Quale pittore ritrarrà i deserti vetrificati dai nostri giochi di stra- tegia? Quale poeta chiaroveggente si lamenterà dell’aurora igno- bile dalle dita insanguinate? (M. Serres)
Da che parte stanno i gatti? È presto detto: i gatti stanno con i francesi, e poiché i francesi stanno dalla stessa parte degli inglesi, i protagonisti di Far Away possono stare tranquilli. Se non fosse che uno dei personaggi riferisce di aver sentito dire in
TVche in Cina i gatti ammazzano i neonati nelle culle; ma dopotutto questo non è
un problema, perché – anche se la Cina è vicina, come la cronaca recente ci ha assi- curato – dalle nostre parti, cioè in Europa, per la gente comune la Cina è ancora “far away”, lontana da noi, e quindi quello che accade ai neonati cinesi, anche se dram- maticamente insensato, ci riguarda fino a un certo punto.
Lo scenario in cui si ha luogo questa singolare conversazione non appartiene, ovviamente, alla realtà, ma al territorio della finzione teatrale. L’autrice è Caryl Churchill, che si è imposta sulla scena internazionale come una delle figure più ori- ginali e innovative del teatro contemporaneo e che, fin dagli esordi della sua carrie- ra – nei primi anni Settanta – non ha mai smesso di reinventare il mezzo drammati- co sfidandone le convenzioni sia tematiche che formali. Tuttavia, pur sfuggendo a facili classificazioni, le pièce della commediografa britannica presentano numerosi caratteri distintivi che sono diventati la cifra del suo paesaggio teatrale: varietà di interessi, impegno politico, serietà, ironia, humour, comicità e, soprattutto, una non comune qualità profetica (cfr. Patterson 2003, p. 4).
Questo saggio ha come oggetto la commedia con la quale Caryl Churchill ha inaugurato il terzo millennio,Far Away (2000)1, che, anticipando il clima del post 11 settembre, rappresenta una realtà distopica, corrotta, avida e violenta. Far Away è anche un’opera profetica, non perché predice la catastrofe, ma perché mette in scena i danni che l’umanità ha già prodotto, senza essersene assunta la responsabilità (cfr. Solomon 2002, p. 1). Nella parte conclusiva di questa commedia marcatamente paci- fista, i personaggi si trovano coinvolti in un conflitto colossale, di cui hanno perso il controllo e al quale partecipano tutte le creature del pianeta, compresi gli elementi naturali: esseri umani, animali, piante, fiumi e perfino il tempo meteorologico. Nel mondo deteriorato che Churchill rappresenta succedono cose insensate e stravagan- ti: oltraggio e violenza sono considerati fatti normali, non ci si può fidare di nessu- no – neppure dei propri familiari – i coccodrilli e perfino i “bambi” sono malvagi, e “i gatti si sono alleati con i francesi” (Churchill 2000, p. 35).
L’obiettivo di Churchill è quello di inscenare una drammatizzazione della nostra attuale realtà, che impone di accantonare la vecchia ideologia della distanza, così ben espressa da Lucrezio2e ripresa da Blumenberg (1979, p. 7), secondo la quale la gente tende a sottovalutare o a fingere di non vedere, tutto ciò che viene percepito come
Lo scopo di questa scelta strategica è chiaramente quello di destabilizzare lo spet- tatore, mettendolo inaspettatamente a disagio, ancor prima dell’inizio dello spetta- colo. Inoltre, all’alzarsi del sipario, una voce proveniente dal palcoscenico intona una canzone che inizia con le parole: “C’è una terra felice lontano, molto lontano” (Dymkowski 2003, p. 56). La voce è quella di Harper, seduta in poltrona sulla destra del palcoscenico. A questo punto, lo spettatore subisce un ribaltamento di prospet- tiva, perché in stridente contrasto con il paesaggio del sipario la prima scena pre- senta un interno molto spartano: un tavolo, una lampada, e una poltrona, stagliati contro un fondale nero, come fosse una cornice (Aston 2003, p. 117). La prima bat- tuta, “Non riesco a dormire” (Churchill 2000, p. 9), viene pronunciata da Joan bam- bina mentre scende, in camicia da notte bianca e un peluche in mano, da una scala sulla parte sinistra del palcoscenico.
Evidentemente, il disagio del pubblico dipende in parte dalla impossibilità di stabilire se le rassicuranti parole della canzone, accoppiate al paesaggio idilliaco del sipario, siano da riferirsi alla scena appena iniziata, oppure se sia vero il con- trario, cioè che quell’interno fosco e minimalista sia, in realtà, distante e lontano dal luogo familiare e rassicurante del sipario. A questo proposito, è stato giusta- mente osservato che
il contrasto tra la visione del sipario e l’atmosfera cupa delle scene non produce sol- tanto un effetto ironico (…) ma incapsula la “distanza” tra il mondo che abbiamo anco- ra caro [“the near and dear”] e l’orrore che noi lo abbiamo fatto diventare (Chauduri 2003, p. 132).
Questo messaggio, fin qui indiretto, verrà successivamente intensificato e com- plicato dall’uso strategico dei dialoghi: conversazioni, all’apparenza normali, ma gradualmente sempre più cariche di dettagli sinistri, che renderanno sempre più difficile la fruizione passiva e obbligando lo spettatore a collaborare attivamente nel processo di costruzione del significato della commedia. A conferma del fatto che lo scopo di un’artista politicamente impegnata come la Churchill è, in questo caso, quello di far sì che lo spettatore lasci il teatro con la consapevolezza che, come Blumenberg (1979) insegna, “siamo tutti imbarcati”, e tutti egualmente responsabili degli orrori che abbiamo prodotto. Se questo intento è stato raggiun- to, ciò è senza dubbio merito dei dialoghi, efficaci da un lato per la naturalezza della parlata – che associa al linguaggio dei valori borghesi, espressioni tristemen- te prosaiche di accettazione dell’orrore – e dall’altro per la studiata gradualità delle inquietanti rivelazioni.
Ciò vale soprattutto per la prima scena, quella più scarna e priva degli effetti spet- tacolari e della fantasiosa originalità delle altre. Alle domande sempre più incalzanti della nipote – che nel cuore della notte ha spiato, non vista, lo zio mentre colpiva con una spranga di ferro un gruppo di persone, uomini, donne e bambini, rinchiusi nella rimessa dietro casa, dopo essere stati scaricati da un misterioso furgone – Harper risponde con bugie sempre più inaccettabili. Lo svelamento graduale della verità induce nello spettatore – che si rende conto che qualcosa non funziona in quella casa, senza però capire di che cosa si tratta – uno stato di crescente tensione emotiva. Finché, dopo varie congetture, che non escludono né la violenza sessuale,
MA DA CHE PARTE STANNO I GATTI?
“lontano” e “distante”. Così facendo, riesce a suggerire – in modo indiretto – che incapacità di vedere e mancanza di responsabilità sociale (e come vedremo anche ambientale) conducono al caos e potenzialmente a un conflitto totale.
Nel contesto di questo volume, Far Away è interessante perché, nonostante i rife- rimenti alla contemporaneità, la denuncia nei confronti delle atrocità commesse in guerra è riferibile a molti dei conflitti storici che conosciamo. Tra i temi, evocati nella commedia, spiccano l’Olocausto, la pulizia etnica, i danni dei totalitarismi, l’am- bientalismo, come pure la brutalità dell’individuo nel vivere quotidiano. Questo sag- gio si propone di decostruire le scelte strategiche che inducono lo spettatore a impe- gnarsi attivamente per decifrare il senso delle fosche profezie incapsulate in una pièce teatrale della durata di circa cinquanta minuti.
Tra queste opzioni strategiche, spicca in primo luogo l’economia, cioè l’aver con- densato in un solo dramma il contenuto di numerosi drammi possibili. Risultato ottenuto mediante la tecnica – tipica del teatro churchilliano – di non presentare l’a- zione in modo lineare e continuo.
La commedia, che ha tre soli personaggi, oltre a un numero indeterminato di comparse, è composta da tre scene, il cui elemento unificatore è dato dalla presenza in ognuna di esse della protagonista, Joan, che nella prima scena è una quasi adole- scente, nella seconda una giovane donna e nella terza una donna adulta e sposata. La zia, Harper, è presente soltanto nella prima e nella terza scena, mentre Todd – prima collega di lavoro, quindi marito di Joan – recita solo nella seconda e nella terza scena. Il luogo della prima e della terza scena è la casa di Harper, mentre la seconda si svol- ge in un laboratorio di modisteria dove vengono realizzati vistosi e stravaganti cap- pelli. La localizzazione geografica è imprecisata: non mancano indizi che fanno pen- sare all’Inghilterra, ma potrebbe essere qualunque luogo. Tra l’una e l’altra inter- corrono parecchi anni. L’epoca in cui si svolge la prima scena – di stile realista/natu- ralista – potrebbe essere qualunque momento dal secondo dopoguerra in poi; la seconda – di tipo fantastico/surreale, con reminiscenze beckettiane e orwelliane – contiene riferimenti ai media: TVe giornali; la terza – che si richiama al genere cata-
strofico/fantascientifico addolcito da pennellate di umorismo nero – presenta tratti riferibili a un prossimo futuro.
Prima di entrare nel merito delle singole scene, merita soffermarsi su un elemen- to scenico, un sipario insolito, che in tutte le produzioni della commedia ha avuto un forte impatto, contribuendo a integrare il senso dei dialoghi. Sappiamo che di norma nel teatro moderno il sipario ha la sola finalità pratica di nascondere il palcoscenico per permettere il cambio delle scenografie. In Far Away, il sipario, che nella prima produzione fu ideato da Alistair Brotchie, riproduce un tipico paesaggio inglese – volutamente artificiale – in cui spicca, in primissimo piano, un cottage bianco con accanto un laghetto. A completare l’effetto, la riproduzione registrata di suoni quali il cinguettio degli uccelli e lo sciabordio dell’acqua. Gran parte dei recensori che hanno assistito alle varie produzioni hanno sottolineato l’effetto claustrofobico pro- dotto sul pubblico da quel paesaggio incombente, in primo piano, anziché sul fon- dale del palcoscenico (cfr. Dymkowski 2003, p. 56; Aston 2003, p. 117). Effetto esa- sperato dalla prossimità del sipario al pubblico, date le piccole dimensioni del Royal Court Upstairs e in generale di tutti i teatri alternativi che solitamente ospitano que- sto genere di rappresentazioni.
apprende che, a motivare l’azione di Todd, non sono ragioni morali, ma prosaiche rivendicazioni salariali.
Il dialoghi alternano momenti assurdi e surreali ad altri normali e anche diver- tenti. Nel corso della scena, gli atteggiamenti dei due giovani cambiano, passando dall’indifferenza all’aggressività e alla noia, segnalata da scambi di battute incon- gruenti, fino a un’affettuosa complicità.
Il momento più spettacolare è quello in cui viene fatta sfilare sul palcoscenico: “una processione di prigionieri in catene, in marcia verso l’esecuzione. Sono laceri e stremati, e ognuno di loro indossa un cappello. I cappelli sono più grandi e più ridi- colmente assurdi di quelli visti nelle sezioni precedenti” (p. 30).
Come già sperimentato nella prima scena, lo spettatore si trova a fare i conti con una rivelazione peggiore delle congetture indotte dai dialoghi. I termini in cui viene evocato l’Olocausto, e in particolare il contrasto tra l’iconografia che ci è diventata drammaticamente familiare – corpi nudi e teste rasate – e i cappelli esageratamente colorati e stravaganti, si prestano a scomode riflessioni sull’esasperato livello di spet- tacolarizzazione della violenza, cui nostro malgrado i media ci hanno abituati.
Tra gli obiettivi di Caryl Churchill, però, non vi è soltanto un attacco al sistema, ma soprattutto un forte richiamo alla coscienza e al senso di responsabilità indivi- duale. Ancora una volta, il climax non coincide con la sfilata, ma con le considera- zioni incastonate nel dialogo successivo. La frase “È così triste pensare che vengano bruciati insieme ai corpi” (p. 31), pronunciata da Joan – che si rammarica per la distruzione dei cappelli, senza preoccuparsi della fine degli esseri umani che li indos- sano – enfatizza in modo agghiacciante l’indifferenza dilagante nella nostra società rispetto al valore della vita. Ma non è tutto. Vediamo le battute immediatamente seguenti, che non sono certo da meno:
Todd: No, è proprio lì che sta il bello. I cappelli sono effimeri. È come una metafora (…). Joan: Intendi dire, della vita.
Todd: Della vita, certo (…) tu crei bellezza e la bellezza sparisce, mi piace quest’idea (ib.). Il modo in cui Todd mette astrattamente in relazione l’arte con la vita sarebbe accettabile, se non fosse che, nel contesto di riferimento, suona stridente, perché non tiene conto delle vite umane bruciate insieme ai cappelli. L’autrice di una esaustiva analisi critica di Far Away, ha notato come la scena dei cappelli sia carica di impli- cazioni metaforiche complesse, che ci invitano a riflettere sul nostro modo, in qual- che caso altrettanto distorto, di scindere l’arte dalla vita: “Quante volte”, ha osser- vato, “nel venire a conoscenza di qualche disastro naturale – come ad esempio il ter- remoto del 1997 ad Assisi – ci siamo almeno momentaneamente rammaricati della perdita di alcuni tesori artistici – come gli affreschi di Giotto – con maggiore parte- cipazione che non per le vite umane perdute insieme a quei tesori? Si tratta di mera di insensibilità, o c’è qualcosa di naturale e di scusabile in questo genere di reazione (cfr. Dymkowski 2003, p. 60)?
Nella terza parte, lo scenario si dilata e la situazione si presenta ancora più sini- stra. La gente vive barricata in casa, anche se nemmeno quella è sicura, e non ci si può fidare di nessuno, neppure dei propri familiari. Mentre Joan – che adesso è una guerrigliera appena rientrata da una pericolosa missione – è a letto a riposare, nella
MA DA CHE PARTE STANNO I GATTI?
né la pedofilia, il pubblico deve fare i conti con l’inimmaginabile: un piccolo ster- minio programmato, del quale anche Harper è complice, nel garage dietro casa. Poiché non vengono forniti dettagli circa le motivazioni del massacro, né l’identità etnica o razziale delle vittime, si può dedurre che l’obiettivo della Churchill sia quel- lo di smascherare le tante microforme di violenza di cui la società è spesso testimo- ne acquiescente e quindi complice, in nome del mantenimento dello status quo e del bene delle generazioni a venire.
Va sottolineato che sia qui, che nelle altre scene, il momento culminante non coincide con la rivelazione dell’orrore, ma con le argomentazioni che giustificano l’orrore; è raggelante il modo in cui Joan accetta la spiegazione finale di Harper, diventando complice e strumento di perpetuazione di un sistema corrotto e violen- to. Le parole lapidarie e retoriche con le quali Harper mette fine ai dubbi di Joan, sintetizzano atteggiamenti che hanno segnato la nostra storia recente:
Tu adesso sei parte di un grande movimento che vuole migliorare le cose. Devi sentirti orgogliosa per questo. Potrai guardare le stelle e pensare: “eccoci qui, nel nostro piccolo spazio, ed io sono dalla parte di quelli che vogliono mettere le cose a posto”, e la tua anima si espanderà fino al cielo (Churchill 2000, p. 20).
“Posso aiutare anch’io?”, chiede allora Joan. E alla domanda di Harper: “Puoi aiutarmi a pulire domani mattina. Te la senti?”, Joan risponde, “Sì”, senza più domande, né esitazioni (p. 21).
La stessa strategia caratterizza i dialoghi della seconda scena, suddivisa in sei seg- menti corrispondenti al succedersi di cinque giornate. Il quinto segmento, privo di dialoghi, consiste in una singolare “parata”, che vede sfilare sul palcoscenico un serie di comparse – uomini, donne, bambini – vestiti di stracci, incatenati gli uni agli altri, e con in testa grandi e stravaganti cappelli.
La scenografia, sempre minimalista, mostra l’interno di un laboratorio di modi- steria, dove Joan in veste di apprendista e il collega Todd stanno confezionando dei cappelli fantasiosi e coloratissimi. Dai loro dialoghi, improntati alla tecnica della rivelazione graduale, di cui si è detto, apprendiamo che i cappelli sono desti- nati a sfilate la cui frequenza, nel mondo distopico della commedia, è in costante aumento.
Lo scambio di informazioni personali tra Joan e Todd fornisce al pubblico una serie di indizi oscuri e sconcertanti, che suggeriscono altrettanti aspetti di una realtà sociale inquietante, una realtà chiaramente totalitaria che si serve di metodi di sfrut- tamento subdoli, al punto che anche l’arte è involontariamente asservita al potere, e i cui membri – tanto sensibili ai propri problemi personali, quanto ignari del proprio disimpegno sociale – assistono alla quotidiana spettacolarizzazione della violenza come se fosse un fatto normale. Lo spettatore apprende, ad esempio, che Todd sta alzato fino alle quattro del mattino “a guardare i processi” in TV, che Joan, “si sta
cercando una stanza in un sotterraneo”, e ancora che Todd è intenzionato a fare rive- lazioni a un giornalista, pur rischiando il suo posto di lavoro, perché ha scoperto che c’è qualcosa di “corrotto” nel modo in cui vengono fatti i contratti per la fornitura dei cappelli. Motivazione apprezzabile quest’ultima, se non fosse che poco oltre si
quella era l’unica strada per arrivare qui, così alla fine misi un piede nel fiume. L’acqua era molto fredda, ma niente di più. Appena metti i piedi nell’acqua, non sai cosa succe- derà dopo. Comunque vada, senti l’acqua che ti scorre attorno alle caviglie (Churchill 2000, pp. 43-44).
Per dare risalto ai risvolti ecologisti del finale, il regista Daldry fece ricorso a que- sto stratagemma: finito di parlare, Joan guarda il bicchiere d’acqua che Todd le sta offrendo, lo annusa prima di bere, poi, mentre manda giù, le luci si spengono e il sipario cade di colpo (Dymkowski 2003, p. 65).
Qualcuno (cfr. Chaudhuri 2003, p. 132) ha intravisto una interessante analogia tra il messaggio finale di questa commedia e quello del filosofo francese Michel Serres, che nel suo Contratto Naturale, ha scritto: “Dobbiamo decidere la pace tra noi per salvaguardare il mondo e la pace con il mondo per salvaguardare noi stessi” (1990, p. 37). È difficile non essere d’accordo, anche perché Il Contratto Naturale inizia con una affascinante analisi di un famoso dipinto di Goya, quello che rappre- senta due contendenti mentre si prendono ferocemente a bastonate, senza accorger- si che il terreno paludoso, in cui sono già affondati fino alle ginocchia, li sta inghiot- tendo entrambi. Il dipinto, del 1820, si chiama Duelo a garratozas e compendia in modo ideale il messaggio più importante di Far Away, cioè l’assurdità e l’insensa- tezza della guerra.
1Far Away è stato rappresentato per la prima volta a Londra, al Royal Court Theatre Upstairs, il 24 novembre
del 2000. Cast: Annabelle Seymour-Julen nella parte della giovane Joan, Linda Bassett nella parte di Harper, Kevin Mckidd nella parte di Todd e Katherine Tozer, nella parte di Joan adulta. Regista: Stephen Daldry. Scenografo: Ian MacNeil. Luci: Rick Fisher. Suoni: Paul Arditti. Sipario: Alistair Brotchie.
2Cfr. Lucrezio,De Rerum Natura, l. II, vv. 1-4: Bello, quando sul mare si scontrano i venti / e la cupa vastità
delle acque si turba, / guardare da terra il naufragio lontano: / Non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, / Ma la distanza da una simile sorte.
MA DA CHE PARTE STANNO I GATTI?
stessa stanza della prima parte ha luogo una bizzarra conversazione, non priva di numerosi spunti umoristici, tra Harper e Todd, circa una guerra di proporzioni colossali, dove tutto e tutti – uomini, animali, elementi naturali – sono in guerra con- tro tutto e tutti, e quel che è peggio, sembra che i personaggi della commedia si siano tanto abituati alla loro condizione, da considerarla un fatto normale.
In questo scenario di conflitto totale, fioriscono alleanze tanto stravaganti quan- to instabili, sulle quali i due si scambiano informazioni, senza mostrare sorpresa per la loro illogicità. Il lungo elenco, sciorinato con la massima serietà, è esilarante nella sua stravaganza e rivela il talento straordinario di Churchill nell’alternare le associa- zioni più improbabili e originali ad altre che si richiamano a stereotipi della cultura popolare. Le vecchie distinzioni tra gruppi sociali, adulti e bambini, nazioni, esseri umani e animali, si sono disintegrate e prolificano i tribalismi professionali. I gatti, già lo sappiamo, si sono alleati con i francesi, i marocchini stanno con le formiche, i canadesi con i venezuelani e le zanzare, mentre gli ingegneri stanno con i cuochi, i bambini sotto i cinque anni, i musicisti, i venditori d’auto portoghesi, i nuotatori russi, i macellai tailandesi e i dentisti lettoni. I momenti più significativi del dialogo, sono quelli che alludono in chiave parodica ai meccanismi di costruzione, in questo caso “dell’amico”. Ne è un esempio lo scambio di battute sui cervi, che dapprima vengono descritti come vittime, quindi come carnefici e infine, dopo la notizia di un recente rovesciamento di alleanze, giudicati buoni e amichevoli.
Vi sono momenti, nel corso della terza scena, in cui è difficile trattenere la risata, ma per lo spettatore, ormai coinvolto emotivamente e razionalmente nel gioco stra-