticipazione dei rapporti tra i ragazzi che peggioreranno sino alla crisi centrale in cui Edmund tradisce Peter a ragion veduta, dopo avere tradito inconsapevolmente la fiducia di Lucy e avere rivelato informazioni pericolose alla potente regina dittatrice di Narnia. In nessun punto del libro è narrato o lasciato intendere che Edmund abbia messo in pericolo chicchessia per un attaccamento al padre tale da rischiare la vita solo per una sua foto in uniforme, anzi, i genitori dei bambini sono completamente assenti. In questo episodio Peter salva Edmund a forza, accusandolo di essere uno scriteriato egoista che non pensa agli altri. In una situazione tipica del film di guerra hollywoodiano, tra i due maschi il breve scambio permette di identificare la figura di Edmund in quella dell’incompreso, acrimonioso estraneo alla sua stessa famiglia/gruppo di commilitoni. La foto del signor Pevensie serve anche quale espediente narrativo per sottolineare come la guerra avesse per- meato la società, senza far distinzione tra i combattenti e i non combattenti: quattro bambini nel 1943 avevano ogni probabilità d’essere presto orfani di guerra di padri chiamati alle armi, ma anche di civili periti sotto le bombe, o vittime essi stessi. L’evacuazione dei ragazzi, in una Paddington gremita e vociante, piena di genitori in lacrime, è anch’essa ricreata ad arte, sia con esplicito intento commemorativo, con una straordinaria cura nella ricostituzione d’epoca, sia per introdurre un senso di mancata partecipazione allo sforzo bellico collettivo, raccolto nello sguardo invidio- so che il primogenito Peter lancia alle reclute che vede passare, solo di un paio d’an- ni più grandi di lui, e il rancore di Edmund per quello che sente essere l’abbandono del padre, “Se papà fosse qui, tu non ci manderesti via” e di conseguenza l’inade- guatezza della madre, lo you che scaccia i bambini dal focolare domestico. Il futuro traditore non sa bene come dare le vere responsabilità del conflitto, cosa che poi ne inficerà il giudizio una volta passata la porta tra i due mondi. Di nuovo Peter s’in- tromette ammonendolo: “Se papà fosse qui, la guerra sarebbe finita, e non dovrem- mo partire”.

Il viaggio lontano dalla guerra realmente vissuta dall’Europa si trasforma, inve- ce, in un viaggio onirico in un paese parallelo, dominato da una dittatoriale e bel- lissima (sia nelle illustrazioni, sia nel film) strega, che, come la regina del ghiaccio in Hans Christian Andersen, ha creato un mondo perennemente innevato, impe- dendo altresì che il Natale, il lato gioioso e di celebrazione di una futura rinascita dall’inverno, sia festeggiato. La caratteristica che più colpisce il lettore adulto, è che i pericoli che permeano il mondo di Narnia sono simili a quelli cui la narrativa e la cinematografia ci hanno abituato, ben dopo la pubblicazione del libro, ad associa- re alla guerra fredda, con la paura di parlare per la presenza di spie (persino gli alberi possono ascoltare e riferire), e la minaccia di deportazioni, dove il prigionie- ro scompare per sempre (nel caso di Narnia, per sempre ammutolito nel suo dis- senso, trasformato in una delle tante statue che popolano le sale ghiacciate del castello della Regina).

L’estremismo, malattia senile della borghesia: conflitti nella narrativa