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Ha o induce qualche senso l’eccentricità geografica che i saggi della sezione “Nazionalismi e identità” producono o si tratta solo di una cartografia dell’orrore – una delle tante possibili – che, come in un mosaico incontrollabile, giustappone i drammi storici e le retoriche in cui le tragedie si impigliano e in un qualche modo sbiadiscono o si riducono alla trasparenza? Si potrebbe dire per paradosso che un tratto unificante le guerre o i massacri, che attraverso le rappresentazioni vengono esaminati, è quello della distanza. Si tratta di eventi molto lontani, non tanto o non solo storicamente ma anche e soprattutto spazialmente, transoceanici e in qualche caso anche con più di un oceano. Per non dire poi dei conflitti africani che sembra- no appartenere a quell’altrove dell’orrore che immediatamente richiama l’Heart of Darkness conradiano. Un altrove nel quale comunque abita un presente e una pros- simità molto propri e vicini e niente affatto impropri o remoti.

Anzi se proprio da qui vogliamo iniziare, c’è proprio un’immagine del monu- mento conradiano alla violenza dell’Occidente che si gioca tutta sulla dialettica imperfetta e impossibile tra distanza e prossimità. Mi riferisco a una famosa pagina in cui Marlow, ormai vicino alla casa di Kurtz, scorge con un senso sconcertante di vicinanza e distanza il circolo di teste impalate, tutte rivolte verso l’abitazione tran- ne una. E qui, attraverso l’avvicinamento ottico reso possibile dal binocolo, Marlow non solo si rende conto di non provare l’orrore atteso, ma solo la sorpresa di notare che la testa che lo fissa è mostruosamente sorridente.

Qui troviamo elementi di problematizzazione dello spazio di sicurezza, della distanza ormai non più garantita – come del resto sempre nella modernità – tra spet- tatore e vittima, a partire proprio da quella icona della contemporaneità che è la testa mozzata che tesse un filo rosso dell’orrore dalla Medusa a Bagdad (mi riferisco al bel libro di Adriana Cavarero che mette al centro della definizione neologica di “orrori- smo” proprio questa figura, come emblema estremo dello smembramento corporeo, della distruzione della unità figurale dell’umano; cfr. Cavarero 2007, p. 41): gli orro- ri dei conflitti remoti con i dispositivi mediatici sono a un passo da noi, alterando il nostro senso del “reale”.

Tale considerazione fa cadere allora immediatamente quel tenue bandolo della distanza che teneva insieme storie così eteroclite di conflitti. Molto più interessante forse allora è indagare la concatenazione latente che pure esiste tra i diversi contri- buti qui offerti, attraverso l’autore opportunamente scelto come architrave critica nel lavoro di Elena Lamberti, Jeffrey C. Alexander, col saggio La costruzione del male. Qui Alexander (2003, p. 34) va ben oltre ricognizioni di superficie e individua nello scarto che separa la natura ontologica dalla natura epistemologica del male il

Anche in questo frangente il ritorno al saggio di Alexander risulta decisivo pro- prio perché il suo approccio eterodosso, da sociologo della cultura, serve per smon- tare e riporre quel complesso meccanismo, che si avverte anche nei lavori che qui vengono presentati, attraverso cui la Shoah è sempre più una specie di diffusa e latente pietra di confronto nella cultura contemporanea. Essa si è trasformata infat- ti nel paradigma culturale del trauma con cui ogni altro evento traumatico è in modo più o meno diretto posto in contrasto. L’universalità se vogliamo semplificatrice nella sua forza simbolica trascendentale che la trasforma in un qualche modo in una “leggenda”, come indica Geoffrey Hartman, sia pure tragica del male, espone non tanto l’eccezione di un evento (il genocidio), quanto piuttosto il funzionamento di una norma rilevante sul piano simbolico e sociale. Ovvero come le rappresentazioni abbiano energie proprie nel tenere in vita – forse selettivamente o rispecchiando certi punti di vista piuttosto che altri – passati altrimenti inafferrabili per intero, il cui meccanismo per nulla immediato va compreso, pensato e codificato, pena la per- dita dei resti superstiti – o per meglio dire, delle tracce – di storicità tragiche come ad esempio quelle legate al trauma, con cui rifondare però l’orizzonte di una memo- ria condivisibile. Quello che si definisce tuttavia è probabilmente più un problema che uno sbocco. Ci troviamo insomma su quel crinale angusto delle narrative che possono effettivamente significare le tracce – in sé come è noto prive di codice a dif- ferenza del segno – ma investendole di una semantica, per così dire, direzionata. Il che pone ancora con maggiore forza il problema etico del senso come direzione.

Emblematiche da questo punto di vista sono le narrative di nazione – tutte o quasi attraversate dai saggi riuniti in questa sezione – il cui fondamento puramente discorsivo appunto va a fondo, diventando così manufatti retorici e culturali gene- ratori di identità. Forse allora è opportuno richiamare qui le riflessioni sul rapporto violenza e costruzioni identitarie studiate da Arjun Appadurai che hanno come fuoco appunto i conflitti etnici nei quali le certezze delle identità ataviche e le incer- tezze delle crisi contemporanee entrano in duro contrasto. Ciò permette di definire una sintassi simbolica dove i riti crudeli dei massacri, degli eccidi, funzionano come “forme brutali di rivelazione del corpo, forme di vivisezione, tecniche per esplorare, demarcare, classificare, immagazzinare i corpi di quanti possono essere i nemici ‘etnici’” (Dei 2005, p. 44)1e la violenza del massacro pertanto è già in sé una tecni- ca per “immaginare la comunità”, una narrativa identitaria, negli etnocidi, che ripe- te sempre differenzialmente, attraverso performance, rituali che agiscono sui corpi. In questo senso il riuso di un modello come quello della Shoah per evocare altri crimini, massacri o traumi se da una parte mostra la sua universalità di valore, dal- l’altra introduce problemi diremmo quasi di “citazione”. Non si tratta di sostanzia- re l’ostracismo alla traducibilità di Auschiwtz come paradigma genocitario, ma più in generale di domandarsi se la rappresentazione del trauma implica comunque una riflessione sulla citabilità, sulla intertestualità tragica dell’indicibile. Almeno dalla Iliade in poi.

In un certo senso, e l’allusione allo sterminio come orrore estremo del secolo tra- scorso ne è l’indice, il problema sembra delinearsi più come una aporia che come uno sbocco dall’impasse critico con cui ci si scontra quando si assume la rappresen- tazione di eventi traumatici. Essi infatti hanno come caratteristica quella della impossibile letteralità, di una tautologia che sarà sempre giocoforza parziale, dato NAZIONALISMI E IDENTITÀ. MAUDSLEY E I CRIMINI DELLE NAZIONALITÀ 

suo tratto fondante. L’evento traumatico sia pure estremo in sé non è sufficiente, esso deve trasformarsi, trasporsi nel male. Il problema dunque slitta dal piano della storia a quello più complesso e meno maneggevole – ma al centro di tutti gli inter- venti di seguito riuniti – della rappresentazione, dalla scena del trauma a quella della sua elaborazione, dal conflitto a quello del post conflitto.

Lo spostamento è decisivo perché si concentra sui modi in cui l’esperienza del trauma è simbolizzata quindi elaborata, un piano perciò non sincronico rispetto alla scena che lo produce, ma decisamente asincrono, ulteriore. La elaborazione in que- sto contesto a posteriori si arricchisce di numerosi spunti. Non solo il trauma viene reso attraverso i suoi modi di elaborazione, attraverso l’approfondimento psicanali- tico di un lavoro, malinconico o luttuoso. Ma assumere il trauma già come rappre- sentazione o come potenza di rappresentazione significa soprattutto convocare una molteplicità di discipline chiamate soprattutto a leggere i lembi in assoluto inaffer- rabili della rappresentazione. Si potrebbe dire allora che il trauma si riproduce fan- tasmaticamente, cioè come un resto non elaborato che non ha ancora trovato un luogo, una sepoltura definitiva e dunque tale mancata rielaborazione genera il rischio dei suoi continui ritorni (e la figura del fantasma ha qui un preciso valore anche sul terreno psicanalitico).

Da questo punto di vista, il recente progetto di studio sulle Post-Conflict Cultures sorto presso la Università di Nottingham che mantiene attivo un centro studi sul tema anche in raccordo stretto con la Università di Bologna e ha proprio in Bernard McGuirk un suo esponente di primo piano, come si evidenzia anche dallo studio qui presentato, pone già in termini nominalistici la specificità dell’oggetto. In effetti, la con- nessione tra conflitto e cultura è fertile proprio perché le dimensioni del trauma, alme- no nel contesto della modernità, prodotte dal conflitto lacerano il tessuto connettivo della cultura, creando fratture profonde sul piano delle identità o delle narrative comu- nitarie (cfr. Demaria, Wright 2006, p. 5). Forse, si potrebbe osservare, il post conflitto non è il luogo ideale per cogliere, dalle rovine ancora vive, il senso storico della violen- za nella sua totalità. Senz’altro, però, il post conflitto è un territorio dalle frontiere epi- stemologiche decisamente porose dove l’indicibile della esperienza traumatica può tro- vare una via d’accesso alla rappresentazione, quando ancora le ferite memoriali del dolore, della perdita, del trauma, sono ancora aperte e nient’affatto rimarginate.

Per questo l’eterogeneo ammasso di fatti e sensibilità, di eventi e fantasmi, tra un livello oggettivo e un livello di percezione soggettiva della violenza che ne rende del tutto instabile la categorizzazione imbastisce una rappresentazione possibile dell’ir- rapresentabile, con gli stessi limiti e le stesse facoltà, anche sul piano della soggetti- vità etica, che caratterizzano il dispositivo in fondo tragico della testimonianza. Una riconfigurazione questa, nel contesto avido di storia ma soprattutto traboccante di memoria individuale del secolo degli estremi, che mostra come soltanto su un ver- sante nitidamente dialogico, plurale, transdisciplinare, che guarda al conflitto dalle sue pieghe superstiti e con uno sguardo che spazia in diversi campi e saperi, proprio dal post conflitto può derivare un contributo a una storicizzazione forse al momen- to ancora impossibile ma che trova nei materiali magmatici delle rappresentazioni i registri residuali di una memoria sempre meno intransitiva, affondata come è nella dimensione pervasiva del ricordo personale, e invece sempre più prossima a diven- tare memoria pubblica.

Di questi smascheramenti si occupano proprio i lavori qui raccolti e che attra- verso una analisi lucida sulla mediazione delle rappresentazioni culturali riescono tuttavia in un esercizio difficile se non quasi impossibile e, se pensiamo a Medusa, anche piuttosto pericoloso: guardare in modo più diretto negli occhi l’orrore e il male. Senza rimanerne annichiliti.

1Cfr. sulla questione la bella lettura di Fabio Dei (2005, pp. 40-44) dedicata alla riflessione che Appadurai svi-

luppa, in Modernità in polvere (1996) e in alcuni saggi successivi, sulla violenza etnica.

2Si veda al riguardo il lemma “materialismo storico (historischer Materalismus)” dei curatori Gianfranco Bonola

e Michele Ranchetti della sopra citata opera di Benjamin che a proposito di questa interazione complessa tra pre- sente e passato richiamano un appunto dei Materiali dal “Passagen-Werk” (Benjamin 1997, p. 182).

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che, per la loro intensità non circoscrivibile appieno, potranno trovare una via di fuga comunicativa solo di ordine figurale.

In effetti, e qui si affaccia uno snodo concettuale per il quale Walter Benjamin offre spunti decisivi non tanto risolutivi – finalità, questa, del resto impossibile – ma di riflessione complessa che espone la lama di una contraddizione tagliente nelle tesi e nei materiali di contorno, diretti o indiretti, di Sul concetto di storia. Nella tesi XIV infatti si riferisce alla citazione che della antica Roma veniva fatta

dalla Rivoluzione francese, alla stregua di come la moda cita, con un “balzo di tigre” nel passato, abbigliamenti di altri tempi proprio perché il tempo storico non è omogeneo e vuoto ma riempito di adesso (Jetztzeit) (cfr. Benjamin 1997, pp. 45- 47). Lo stesso filosofo, in altri luoghi, assume sul problema una posizione non riducibile a quella espressa nella tesi, quando osserva che ciò che rende citabile il passato per lo storico materialista è la sua condizione di essere trascorso, di essere definitivamente morto, finito2.

Dunque, è all’interno di questo arco di oscillazione tra citabilità di un passato aperto e chiuso non riducibile a un oggetto statico e sintetizzabile – ma del resto l’e- sempio dello sterminio pone in termini molto prossimi una analoga questione – che si sviluppa il problema della gemmazione di narrative del trauma che hanno nei loro palinsesti altri eventi traumatici in un qualche modo fondatori e che per citazione vengono attualizzati.

E forse è proprio in questo margine che si può individuare il cuore comune dei saggi presentati in questa sezione in cui i conflitti sono declinati attraverso le rap- presentazioni collettive che mettono in gioco o, per meglio, dire a nudo, le immagi- nazioni nazionali. Sono esercizi minuziosi di smontaggio dei pericolosi dispositivi di affermazione identitaria e ideologica che hanno fatto e fanno da placenta a una teo- ria ancora inconclusa di orrori della storia commessi in nome dell’alibi in fondo in parte illuministico del “bene sovrano delle nazione”. La condizione in cui ci trovia- mo allora è quella tragica di doverli citare ma di non sapere pienamente se e come tale citazione sia possibile, almeno in termini conoscitivi del passato.

Da questo punto di vista, una delle critiche più corrosive a questo ingranaggio invisibile e deleterio dei nazionalismi che mi piace ricordare è quella dello scrittore brasiliano Euclides da Cunha che nel 1902 pubblica un’opera monumentale e inclas- sificabile, Os Sertões, dedicata allo sterminio, ultimato cinque anni prima nell’entro- terra desolato dello Stato della Bahia, di una comunità messianica di poveri insorti da parte dell’esercito repubblicano, in nome del progresso e della civiltà. L’opera, che mostra l’impossibilità di illustrare in modo scientifico il massacro e si sforza di riscriverne la storia dal punto di vista della subalternità del vinto massacrato, si con- clude con un aforisma, posto praticamente all’esterno, in un supplemento dell’ope- ra, che suona come una sentenza di condanna inappellabile alla falsa razionalità delle narrative di nazione: “Ma ancora non esiste un Maudsley per le follie ed i delitti delle nazioni…” (da Cunha 1902, p. 438). L’allusione all’opera dello psichiatra sociale inglese Henry Maudsley, che si era occupato dei crimini in rapporto alla follia, esi- bisce come alla apparenza di razionalità con cui si ammantano i crimini commessi in nome delle identità nazionali sono sottese in realtà, sia pure in maniera invisibile almeno immediatamente, le forme di insania che il potere sempre cerca di occultare o almeno di attenuare.