• Non ci sono risultati.

Bisogna essere in due per ballare il tango

Fig. 1. Alan Hardman, «Socialism Today»: “– 1979 … Oh,

generale, lei balla divinamente. Mi dica, di quanti cacciatorpe- diniere avrebbe bisogno? – 1981 … Conduce così bene. Com’è messo a carri armati e… – Togliti dai piedi, sporco dittatore!”.]

Nell’aprile del 2007, sarà passato un quarto di secolo da quando l’Argentina e il Regno Unito entrarono in uno “stato di conflitto” noto alle parti in causa come “La Guerra de Malvinas” o “The Falklands War” (“La guerra delle Falklands”). Se, come recita il vecchio adagio “bisogna essere in due per ballare il tango”, è anche vero che le coreografie del fallimento diplomatico e la dispendiosa entrata nel teatro del con- flitto sono costruite su strutture infinitamente più complesse dei cliché del pensiero binario tipico delle nazioni e delle identità in conflitto con se stesse non meno che con l’altro. Nell’affrontare le “strategie di rappresentazione” di ciò che sir Lawrence Freedman, nella Official History of the Falklands Campaign (22000055) ha descritto come “l’ultima guerra dell’era post-imperiale e la prima dell’era post-guerra fredda” (p. 747), è illuminante partire dall’analisi di alcune delle vignette di satira politica che hanno cavalcato la tigre del nazionalismo e dell’identità sull’uno e sull’altro versante. Si vedrà come la “paura dell’altro” e la calcolata “costruzione” del nemico sottenda- no la stereotipizzazione su cui si fondano tutti i generi di rappresentazione della guer- ra, dalle vignette della cultura popolare alle più complesse tragedie, teatrali o narrati- ve. Verranno quindi analizzati i testi di due autori argentini: Gurka (11998888), un atto unico di Vicente Zito Lema, e il racconto di Federico Andahazi El dolmen (1999), allo scopo di rendere esplicite le ossessioni radicate rielaborate dalle opere stesse in un testo di fantasia, e oltre i confini nazionali, dal momento che le conseguenze dell’im- presa bellica continuano a pesare sulla psiche e l’immaginario culturale delle identità anche nel periodo di de-costruzione e ri-costruzione.

I primi, timidi, approcci di un corteggiamento impersonale, ma che difficilmente si può considerare anonimo, vengono compiuti nella scelta dei partner, quando la Perfida Albione non si fa scrupoli ad avallare un traffico d’armi con la dittatura argentina. Siamo nel 1979, l’anno che segna l’ascesa al potere di Margaret Thatcher e l’inizio di una politica estera che avrebbe portato, nel 1982, al primo coinvolgi- mento ufficiale in America Latina nel conflitto con l’Argentina ma che, per effetto

Sullo sfondo della Union Jack e delle aggressive rivendicazioni delle due sovra- nità contendenti, l’invocazione di aiuto da parte delle piccole “isole glaciali”, come Jorge Luis Borges avrebbe definito il luogo di articolazione di quella disputa tra due calvi che si contendono un pettine. Il racconto per bambini di Briggs, dal taglio moraleggiante, comincia con il classico incipit fiabesco: “C’era una volta, ai confini del mondo, un triste isolotto…”. Il passaggio dal patetico dramma pastorale che narra la storia di un angolo dimenticato del mondo, dove miseri contadini contano le loro pecore, al mancato dramma eroico in cui si sarebbero perse più di novecen- to vite in soli settantaquattro giorni di un conflitto preferito a un accordo ratificato dalle Nazioni Unite, l’avrebbe trasformato nell’epica per adulti di una rappresenta- zione caricaturale della guerra. Ma non anticipiamo le conclusioni. Prima di essere sconfitto, il nemico deve essere “alterizzato”: umiliato, ridicolizzato, reso abietto. E quale sistema migliore se non quello di dispiegarne la narrazione nei colori e nelle forme della bandiera nazionale, in questo caso, nella seducente versione militarizza- ta della Union Jack? Ma attenzione all’errore (deliberato?)…

Fig. 4. Dieci… nove… otto… sette… sei… Franklin, «The Sun»,

30 aprile 1982.]

Se gli argentini, in tempo di pace, ballano il tango, allora, secondo un altro stereoti- po culturale, “i messicani ballano sui cappelli”1. Viva la (in)diferencia. Mentre la poten- za delle armi di Albione assedia minacciosa l’avversario latino-americanizzato, le diffe- renze nazionali e culturali crollano mentre la marina inglese minaccia una Dego indif- ferenziata, ereditata da un altro secolo e trasferita in un altro continente. L’immagine della Gran Bretagna, che si è affermata come “Dominatrice dei Mari” sin dai tempi della Invencible Armada spagnola nel 1588, è ormai indissolubilmente unita a quella di potente nazione guerriera. Il latino o il latino-americano battuto – non fa differenza nella vignetta di Franklin – ricoprirà sempre il ruolo e l’immagine di oggetto-soggetto all’ineluttabile destino di tutti i potenziali invasori, occupanti illegali e usurpatori.

In quale altro modo può essere ritratto lo stereotipo del nemico, se non sminui- to? Al culmine del conflitto, una ridda di immagini denigratorie prorompe nella vignetta di Waite.

Fig. 5. “… ed ecco il nostro primo risultato della Coppa del Mondo… Argentina 79 Belgio 0”, Keith Waite, «Daily Mirror», 15 giugno 1982.]

NAZIONALISMI E IDENTITÀ 

del derivante trionfalismo, avrebbe finito per riflettersi, vent’anni dopo, nella prote- zione offerta al dittatore cileno, il generale Augusto Pinochet, a dispetto del manda- to di arresto internazionale per crimini contro l’umanità spiccato dal giudice spa- gnolo Baltasar Garzón nel 1999. A quel punto si sarebbe passati a un più elegante amoreggiamento intorno alla tipica cerimonia inglese del tè.

Nel 1981, i segnali diplomatici mandati da Londra a Buenos Aires erano ormai chiari. Il traffico d’armi sarebbe proseguito (e pazienza se i carri armati sarebbero stati usati nel contenzioso sul canale di Beagle contro il vecchio alleato britannico, il Cile: dopo tutto, in guerra e in amore, tutto è lecito). E sarebbe stata intrapresa un’altra transazione politico-economica: quella della ratifica di un accordo di leasing tra le sovranità della Gran Bretagna e dell’Argentina sulle Falklands-Malvinas, con buona pace dei 1.800 abitanti delle isole.

Tuttavia, è sufficiente un passo falso nel 1982 – l’invasione del 2 aprile precipita- ta dalla sollevazione civile del popolo argentino oppresso e dalla giunta militare al governo in preda al panico – perché il linguaggio della seduzione diplomatica sia abbandonato per sempre, mentre la neo Boadicea della Britannia strepita: “Togliti dai piedi, sporco dittatore”. Questa è la visione caustica di Alan Hardman circa il rapporto surriscaldato e potenzialmente esplosivo tra interessi sovrani, stretto da audaci avventurismi alla Thatcher-Galtieri.

Fig. 2. Gardel, Perón e Galtieri, Sabat, «Clarín», 4 aprile 1982.]

Per quanto passeggero, il momentaneo trionfalismo può inneggiare e innalzare nuovi dei al pantheon e l’illustre vignetta di Sabat dell’aprile 1982 annovera il gene- rale Leopoldo Galtieri in olimpica compagnia di Carlos Gardel e Juan Domingo Péron, idoli, rispettivamente, del tango e della nazione. Ultimo in ordine temporale dei leader post-1976 ad essere acclamati dal populismo al balcone della Casa Rosada, il generale Galtieri sogghigna compiaciuto per il favore della sorte che lo ha visto assurgere improvvisamente e piuttosto inaspettatamente a icona.

A questo punto, si sono create tutte le premesse per l’irrompere sulla scena inter- nazionale dei protagonisti che, nel 1984, si trasformeranno nella versione della cop- pia di Punch e Judy secondo Raymond Briggs.

Fig. 3. Il generale straniero mezzacalzetta e la vecchia Signora di ferro

(Briggs 1984) “Mia! Mia! Aiuto!”.]

ha bisogno di te”. Il pastiche di questa bandiera della sconvenienza contiene l’affer- mazione implicita: “Il nostro paese ti educa alla causa della convenienza”.

Fig. 7. Medaglia delle Falklands, Peter Kennard, 1983]

L’onore conferisce medaglie, il disonore fa scrivere “Colpito!” sulla prima pagi- na del «Sun» del 4 maggio 1982, in nome di un disprezzo populista per quei 321 che persero la vita a bordo dell’incrociatore General Belgrano… prima del cui affondamento non un solo soldato britannico era rimasto ucciso. L’escalation del conflitto rappresenta per Kennard una svalutazione della decorazione al valor militare.

Nel periodo immediatamente successivo al conflitto, anche in Argentina comin- ciò ad apparire una sfrenata e, dopo lunghi anni di repressione, incensurata carica- turalizzazione dell’imperversante militarismo tronfio e ostentato. In seguito alla caduta dello screditato regime, la rivista «Humor» poté pubblicare una vignetta di Horatius che rappresenta una sfilata che è allo stesso tempo di sconfitta e di vitto- ria, nella medesima cornice e a colpo d’occhio (o a uno sguardo attento):

Fig. 8. Gran parata. Presidenti de facto, Horatius, «Humor», 1982: “– Ehi!

Dove state guardando? Io sono l’ultimo.”.]

Sette alti ufficiali in divisa azzurrina costellata di medaglie e fasciati da una ban- doliera bianca sfilano sotto un cartello che recita: Gran Desfile. Presidentes de facto. I loro volti riconoscibilissimi li indicano come i leader delle varie giunte che hanno rivestito le “funzioni” (ben lungi dall’essere de iure) di capo di Stato. Mentre sfila- no da destra a sinistra al passo dell’oca piuttosto accentuato ma con espressione mesta, la folla accalcata in primo piano ai lati della strada dirige lo sguardo da sini- stra a destra, senz’altro in attesa di veder sfilare altre autorità in uniforme al segui- to di Onganía (1966-70), Lami Dozo (giunta 1976-81; aviazione), Massera (giunta

NAZIONALISMI E IDENTITÀ 

“Johnny il Gaucho” è ritratto in un gesto di esultanza per la propaganda menzo- gnera diffusa dalla radiolina. Nuvoloni neri incombono all’orizzonte e le prime gocce di pioggia hanno già cominciato a smorzare gli entusiasmi; persino il sole al tramonto si incupisce alla vista delle bandiere inglesi che sventolano in lontananza… Nel frattempo, l’esercito nemico, sudicio, sciatto, male armato e perennemente impreparato, indisciplinato, irresponsabile e illuso balla, spara in aria, beve in servi- zio, piroetta scomposto, abbandonandosi persino a un lascivo tango omoerotico con tanto di elmetti nazisti, noncurante delle macerie e dello sfascio dell’imminente sconfitta.

La chiave di lettura della vignetta è affidata alla didascalia “Argentina 79 – Belgio 0”. L’immagine dell’Argentina è soprattutto quella di un paese dittatoriale e sogna- tore, che si crogiola in una realtà illusoria, con la mania del calcio, del tango e del nazionalismo. I realisti di casa, invece, in nome di un solido pragmatismo domesti- co, si sono mossi per necessità, provocati, e sono pronti a tornare a casa, come sem- pre, vittoriosi, eroici e a testa alta, con niente da nascondere. Ma molte sono le scon- fitte celate, quando non cinicamente occultate, dietro a una vittoria.

Il trionfale ritorno in patria delle truppe britanniche fu celebrato dalla stampa, sia quella popolare sia quella più autorevole. Non tutti, però, cercarono di nascon- dere gli orrori e le perdite, da una parte e dall’altra, che sfigurarono la parata vitto- riosa dell’ottobre 1982; non tanto la riluttanza del primo ministro a mostrare i feriti e nemmeno il suo vano tentativo di impedire all’arcivescovo di Canterbury di pre- gare per i morti e i feriti da entrambe le parti. Più gravi e durature furono le conse- guenze del conflitto note come PTSD (Post Traumatic Stress Disorder), Disturbi

postraumatici da stress, che, nel corso di un quarto di secolo, avrebbero portato a una percentuale di suicidi, su entrambi i versanti, superiore alle morti registrate sul campo di battaglia del conflitto del 19822.

Passerò tra un attimo a esaminare più approfonditamente le psicologie traumati- che della guerra nella letteratura nella quale si sono successivamente riflesse. Intanto, la caricatura dell’emblema e dell’insegna dell’orgoglio nazionale si palesa nel fotomontaggio di Michael Peel3.

Fig. 6. Gioite, Gioite II, Michael Peel, 1982, “I familiari saranno informati”.

I familiari “sono stati informati” è la formula rituale; il verbo al futuro prean- nuncia una dissimulazione e asserisce una riserva provvisoria. La verità avvolta in un sacco di plastica nera trasforma in cadavere la cittadinanza dello Stato sovrano. La governamentalità prevale sulla consanguineità e i rituali tribali che hanno costituito la nazione dalla nascita fino alla morte. Tuttavia, la didascalia è decostruita dallo scontro tra le parole e l’immagine. Le asce della Union Jack sono sostituite dagli armamenti, dalle bende e, non ultimo, dal dito puntato che si richiama all’iconogra- fia della prima guerra mondiale e all’ingiunzione del generale Haigh: “Il tuo paese

Fig. 10. The Known World of Broadcast News.

Le Malvinas sono al loro posto, mentre le Falklands sono un’invenzione destinata a occupare uno spazio e un ruolo preponderante nell’immaginario atlantizzato di una nazione ancora alle prese con la propria realtà di potenza post-imperiale. Dove c’era l’impero, ora regna l’immaginazione: è l’epigrafe all’ultimo afflato di colonialismo.

Dall’epigrafe all’epitaffio per chiudere questo breve excursus nelle rappresenta- zioni delle Falklands-Malvinas nella tradizione vignettistica. L’ultima parola di Austin sulla pietra tombale di Leopoldo Galtieri, più che commentare l’esistenza di un individuo caduto in disgrazia, è un rispettoso tributo ai trentamila desaparecidos – spesso senza nome e senza tomba ma non meno vivi nel ricordo – degli anni del cosiddetto Proceso de Reorganización Nacional, la “sporca guerra” argentina.

Fig. 11. «The Guardian»,

13 gennaio 2003.

NAZIONALISMI E IDENTITÀ 

1976-81; marina), Videla (giunta 1976-81; esercito), Viola (1981), Galtieri (1982) e Bignone (1983). Ma l’ultimo degli alti papaveri, Bignone, già fuori luogo con un paio di pantofole ai piedi al posto degli stivaloni dotati di speroni, gesticola facen- do proletticamente mostra di una disciplina irreggimentata. Con la mano sinistra si indica i piedi mentre si porta la destra alla bocca, in un gesto di saluto ossequioso: “Ehi! Dove state guardando? Io sono l’ultimo”. Un’occhiata al suo copricapo rive- la che la cima del suo berretto mostra solo una vaga somiglianza alla figura del pin- guino – emblema dell’ossessione delle Malvinas per la continuità generazionale – che, in maniera più o meno pronunciata, corona le espressioni corrucciate dei suoi predecessori.

La figura spogliata di autorità della vignetta di Horatius sta a ricordare la neces- sità di uno sguardo alternativo. La caricatura tenderà in genere a evidenziare lo ste- reotipo di ciò che è facilmente riconoscibile ma sarà ancora più efficace, in quanto strumento di un potenziale cambiamento, se si soffermerà sull’elemento di diver- sità. La somiglianza attira l’attenzione, la differenza richiede attenzione. Dieci anni dopo, la consapevolezza che gli slogan hanno ormai una scarsa presa su coloro che sono stati da poco destituiti/istituiti sembra lasciare perplessi i cittadini argentini subito abituati allo slogan “Las islas son argentinas” e riluttanti a riconoscere l’im- posizione sulle isole, dal 1982, del cartello di zona vietata, e del significato che ciò ha sull’orgoglio nazionale.

Fig. 9. senza firma, Biblioteca La Nación, 1992: “– Crede davvero che sia il

caso di mettere questo cartello? Insomma! Siamo o non siamo argentini?”.

“Vivan” suona come un imperativo rassegnato, un cliché nel linguaggio vuoto delle speranze e delle aspirazioni frustrate. Le note di un nazionalismo represso rie- cheggiano ancora nella retorica puramente gestuale di una voce tutt’altro che sovra- na che grida nella distesa desolata del cielo dell’Atlantico meridionale. A chi vole- te darla a bere?

Anche in Gran Bretagna la retorica, ufficiale o caricaturale, aveva prodotto nel corso di dieci anni una nuova mappatura mondiale dell’informazione radiotelevisi- va, nel libro del 1989 di Roger Wallis e Stanley Baran, The Known World of Broadcast News, un’analisi della rappresentazione mediatica dell’immaginario politico e cultu- rale degli anni Ottanta. La spassosa cartografia della neo-Weltanschaung britannica che appare sulla copertina del libro riflette più di una convinzione speciosa. La nostalgica consapevolezza anglocentrica e post-coloniale dell’importanza dell’infor- mazione inquadra la politica dei blocchi e le macerie dei muri ideologici crollati o ancora in piedi. Tra le minacce percepite dei pregiudizi ereditati di un mondo sin troppo sconosciuto – con Bruxelles epicentro esplosivo di una potenziale perdita di sovranità – ci sono le isole fluttuanti del pericolo reale e virtuale.

hanno sangue (…). I Gurka! I dottori! Le infermiere! (…) I miei nemici! (…) Vogliono pisciarmi addosso! (p. 21)

La metafora della nazione-ospedale si può estendere alla sostituzione da parte del paziente degli squadroni della morte della dittatura con l’altro malefico di Delirium Teatro…

I Gurka hanno enormi bocche sdentate (…). Gurka! Gurka! Non ho paura di loro. Affrontatemi di fronte se siete dei veri macho! Vi aspetto, Gurka! (…) Ho combattuto con un Gurka (…) Era vestito da travestito. Gli ho inferto un colpo mortale alla nuca. Si è addormentato, come un cane. Non ha nemmeno gridato (…). Ho visto un ufficiale a letto con un Gurka (…). Volevano che li scopassi ma io mi sono rifiutato. Non voglio sco- pare con i Gurka, tenente! Non voglio che mi squarcino il culo! (p. 23)

La dilagante paura primordiale della guerra come sodomizzazione dell’io si può riscontrare nei veri motteggi dei combattenti in molteplici rappresentazioni lettera- rie del conflitto. L’altro biondo riappare come minaccia suprema e immediata per il soggetto, poco importa da quale parte provenga… In ogni caso è sempre dalla parte dell’Altro. Non è più una “voce che parla” a spronare il soggetto all’azione, ma sono le molteplici voci che provengono da un ordine sociale che ha optato apertamente per la malattia.

Un ufficiale è stato ucciso… per opera mia… Sì, mia (…). So perfettamente che cos’è l’a- more… L’ho infilzato con la mia baionetta, da parte a parte… (p. 24)

L’alibi, immediatamente rivendicato, si reincarnerà in tutte le spiegazioni corren- ti, le scuse, gli stereotipi, le autorità, le paternità, le maternità, le teologie, i calvari, i panottici e le iconografie abiette. Tutti “gurkizzati”.

È stato un inganno. Un grosso inganno. Dormivo nella grotta e lui mi ha svegliato con una secchiata d’acqua. Era gelida (…). Sono saltato su e gli ho gridato: Gurka! Gurka! (…) Ho afferrato la baionetta… Ho sentito il muggito del vento, quel vento freddo, come acqua, asciutto… L’ho ucciso (ib.).

Con i Gurka…

Un’altra “voce che parla” deve prevedere un pre-scriptum sulle Falkland e con- trapporre temporaneamente il delirio del paziente a proposito dei Gurka al ruolo, più orchestrato che interpretato direttamente, dei Gurka reali nel dramma prece- dente e successivo alle Malvinas. Infatti, le memorie saranno trasformate in memen- to mori, grazie alle manipolazioni dei mass media. La rappresentazione dei fatti del coinvolgimento dei Gurka nel conflitto proviene dalla voce dello storico “ufficiale” del conflitto, dalla parte del Regno Unito, sir Lawrence Freedman:

Ci sarebbe da aspettarsi che l’impiego delle truppe nepalesi in una simile impresa britan- nica susciti qualche perplessità. Secondo [John] Nott (…): Abbiamo seri problemi a tro-

NAZIONALISMI E IDENTITÀ 

Uomo e superuomo… Così parlo Miguel: “Gurka!”

Un classico recital con una piccola differenza: un dramma schizofrenico. Nelle chiose all’antologia Delirium Teatro, Vicente Zito Lema scrive di una delle sue pièce, Gurka, rappresentata per la prima volta nel 1988:

Conobbi Miguel, ex combattente nelle Malvinas, il protagonista di Gurka, quando era studente di un seminario di comunicazione che tenni all’ospedale di Borda (…). Miguel vive sempre nello stesso ospedale psichiatrico, dove fu ricoverato nel 1982 (Zito Lema 1999, p. 11).

Se certi elementi del monologo drammatico sono riconoscibili o riconducibili ai Disturbi postraumatici da stress (PSTD), la, o le paure principali espresse in Gurka

sono ravvisabili altrove. Nella sua creazione di un particolare demone, una rappre- sentazione del nemico assoluto, l’altro mostrificato, il non-io atavico, l’ex combat- tente internato tradisce i sintomi di una psicosi che deriva dalla sua confusione della sfera simbolica o metaforica con il letterale o reale. Nondimeno, il nemico assume, in maniera sistematica e insistente, le sembianze del temutissimo altro. Loro sono i Gurka e io ho il dovere di resistere eroicamente.

Non riesco a pensare a nient’altro. Ho combattuto nelle Isole, sono un eroe. Nessuno me lo perdona. I miei stessi compatrioti mi hanno spedito in ospedale e i Gurka giurano di avermi ucciso (…). Di notte si nascondono nel seminterrato dell’ospedale. Di giorno, si travestono, persino da dottori o infermiere… Ma io riesco lo stesso a riconoscerli: puz- zano come cadaveri ambulanti, come vomito. Non ho paura di loro! Sono in stato di mas- sima allerta! Li sto aspettando! (…) Sì, i Gurka, con i loro coltelli. Ci hanno impalati, ci hanno squarciato il culo con i loro coltelli e poi ci hanno stuprato (pp. 16-17).

Primordialmente, è panico sessuale, paura di un’invasione del territorio sovrano dell’io:

Non avete mai visto la morte ambulante? I Gurka erano bestioni, con tute termiche, col- telli affilati, cannocchiali a infrarossi e fucili laser che ti ustionavano il corpo e qualsiasi