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Divergenze e parallelismi

Le rappresentazioni che gli autori francofoni e francesi offrono dei conflitti in Africa sono l’espressione di una tensione interpretativa opposta. Sbrigativamente, si può sostenere che la lettura francese, per non dire italiana o forse europea, adotta nei confronti di tutto ciò che è complesso in Africa il paradigma dell’arcaicità, secon- do il quale l’origine di tali conflitti si perde nei secoli di cruente battaglie tribali, che, dopo la parentesi “pacificatrice” coloniale, avrebbero ripreso virulenza manifestan- dosi in un ciclo di carneficine tanto prevedibili quanto inevitabili. La lettura attuata dagli autori africani francofoni tende, invece, a sostenere che in tali conflitti non ci sia nulla di arcaico, ma solo la famelica ricerca dell’Occidente di materie prime che la modernità industriale prima e tecnologica poi impongono a luoghi e comunità che, da soli, riuscirebbero a ricomporre i conflitti in modo autonomo. Secondo tale visione la superposizione coloniale ha provocato, a livello economico e culturale, fenomeni che continuano a riprodursi, visto che non diminuisce la dipendenza eco- nomica occidentale dalle materie prime africane. Gli eventi conflittuali sarebbero da inserire in una sostanziale continuità storica con forme di governo nate sulla base della tratta degli schiavi, trasformatesi in governi dittatoriali nella fase aperta alla fine della seconda guerra mondiale e che vede negli anni Sessanta l’indipendenza dei vari Stati dopo il riassestamento geografico operato in ambito coloniale, con l’estensione a tutte le popolazioni di violente pratiche di gestione del territorio entro confini arbi- trari. In questo senso si ripresenta in ambito letterario un paradigma già operante a livello di luoghi comuni diffusi nell’informazione e tramite i mezzi di comunicazio- ne, in Europa e in Africa.

A tale proposito il caso del genocidio ruandese sembra esemplare. Per giorni e giorni nel 1994 le immagini terribili di corpi trucidati hanno raggiunto l’Europa, senza che si fornisse al telespettatore un minimo approfondimento, col risultato di confermare un luogo già comune, quello dell’atavica barbarie dei negri. Era fre- quente allora, per spiegare il genocidio subito dai tutsi, trovare dei giornalisti che, manifestando repulsione, giustificavano la povertà informativa dei loro commenti con la lontananza culturale che renderebbe incomprensibile lo scatenarsi di tale odio etnico: erano gli stessi che qualche anno prima si stupivano dei massacri in Bosnia ad opera di popoli così vicini a noi.

Si insiste su ragioni di differenza etnica, differenze che poco esistono fra i popoli della ex Iugoslavia e ancora meno in Ruanda. Infatti, la distinzione fra un’etnia origi- anche una palestra essenziale per autori ancora alle prime armi, com’erano allora

Peter Carey e Murray Bail. Il seme gettato in quel quinquennio di dissipazione e creatività produsse un frutto ancor oggi significativo e durevole nel mondo cultura- le australiano.

Non ci fu tuttavia solo un contributo letterario e culturale da parte di questi auto- ri, ma anche un contributo politico, di più breve durata, eppure non meno signifi- cativo nel quadro della recente storia australiana. È difficile, infatti, comprendere l’ascesa al potere di uno statista quale Edward Gough Whitlam senza collocarlo nella temperie culturale che questi autori concorsero a formare. Oltre a essere il primo ministro che, nel dicembre del 1972, col suo avvento al potere, chiuse defini- tivamente il già declinante coinvolgimento australiano in Vietnam, questo uomo politico elaborò un ruolo nuovo per l’istruzione e la cultura nel suo paese. Non solo gli investimenti per la scuola pubblica passarono da 92 a 574 milioni di dollari, con l’ulteriore impegno di abolire le tasse universitarie, ma egli perseguì quella che Lindsay Barrett chiama una vera e propria “politica del gusto” (2001, p. 3). Non si trattava semplicemente di un articolato pacchetto di riforme e di una diversa conce- zione del ruolo australiano nel Sud-Est asiatico, ma anche di una diversa concezio- ne dell’identità dell’Australia stessa. Non più identificata con la sua realtà rurale, ma con la sua dimensione urbana e suburbana, non più obbligata a un sentimento di deferenza nei riguardi dell’Ottocento pionieristico, ma proiettata verso qualcosa di nuovo e indefinito, qualcosa che risultava tanto seducente quanto inquietante. L’insediamento di Whitlam significò anche l’istituzione del Literature Board, un ente che patrocinò un’inattesa pioggia d’investimenti in campo culturale e contribuì a creare un nuovo corso estremamente proficuo. Lo Stato si assumeva la facoltà di essere un literary patron e questo non per un puro valore dell’arte, ma per la qualità educativa, di crescita e di consapevolezza di sé, che all’arte doveva essere ricono- sciuta. L’arte in generale, e la letteratura in particolare, dopo essere stata uno stru- mento oppositivo, di forte critica sociale, veniva quindi investita della formazione e dell’espressione di una identità nazionale nuova. La letteratura sovvenzionata dal Literature Board delineava invece un mondo oltremodo inquieto nella sua apparen- te immobilità, o un mondo attraversato da metamorfosi angoscianti, da scenari così alieni da risultare extra terrestri, fantascientifici. In realtà non poteva esistere un rap- porto più stretto, più speculare, e perciò meno rassicurante, tra un gruppo di lette- rati che si ponevano come un’avanguardia artistica impaziente di scalzare un ordine costituito, e un’avant-garde politica, quale fu effettivamente, almeno fino al suo avvento al potere, la “dottrina Whitlam”. Questo esecutivo durò solo tre anni e, fra i motivi più profondi del suo fallimento, vi fu anche quello, inevitabile, di portare su di sé il peso di aspettative eccessive e irrealizzabili. Non appena il progetto politico e culturale a cui molti giovani intellettuali e nuovi scrittori avevano dato un contri- buto determinante, aveva preso corpo e potere, ci si era scontrati con le necessità del pragmatismo, dell’ordinarietà che contrastavano con la creatività che le aveva pre- cedute. Questi intellettuali si trovarono così costretti a identificarsi con un elemen- to istituzionale che, fino a poco tempo prima, avevano cercato di abbattere. Una dinamica di ribellione e protesta si era consumata non per il suo fallimento, che ne è forse l’esito più naturale, ma per il suo successo, che nasconde invece la sua più segreta contraddizione, e la sua vera sconfitta.

furono commesse (p. 19). Prima del 1994 c’erano state avvisaglie di ciò che si stava preparando. Pubblicata in proprio, la novella del ruandese Ruti (1979) rappresenta eventi anteriori in tutto sovrapponibili ai fatti del 1994. Nel testo come sulla quarta di copertina si evita di pronunciare la parola Ruanda, mentre il titolo lascia intende- re che Nemo è “la storia di… nessuno”, “questo personaggio che è ovunque, sempre perseguitato ma sempre estraneo agli attacchi che subisce”. Riflessione filosofica sul- l’origine del male nell’uomo, il valore di questo racconto è apparso solo dopo che l’o- perazione écrire par devoir de mémoire ha prodotto i primi risultati letterari.

Da parte francese un romanzo del belga Berenboom (1989), proponeva un rife- rimento al Ruanda prima del 1994, all’interno di un’umoristica riflessione sul fun- zionamento svizzero di multinazionali e associazioni umanitarie. Il racconto del dirottamento di un aereo dalla linea Ginevra-Roma prima su Kigali e poi su Accra, opera di terroristi palestinesi, mentre il Ruanda è solo una stazione di passaggio, è pretesto per una rappresentazione umoristica dell’europeo medio, in tutto il suo odio schifato per l’Africa cui è legato fisicamente (i terroristi lo hanno legato al pas- seggero nero che è a suo fianco, e insieme li fanno parlamentare con le forze dell’e- sercito ruandese schierate all’aeroporto) e psicologicamente, per la sua paura dell’o- dore, dei microbi africani, della maledizione di quella terra, e per la moglie che lo tradisce con un missionario in Africa. Se nel romanzo si mostra che la pretesa “lon- tananza” dell’Africa, geografica o umana, è illusoria, occorre attendere il poliziesco di Jody (2004)2per vedere nella letteratura francese la regione dei grandi laghi, e l’e- strema facilità di movimento in Belgio, Francia e Olanda di militari, assassini e spie, mercenari, contrabbandieri e giornalisti, chiese e associazioni umanitarie. Questo mondo complesso si presta a essere svelato per mezzo del noir, ma soprattutto in questo romanzo colpisce, di fronte al silenzio sintomatico di un malessere riguardo alle ex colonie, la ricostruzione storica e l’impressionante bibliografia che, riportata alla fine del romanzo, forza il lettore a continuare l’indagine autonomamente al di fuori della finzione letteraria.

Engagementpostcoloniale e romanzo poliziesco

Chiuso il periodo ufficialmente “coloniale”, gli scrittori francesi sembrano subire il trauma della guerra franco-algerina senza consapevolezza di quanto gli interessi del governo francese, la cosiddetta Françafrique, impongano una lettura deformata dei conflitti sul continente. Non si poteva che scegliere l’oblio o l’allusione discreta. Così pieds-noirs e harkis furono vittime di un imbarazzato silenzio fino alla fine del secolo. Tale oblio permette di affrontare una frattura del corpo coloniale che la storia impo- ne, con l’effetto di provocare un vuoto di conoscenza nei confronti dell’Altro. L’Algeria e la storia comune in Africa scompaiono, cancellando l’identità meticcia degli europei che vi abitavano, degli ebrei nordafricani, poi degli immigrati ora con- fusi in una massa anonima e minacciosa nei non-luoghi delle banlieues francesi.

Partendo dai polars di Didier Daeninckx, in particolare Meurtres pour mémoires, pubblicato nel 1984, esaurito, ripubblicato significativamente nel 1999 con apparato didattico, testi e documenti d’approfondimento, il silenzio complice su vittime e car- nefici del mondo politico è denunciato. L’inchiesta su di un crimine avvenuto durante

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naria dei twa, nomadi e gli hutu, bantu coltivatori negroidi, entrambi dominati dai tutsi cacciatori nilotici calati dal Nord nei primi secoli dopo l’anno Mille, è un’ipotesi fun- zionale nel momento dell’occupazione coloniale del Ruanda, volta a spiegare l’esisten- za di strutture sociali complesse come la monarchia, in mezzo a popoli negri per defi- nizione selvaggi. Ciò non trova conferme storiche, ma rassicura l’immaginario colonia- le: in effetti non si può accreditare la realtà di tre etnie, visto che tutti parlavano da secoli la stessa lingua, rispettavano una sola gerarchia, pregavano un Dio unico, poi sostituito dal Dio cattolico al momento dell’occupazione tedesca e poi belga.

Di fronte a certezze discordanti ma ancorate nella memoria collettiva occidentale e non solo, per primi gli autori africani hanno voluto prendere posizione proprio in qua- lità di scrittori. Nocky Djedanoum, direttore di Fest’Africa, ha chiamato alcuni colle- ghi per recarsi in Ruanda nel quadro del progetto Écrire par devoir de mémoire. Dal 1998 questa esperienza ha permesso loro di affrontare una tragedia che è tale in primo luogo per l’essere umano, e poi per ogni intellettuale africano1. Come afferma uno dei partecipanti, il senegalese Boubacar Boris Diop (2003), la finzione letteraria è un mezzo efficace di confutazione della retorica che accompagna il genocidio:

la violenza delle guerre civili in Africa pone allo scrittore domande che esigono risposte immediate, il che sottopone la finzione, spesso vissuta con rimorso in quanto esercizio vano, alla pressione costante delle urgenze politiche (…). In questo senso, è un mezzo eccellente per contrastare il progetto di un genocidio. Essa rende un’anima alle vittime e anche se non restituisce loro la vita, ne rifonda l’umanità in un rituale di lutto che fa del romanzo una stele (...). Il romanzo, che scova l’assassino sul suo campo, quello dell’emo- zione e della falsificazione, mi sembra più adatto a realizzare un tale compito (p. 39). I testi nati da questa esperienza letteraria additano il silenzio complice dei colle- ghi intellettuali francesi. Posta sotto il segno dell’engagement sartriano, la letteratu- ra africana francofona ha sempre inteso rappresentare le società pre e postcoloniali, nell’intento di piegare lo strumento del realismo romanzesco alla descrizione minu- ziosa dei cambiamenti della società tradizionale, in termini di esaltazione di una ric- chezza culturale, o di critica feroce. Ciò presuppone una presa di posizione dell’au- tore, che non di rado ha comportato, nell’Africa post-indipendente, la censura, l’e- silio o la morte per molti scrittori, dato il carattere politico della parola letteraria. Tale ruolo appare in una relativa continuità con l’esigenza di rappresentazione della società nei suoi meccanismi anche devianti, che accomuna Négritude e letteratura francese. In realtà, nel momento in cui la letteratura francofona nasceva, a cavallo fra le due guerre mondiali, essa si situava in una tradizione francese d’impegno sociale che, secondo alcuni, risale ai primi scrittori di mestiere (cfr. Lepape 2003).

Gli intellettuali francesi rifiutano l’engagement letterario per evitarne forse il paradosso: “lo scrittore engagé è in trappola per la natura stessa del suo progetto e si trova costretto a una forma di slealtà costante: egli deve fingere di scrivere per i lettori che non lo leggono e mostrare di ignorare chi lo legge veramente” (Benoît 2000, p. 61). Lo scrittore francofono, da sempre a cavallo sulla duplicità di lingua madre e lingua di scrittura, non può sfuggire a tale paradosso.

Nel suo romanzo dedicato al genocidio ruandese Boubacar Boris Diop (2000) svela le complicità politiche francesi di cui si è servito il governo dittatoriale di Habyarimana prima, e dei genocidari in seguito, narrando nel dettaglio le atrocità che

amanti ormai vecchi, lui algerino e lei europea, già ripetutamente separati anni prima nella lotta per l’indipendenza quando i guerriglieri del FLNfanno uccidere i bambi-

ni nati dall’unione della coppia, colpevole di tradimento per essere mista, e ancora prima avversata dai coloni francesi che denunciarono gli ebrei giunti in Algeria per cercare una salvezza dalla Francia occupata. Per quanto riguarda la fusione fisica oltre che culturale, di personaggi simbolici con identità meticcie portatori di una Storia comune che per molto tempo fu negata, scrittori francesi come Maurice Attia (2006) o algerini come Boualem Sansal (1999), narrano, in uno stile che si rifà più o meno apertamente al poliziesco, alla violenza in Algeri tra il gennaio e il giugno del ’62, alludendo a ciò che ne derivò in prospettiva.

Riformulazione del concetto di “lontananza”

La fedeltà alla Storia, una scrittura frutto di precise ricerche, sintonizzano dun- que vari romanzi polizieschi francesi su modalità interpretative congeniali ai roman- zi africani francofoni.

In tutti si tende ad annullare ciò che fa dei popoli africani realtà altre, inevitabil- mente lontane.

I romanzi francesi che non adottano le forme del poliziesco, appaiono, in questo senso, pure esemplari. In Onitsha (1991) di Le Clézio, la finzione autobiografica, evi- dente se lo si rilegge alla luce di L’Africain (2004), pubblicato posteriormente, ripen- sa la guerra del Biafra che lacera la Nigeria all’indomani della seconda guerra mon- diale. Molti i segni che lasciano presagire la fine dell’impero britannico, insieme all’i- nizio di un’epoca segnata comunque dalla violenza coloniale, che aprì la ferita “etni- ca” ricostruita storicamente dalla narrazione della spedizione inglese che nel 1902 portò alla distruzione completa della città sacra di Aro Chuku e al massacro di tutti gli abitanti con più di 10 anni (cfr. Le Clezio 1991, pp. 242-243). Le cicatrici della modernità già alla fine degli anni Quaranta sono presenti sotto forma di enormi gasdotti e navi petroliere che compaiono nel romanzo, in alternanza con la narrazio- ne onirica del viaggio paterno sulle tracce delle rovine della città morta, per il fascino del mito che indica in quelli di Aro Chuku i discendenti dell’ultima dinastia egizia che, vinta nel IVsecolo, avrebbe intrapreso una lunga migrazione a Ovest, per rifon-

dare sul Niger la civiltà che fu un tempo sul Nilo. La necessità (che non riguarda solo il Ruanda), di trovare prestigiosi antenati nilotici appare legata al rimorso occidenta- le di fronte allo sterminio, in questo caso del Biafra, che nel 1968 il giovane protago- nista avrebbe voluto “impedire” e dove l’amico d’infanzia Bony forse morirà, come tutti gli altri, di fame. Un conflitto in cui la Francia fu solo marginalmente (anche se ambiguamente) implicata, ciò che permette alla narrazione di decostruire semantica- mente il concetto di barbarie, molto più di quanto sia accaduto per il Ruanda.

È infine opportuno alludere all’immigrazione, un fenomeno che solo ultimamen- te si va definendo come conflitto in entrambe le letterature, francese e francofona. Tournier (1985) già confrontava le modalità interpretative divergenti relative all’im- magine, nell’Islam e nella società occidentale. Il protagonista andato a Parigi è un algerino che vuole recuperare l’anima rapita dalla foto della turista francese o un immigrato che cerca un lavoro? La reazione violenta delle forze dell’ordine mostra

LA RAPPRESENTAZIONE DEI CONFLITTI AFRICANI 

l’occupazione tedesca si lega a quello commesso a Parigi durante una manifestazione di emigrati algerini. Anche in questo caso la struttura del romanzo poliziesco permet- te all’autore di citare fatti autentici ma dimenticati, mentre il rapporto fra realtà e fin- zione letteraria tipico del genere invita il lettore a scoprire il verosimile in ciò che la narrazione insinua. Del 1958 sono gli attentati in Francia organizzati dal FLNe il 17

ottobre 1961 una manifestazione non violenta di algerini e francesi simpatizzanti viene repressa crudelmente, causando 300 morti che ufficialmente né la stampa né il gover- no francese hanno riconosciuto. Prefetto era Maurice Papon, giudicato nel 1998. Per reinserire nella Storia francese i legami fra collaborazione col nazismo e ideologia colo- niale, Daenincks inserisce il primo delitto nel quadro della manifestazione. L’uccisione del professore di storia passa inosservato, il suo corpo si mescola a quello dei manife- stanti caduti. Tutto viene occultato, così nulla può impedire che anche il figlio, giova- ne storico, 22 anni più tardi sia ucciso mentre ripercorre negli archivi la stessa ricerca del padre. L’inchiesta nel romanzo dovrà spiegare il legame fra i due delitti, mentre il lettore sa che una carriera mai disturbata all’interno dell’Amministrazione francese, un arresto tardivo, molteplici tentativi a vari livelli di lasciar cadere il caso fanno di Papon, su cui il criminale Veillut è ricalcato nel romanzo, un interrogativo sulla società fran- cese posto agli storici, cui idealmente il romanzo è dedicato.

Daenincks così facendo alimenta l’elaborazione francofona del conflitto, che a sua volta ha dovuto superare l’eredità retorica di esaltazione della vittoria algerina contro il colonizzatore occidentale, imposta per dovere nazionale agli intellettuali africani. Nel 1990 la scrittrice algerina Malika Mokeddem in Les hommes qui mar- chent ripercorre tutta la storia fino alla lotta clandestina dei fratelli di Leila, gli atten- tati dell’OAS, la grande marcia del primo luglio 1962, giorno del referendum per l’au-

todeterminazione. In mezzo al popolo algerino in festa, l’ebrea Estelle è di fronte al dilemma, partire o restare? Si tratta, per colei che Leila considera più che sorella, di un dilemma che solo il suicidio chiude. La nonna Zohra inventa un lamento per cele- brare la memoria della ragazzina, Nedjma, la stella spinta a Sud da un’invasione di “locuste” (gli europei) e che rimanda nel nome al testo fondatore della letteratura algerina, Nedjma di Kateb Yacine (cfr. Mokeddem 1990, p. 236). Leila s’informa sul- l’olocausto proprio nel momento in cui, con l’indipendenza, nota che il paesaggio sta cambiando: nelle ville dei coloni francesi occupate dagli algerini i muretti sono trop- po bassi, le finestre, troppo grandi, il rischio che dall’esterno si vedano le donne li spinge a innalzare paraventi con materiale riutilizzato da altre costruzioni sventrate. Il luogo si trasforma in una bidonville (p. 246), simbolo di Huria, la libertà che non è per tutti se nascondere le donne, anche dietro un mucchio di spazzatura, è la prima preoccupazione degli uomini dopo l’indipendenza. Il filo narrativo lega la violenza coloniale, che in qualche modo comprende il riferimento all’olocausto, alla lotta san- guinosa per l’indipendenza, trasformatasi presto in abuso di potere. Nell’anniversario dell’Indipendenza Leila rischia di essere violentata sulla piazza gremita, solo perché lei e le sorelle non indossano il velo. Già si annunciano in que-