Nell’immediato dopoguerra la posizione strategica rispetto al Sud-Est asiatico, e il debito di riconoscenza che la vincolava agli USA, significarono per l’Australia un con-
tinuo coinvolgimento politico e militare. In quegli anni la politica estera australiana era guidata dalla Domino theory, cioè dall’idea che i paesi del Sud-Est asiatico capi- tolassero a uno a uno sotto i colpi dell’avanzata comunista, e che la caduta di ogni pedina comportasse quella delle altre a lei vicine. Il “pericolo giallo” si andava som- mando al “pericolo rosso”, e questa minaccia spingeva i governi australiani alla ricer- ca del coinvolgimento degli USAnel Sud-Est asiatico e alla positiva accettazione di un
proprio coinvolgimento in tutti i casi che l’alleato americano ritenesse opportuni. Fu questo timore a determinare, nel maggio del 1962, la decisione di inviare un gruppo di istruttori e consiglieri militari in appoggio alle forze armate del Vietnam del Sud. L’opposizione, guidata dal laburista e cattolico Arthur Calwell, si dichiarò contraria a questa iniziativa, ma, sia per timore del comunismo dilagante, sia perché il primo coinvolgimento non doveva riguardare che pochi volontari, l’opinione pub- blica non si mostrò ostile a questa nuova impresa. Non ci si aspettava certo che quel- l’esperienza durasse quasi dieci anni e coinvolgesse 50.000 soldati australiani.
Infatti, nell’aprile 1965, Robert Gordon Menzies, il primo ministro australiano, annunciò che un intero battaglione sarebbe stato inviato in Vietnam per assicurare un maggiore apporto alla causa anti-comunista. Un annuncio che non riguardava soltanto i volontari o i soldati professionisti, ma tutti i giovani abili del paese, per- ché, a partire dal 5 novembre dell’anno precedente, era stato reintrodotto il servizio militare obbligatorio.
Una vera e propria opposizione di massa a questo provvedimento, o comunque un’ampia ostilità nei suoi confronti fu, però, tutt’altro che immediata. Nel maggio del 1967, un sondaggio condotto dalla Morgan Gallup confermava come il 62 per cento degli australiani fosse a favore dell’intervento armato e solo il 24 per cento dichiaratamente schierato per un ritiro delle truppe. Un appoggio popolare, questo, che si tradusse presto in una maggior presenza di truppe australiane in Vietnam, ma che, nel giro di due anni, si sarebbe ridotto fino a diventare minoranza del paese. Il medesimo sondaggio, effettuato nell’agosto del 1969 dalla medesima società, avreb- be infatti ribaltato l’esito precedente. Il 55 per cento si dichiarava favorevole al riti- ro, mentre la quota di chi appoggiava il proseguimento delle ostilità scendeva al 40 per cento. Cosa era avvenuto nel volgere di un biennio, per modificare così radical- mente la coscienza australiana?
Per rispondere a questo cruciale interrogativo sarà bene tentare di analizzare una nuova tipologia sociale, precedentemente assai esigua, cioè quella degli studenti uni- ricana nel suo insieme e, dunque, all’azione storico-politica. Sarà la terza generazio-
ne a innescare il processo di personalizzazione del dramma dei japanese-americans e, dunque, il processo di riconoscimento del trauma culturale; sarà la generazione dei sansei, che prende coscienza e matura negli anni in cui il termine “olocausto” è diventata metafora ponte per eventi traumatici diversi, a far affiorare il ricordo e a chiedere giustizia, “riparazione”.
Ed è proprio nel concetto di riparazione, di redress, compensazione del danno subito a causa dell’evento traumatico che risiede forse la vera novità legata alla rifles- sione individuale e collettiva che, nel secondo Novecento, caratterizza la presa di coscienza dei grandi traumi culturali, anche attraverso le fonti letterarie. Come ha ricordato la teorica del diritto Martha Minow:
Un secolo contrassegnato da massacri e torture umane non è, tristemente, un secolo così unico nella storia umana. Forse ciò che contraddistingue questa era più dei genocidi e dei regimi di tortura, non così inusuali, è l’invenzione di nuove e distinte forme legali di risposta (in Alexander 2003, p. 101).
Si pone dunque, collettivamente, la questione di trovare una risposta civile e giu- sta ai drammi della Storia causati dalla sospensione dei diritti umani e conseguenza dell’odio etnico-razziale; i concetti di colpa, di ingiustizia, di discriminazione, di responsabilità si accompagnano così a quelli di verità, di giustizia, compensazione. Su questo, diverse sono le posizioni e le soluzioni proposte per arrivare ad attuare una forma di riconciliazione che riequilibri sia la sofferenza dei singoli e della comu- nità che ha vissuto il dramma in prima persona, che quella della comunità che ammette il dramma culturale e, dunque, l’esistenza di conflitti al proprio interno. In questo senso, l’idea laica e civile di giustizia è certamente un obiettivo da perseguire e da incoraggiare; eppure viene il sospetto che ogni “riparazione” porti a un equili- brio solo temporaneo, per quanto auspicabile, poiché nel tempo, le memorie si riconfigurano alla luce delle dinamiche che rimodellano costantemente l’identità col- lettiva e che modificano i rapporti tra ciò che si dimentica e ciò che diventa impor- tante ricordare.
1Ringrazio Gilberta Golinelli per aver discusso con me l’interessante volume di Jeffrey C. Alexander, La costru-
zione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre (2003), fondamentale per la preparazione di questo intervento; rin-
grazio Matteo Bandini per avere condiviso con me i materiali sui campi di internamento per i japanese-americans
raccolti durante la preparazione della sua tesi di laurea, per il reperimento delle fonti bibliografiche e fotografiche e per le conversazioni intelligenti e preziose.
ebbe una artistica. L’influenza esercitata da questa partecipazione non modificava solo il modo di porsi della figura dell’intellettuale, ma implicava anche l’irruzione del politico nella dimensione artistica e dell’arte nella sfera politica. Come affermò uno dei poeti più attivi in questo scenario, Kris Hemensley: “La parola ‘Vietnam’ diventò una specie di simbolo per tutto ciò che appariva brutto, ingiusto e decrepito nel mondo. L’urgenza di una nuova prospettiva era avvertita da molti e in ogni possibi- le applicazione dal socio-politico al letterario” (Langley, a cura, 1992, p. 148).
Se le dimostrazioni pubbliche più notevoli per quanto riguardava il numero di manifestanti erano senza dubbio le “Vietnam Moratorium”, l’appoggio letterario e artistico più forte a questo tipo di battaglia furono gli “Arts Vietnam”, una serie di manifestazioni che andavano dall’installazione al reading, il primo dei quali si tenne a Sydney, il 6 ottobre del 1968.
L’esito sociale più rilevante scaturito dalla guerra in Vietnam, una guerra nata per arrestare l’avanzata comunista nel Sud-Est asiatico, fu così di assurgere a potente immagine di cambiamento e rigenerazione. Il Vietnam era un piccolo Stato postco- loniale che aveva sfidato due superpotenze, una delle quali, la Francia, era già stata vinta, mentre la seconda, la più importante forza politica ed economica del pianeta, si trovava allora in pessime acque. La forza emblematica di questo esito inaspettato non poteva sfuggire ai giovani australiani, abitanti di un paese postcoloniale tutt’al- tro che piccolo, ma del tutto marginale. Secondo Patricia Dobrez (1999, p. 252) la consapevolezza di questo scarto, tanto simbolico quanto decisivo, comportò l’in- gresso dell’Australia nell’epoca postmoderna. Un’epoca in cui il Vietnam segnò l’ac- me, ma anche, per dirla con Fredric Jameson (1984b, pp. 207-208), il momento in cui l’utopia degli anni Sessanta, di illimitati orizzonti comunicativi, cominciò a decli- nare. Per molti australiani, così come per il resto del mondo occidentale, il Vietnam non era più una guerra, ma un fenomeno mediatico, il primo di queste proporzioni, in cui gli eventi prodotti si dissociavano dalla loro stessa natura di conflitto per farsi simulacri carichi di forza, ma in qualche modo privi di sostanza reale.
In questo scenario non stupisce che proprio coloro i quali, secondo lo stereotipo, erano più lontani dalla realtà, ovvero i poeti e gli scrittori, fossero tra i suoi interpreti più richiesti e ascoltati. E Frank Moorhouse, enfant terrible delle lettere australiane, ammette, non senza una certa crudezza, che non solo il Vietnam fu un evento in cui le nuove generazioni fecero sentire la propria voce per risvegliare una coscienza civi- le troppo a lungo sopita, ma che esse sfruttarono l’occasione per emergere, per affer- marsi in una scena culturale che le aveva troppo a lungo ignorate.
In un suo articolo Elizabeth Webby (1981, p. 153) si domanda, a fronte dell’im- provvisa e inaspettata fioritura seguita di lì a poco tempo e prodottasi anche grazie al “fattore Vietnam”, dove mai si fossero nascosti precedentemente i “nuovi autori” australiani. Una risposta indiretta può essere trovata in un articolo di Michael Wilding apparso, come già quello della Webby, su «Australian Literary Studies». Qui Wilding afferma che, a quel tempo, l’unica possibilità di pubblicazione per scrittori emergenti e anticonformisti era offerta dai “girlie magazines”, le riviste rivol- te a un pubblico maschile che indulgevano nell’esposizione di corpi femminili discinti anche se non si spingevano fino al nudo integrale. L’onda nuova – e anoma- la – degli autori che si stavano affacciando sulla scena si trovava poco a suo agio all’interno di uno scenario alquanto cristallizzato per non dire ormai sclerotico e l’in- GLI ANNI VISSUTI PERICOLOSAMENTE. L’AUSTRALIA IN VIETNAM
versitari. Tra il 1958 e il 1966, in seguito al crescente benessere della società austra- liana, il numero di iscritti agli atenei di questo paese era praticamente raddoppiato. E furono proprio gli studenti universitari, coinvolti in prima persona, in quanto pas- sibili di chiamata alle armi, nonché dotati di una diversa e nuova sensibilità politica, a rendersi protagonisti e iniziatori dei movimenti di protesta. Per ottenere reazioni più forti sarebbe stata però decisiva l’ispirazione che questi movimenti trassero dai loro omologhi americani. Si giunse così al paradosso che, ad animare una protesta visceralmente anti-americana, fossero modalità mutuate da una scena intellettuale eminentemente americana. Il dirompente effetto della contro-cultura, essenziale alla vitalità dei movimenti che si opponevano al Vietnam, era di fatto alquanto indebita- to nei riguardi della contro-cultura statunitense ed è interessante notare come l’e- scalation di manifestazioni e iniziative seguenti al 1967 in Australia facesse da con- trocanto ad analoghe manifestazioni e iniziative già tenute negli Stati Uniti.
Obiettare a questo coinvolgimento militare non significava semplicemente con- testare una scelta, ma tutte le basi morali su cui essa si fondava. Il “giro di vite viet- namita” impresse un’accelerazione fin lì impensata anche alla discussione di que- stioni precedenti o ne pose di nuove e inconcepibili prima di allora, come l’aboli- zione della pena di morte e della censura, un maggior rispetto per l’ambiente, i dirit- ti degli aborigeni, il rinnovamento della morale sessuale o la protesta femminile e omosessuale e questa spinta investì, non per ultimo, anche il mondo letterario e cul- turale, portando alla luce istanze e modi già presenti, ma che fino allora erano appar- tenuti alla cultura underground di Sydney e Melbourne.
Il conflitto bellico del Vietnam si era così spostato e metaforizzato nella realtà australiana. Da uno scontro armato contro un popolo straniero si era arrivati a una dichiarata ostilità sociale, quasi un’ideale guerra civile sul fronte interno in cui da una parte si schieravano coloro che avevano in qualche modo determinato il coin- volgimento australiano nel Sud-Est asiatico e dall’altro tutta una nuova scena cultu- rale e un nuovo modo d’intendere la propria partecipazione alle scelte che riguar- davano la collettività. Il Vietnam divenne così la valvola di sfogo di contrasti sociali che altrimenti avrebbero impiegato più tempo per essere espressi o avrebbero comunque avuto una manifestazione meno radicale e pervasiva. Una manifestazione che passava anche e soprattutto attraverso pubbliche dimostrazioni di carattere arti- stico e letterario improntate a eventi-happening e a riti collettivi in cui istanze politi- che, letterarie e libertarie si mescolavano senza una chiara distinzione, ma con il comune denominatore di un forte spirito di contestazione se non di sedizione.
Sebbene, paragonando l’apporto letterario australiano alla questione vietnamita a quello statunitense, si tenda spesso a sottolinearne l’esiguità, è opportuno affermare che le grida levate da quella che venne definita “letteratura sovversiva e sediziosa” abbiano ottenuto un effetto notevole, inaugurando un nuovo modo di scrivere, di pen- sare, di essere, in seno alla società australiana. Una serie di iniziative quali reading poe- tici e letterari, e l’adesione dell’intelligentsia australiana alle “Vietnam Moratorium”, esercitarono un influsso potente sulla formazione di una nuova sensibilità comune.
Secondo Garrie Hutchinson, scrittore, poeta e giornalista, questo tipo di iniziati- ve era da considerarsi analogo per importanza simbolica a quella che, negli Stati Uniti, poteva essere riconosciuta al concerto di Woodstock (Dobrez 1999, p. 251). Questo coinvolgimento ebbe indubbiamente una ricaduta sociale, così come ne
La propulsione più forte a questa rivoluzione delle lettere – o Rebellion of Words, come la chiama Moorhouse – veniva proprio dall’uso anche smodato della rappre- sentazione del sesso in letteratura. Ciò che prima era stato volutamente nascosto, sop- presso, si affermava ora con una forza nuova e scioccante, dovuta alla violenza di una rimozione lungamente subita. L’uso del sesso in letteratura – ma, vista la percezione collettiva, sarebbe più appropriato parlare di uso dell’oscenità –, finiva con l’essere il messaggio più forte e rivoluzionario. L’oscenità era l’elemento essenziale per sma- scherare quello che Hugh Duncan chiama il “mystery of rank” (1962, p. 178), per abbattere un sistema sociale e rivelare la nudità della monarchia imperante.
Per quanto alla rivista diretta da Bacon vada riconosciuto un indiscutibile merito letterario è difficile definire «Tharunka» come un literary magazine a tutti gli effetti. L’esperienza di questo foglio quasi sovversivo si era tuttavia rivelata assai preziosa per comprendere che si poteva “fare da soli”. Se gli established quarterly magazines e le case editrici istituzionali non davano udienza a nuove voci, si rendeva opportuno fon- dare un proprio e alternativo sistema editoriale. Il formato tabloid delle riviste uni- versitarie e della underground press si era dimostrato ottimale per ospitare non solo poesie e articoli, ma anche short stories. Perché, allora, non realizzare una pubblica- zione interamente votata a ospitare racconti? In realtà il formato editoriale era solo uno degli aspetti di questa rivista, anche se così decisivo da entrare a far parte del suo stesso nome. Un altro elemento fondamentale fu quello di negarsi a una circolazione d’élite, eminentemente accademica o letteraria, per tentare invece l’incontro con un pubblico più vasto che Moorhouse e Wilding, i fondatori di «Tabloid Story», sape- vano esistere al di fuori degli angusti steccati tradizionali. I racconti che questa rivi- sta intendeva pubblicare dovevano rifiutare gli stilemi più vieti, essere nuovi e fiera- mente oppositivi rispetto alla tradizione precedente: “non più restrizioni alla tipica storia con un inizio, un corpo centrale e una conclusione coerente, non più il precet- to del racconto ‘ben temperato’” (Wilding 1978, p. 302). Reagire a questa tradizione letteraria, imporre un nuovo tipo di letteratura e, in special modo, un diverso approc- cio al “genere nazionale” della short story acquisiva il valore di una contestazione poli- tica quasi eversiva, un attacco all’ordine costituito.
Le piccole riviste autoprodotte grazie all’innovazione tecnologica a bassissimo costo della stampa a ciclostile raggiunsero, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, furono un numero davvero incensibile, anche perché la maggior parte di queste pubblicazioni non andava oltre il primo numero, e forse nemmeno ambiva a farlo. La ricostruzione di questa pagina della storia letteraria australiana, come di gran parte di quella europea e americana dello stesso periodo, non può che prende- re a esempio alcuni dei modelli più importanti e durevoli, mancando così in gran parte di rendere un’atmosfera socio-culturale. È però importante sottolineare come la maggior parte di queste riviste, numeri unici o fogli ciclostilati che fossero, si ponessero come tentativi consapevolmente avanguardistici, di rottura, rispetto alle esperienze precedenti più istituzionalizzate e come tentativi consapevolmente parte- cipi di un decisivo cambiamento in atto nella letteratura, nell’editoria e nella società australiana (Pierce 1985, pp. 219-220).
«Tabloid Story» si rivelò infatti un’esperienza di estrema importanza per i futuri sviluppi letterari. Non solo essa era stata un luogo di dibattito e di scambio tra auto- ri che già avevano ricevuto un battesimo del fuoco, come Moorhouse e Wilding, ma GLI ANNI VISSUTI PERICOLOSAMENTE. L’AUSTRALIA IN VIETNAM
disponibilità di approdi editoriali più comuni li aveva costretti a cercare visibilità laddove questa veniva concessa.
Il fatto di pubblicare per riviste erotiche impose quindi la trattazione di tematiche che erano state volutamente ignorate e soppresse nella letteratura precedente, contri- buendo a imporre un’approfondita e inedita discussione sul ruolo della sessualità nella vita pubblica e nelle dinamiche sociali. Uno degli esempi più interessanti dell’impor- tanza di questo tema all’interno della controcultura australiana è offerto da «Tharunka», la rivista studentesca della University of New South Wales, una pubbli- cazione che, proprio per il suo carattere quasi privato, aveva gioco facile nel passare attraverso le strette maglie della censura nazionale. Nel 1970 il comitato editoriale fu affidato a Wendy Bacon, Val Hodgson e Alan Rees che, nel giro di breve tempo, tra- sformarono questa pubblicazione nel giornale più libero stampato in Australia anche se i quaranta numeri della loro gestione riuscirono nella difficile impresa di accumula- re altrettante denunce per divulgazione di materiale osceno. Il fenomeno degli under- ground papers era alla fine esploso anche in Australia con tutta la sua forza d’urto. Se i quarterlies letterari continuavano a mantenere il loro impianto tradizionale che li col- locava fuori dal tempo assestandoli su una circolazione di 3.000 copie nel migliore dei casi, «Tharunka» poteva contare su una diffusione massima di circa 12.000 copie.
La questione al centro del dibattito era diventata la censura e l’antagonista contro cui combattere era lo Stato stesso e le sue leggi. Una delle iniziative più importanti in questa lotta fu quella di chiedere la collaborazione di autori già in parte affermati il cui unico comune denominatore era l’aver avuto problemi con l’istituto della censura. A scrivere per questo inserto letterario di sedici pagine, che ricevette l’esplicita denomi- nazione di “Special Supplement of Unacceptable Literary Works”, furono così chia- mati Thomas Keneally, Michael Dransfield, Thomas Shapcott, Michael Wilding, Alexander Buzo, Peter Mathers e addirittura uno dei nomi più eminenti dell’empireo letterario nazionale quale A. D. Hope. L’introduzione venne affidata a Moorhouse, che fece assai chiaramente il punto sottolineando la valenza politica dell’atto censorio e quindi la funzione di resistenza del lavoro letterario di questi scrittori.
In realtà, il contenuto letterario di queste riviste si rivela non particolarmente importante in sé, quanto determinante nel suo essere parola urlata e agita, parola che si imponeva come provocazione e si aspettava un’opposizione dura e frontale. Il solo pensiero di essere parte di un processo hegeliano di azione e reazione desti- nato a una sintesi avrebbe probabilmente disgustato Bacon e soci. Essi si ponevano come guerriglieri di una battaglia culturale i cui soli esiti potevano essere o un fal- limento totale o una perfetta palingenesi, ma niente che stesse nel mezzo di questi eclatanti risultati. Un orientamento, questo, che si rispecchiava nei criteri di sele- zione del materiale da pubblicare, fra i quali “l’oltraggiosità” occupava un posto ragguardevole. Tra le espressioni più frequenti nel dibattito suscitato da «Tharunka» si possono annoverare: Unmasking, Demystifing e De-authorising. In realtà questa triade, prima ancora di essere rivolta al mondo esterno, al potere poli- tico e all’assetto sociale, era usata nello stesso ambito letterario. Gli scrittori e i gio- vani intellettuali coinvolti nell’impresa di questa pubblicazione universitaria svol- gevano un’azione di disvelamento, demistificazione e, più pertinente di tutte dal nostro punto di vista, de-autorizzazione (da intendersi come ruolo nuovo da asse- gnare alla figura di intellettuale e di “autore”).