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Strani transiti: tracce letterarie di japanese-americans dopo Pearl Harbour 1 Elena Lambert

Henry andò alla Stazione di Controllo per registrare la famiglia. Tornò a casa con venti etichette, tutte numerate “10710”, etichette da attaccare ad ogni bagaglio ed una da appendere ai nostri cappot- ti. Da quel momento in poi, diventammo la famiglia 10710.

I nippo-americani ritratti in fotografie in bianco e nero che documentano il viag- gio che li porta verso i campi di transito o di lavoro rapidamente edificati in Nord America a partire dal 1942, raccontati in vari memoirs scritti prevalentemente da nippo-canadesi di seconda generazione non hanno numeri tatuati sul braccio e non indossano tristi uniformi a righe verticali; la loro situazione, così come si venne a delineare nel periodo 1942-45, non può essere sovrapposta tout court a quella degli internati di Auschwitz per contingenza storica e per l’etica che deve accompagnare il ricordo di quella contingenza storica o, meglio, di quelle contingenze storiche, coeve ma diverse. Esiste, infatti, una differenza fondamentale tra i campi di stermi- nio nazisti e i campi di internamento per nippo-americani (o nippo-canadesi) ed è bene averlo chiaro, senza ambiguità: la razionalizzazione del massacro, la program- mazione scientifica organizzata su modello industriale – la famigerata “soluzione finale” – dello sterminio di massa di ebrei (e con loro di omosessuali, disabili e mala- ti psichici, zingari, prigionieri politici) è qualcosa che non ha mai avuto luogo in Nord America. La “logica” nazista è un cancro a se stante.

Eppure, anche negli Stati Uniti (e in Canada) migliaia di persone sono state rin- chiuse per anni in campi disumani, di volta in volta definiti “di transito”, “di assem- bramento”, di “ricollocamento”, “di internamento” e posti sotto diverse autorità (l’esercito per quelli di assembramento, la War Relocation Authority per quelli di ricollocamento, l’Immigration & Naturalization Service per quelli di internamento), sono state private di una identità, trasformate in numeri. I campi di internamento sul territorio nordamericano diventano una realtà negli anni della seconda guerra mon- diale: per la contingenza bellica, i cittadini di origine italiana, tedesca e giapponese sono considerati enemy aliens e, dunque, nemici in patria. In realtà, lo status di enemy aliens non porta a un trattamento uniforme dei tre gruppi etnici, poiché la condizione dei cittadini o degli immigrati di origine giapponese è decisamente peg- giore di quella dei cittadini o degli immigrati di origine italiana e tedesca. Se per que- sti due ultimi gruppi l’internamento si applica ai soggetti adulti prevalentemente di sesso maschile considerati potenzialmente pericolosi, per il primo l’internamento viene invece imposto all’intero nucleo familiare a partire dal 19 febbraio 1942 per effetto dell’Executive Order 9066, firmato dal presidente Roosevelt. Si tratta, dun- que, di una discriminazione etnico-razziale che si iscrive nella storia dell’immigra- zione giapponese verso gli Stati Uniti e che, implicitamente, porta a una sorta di tipizzazione del “nemico” fondata sulla costruzione di una idea di alterità (razziale) e di pericolosità funzionale più alle politiche interne dell’establishment americano scenderli, i confini di ciò che è culturalmente rappresentabile e significabile, impo-

nendoci un confronto/scontro continuo con i limiti che ci definiscono, e con ciò che non può essere ridotto/ricondotto entro gli schemi rappresentativi delle nostre cul- ture3. A me pare che, proprio per la loro capacità di mettere a tema e in questione la pretesa di una conoscenza totale, esaustiva, il potere illimitato delle risorse della cultura, i due testi che Bernard McGuirk ci ha così efficacemente proposto, appar- tengano a una letteratura indispensabile alla nostra contemporaneità. E, alla luce di queste considerazioni, l’offuscamento del contesto storico trova forse una sua moti- vazione specifica, proponendosi come scelta deliberata, una mossa per far emergere appieno il

1Sulla connivenza dell’antimilitarismo con la violenza bellica nel XXsecolo si vedano almeno tre contributi rile-

vanti: Scarry 1985; Bourke 11999999, Hillman 2004.

Su questo stesso tema, ma con riferimenti specifici alla prima Guerra mondiale sui fronti occidentali si veda il volume ‘seminale’di Fussell The Great War and Modern Memory (1975). Lo stesso tema, considerato nelle sue emer-

sioni letterarie e in ambito britannico, è approfondito in Marzola 2005.

2Secondo Fussell (1975), tutta la letteratura del Novecento, dopo la prima guerra mondiale, sarebbe da rece-

pire come letteratura di guerra. Si tratta di una ipotesi suggestiva e ancora condivisibile, confermata anche dagli esempi di McGuirk.

3Per una rilettura critica provocatoria e stimolante del rapporto tra la cultura e il reale lacaniano cfr. Belsey

2005.

letterarie importanti di un grande trauma della storia nordamericana del xx seco- lo e, soprattutto, sono tracce letterarie che inducono a riflettere non solo su quel trauma specifico, ma anche, più in generale, sul rapporto tra evento traumatico, memoria culturale e storia, poiché la loro scrittura, ricezione, fortuna è stata (ed è) condizionata dalle successive ricostruzioni e riletture storico-culturali di quel trau- ma e delle sue conseguenze visibili e meno visibili; conseguenze complesse e diver- se, nel tempo, per tutti gli attori (i singoli individui che quel trauma lo hanno espe- rito, la comunità dei japanese-americans, la società americana in senso lato, l’esta- blishment statunitense, la comunità internazionale). Inevitabilmente, come accade per tutti i grandi eventi traumatici della Storia, anche l’esperienza traumatica con- nessa all’internamento dei japanese-americans durante la seconda guerra mondia- le, è stata letta e connotata per tappe successive in rapporto al divenire di sistemi simbolici di riferimento e di interpretazione di quello stesso evento traumatico, a loro volta conseguenza del contesto storico, politico e culturale in cui si inscrivo- no, di volta in volta, le strutture di potere che controllano e definiscono la costru- zione di quegli stessi sistemi simbolici e incidono sulla sedimentazione di memo- rie condivise o contese. In questo quadro socio-politico e culturale inevitabilmen- te complesso e dinamico, il segno letterario ha offerto una traccia importante per interpretare i meccanismi che condizionano la costruzione della memoria collettiva e individuale dell’evento traumatico e le sue significazioni per la tenuta o la messa in discussione di una collettività.

Per interpretare il segno lasciato sulla società americana dalle tracce letterarie scritte dai japanese-americans dopo Pearl Harbour, è importante ricordare il proces- so che, nell’analisi di Alexander, ha portato nel secondo Novecento alla universaliz- zazione del dramma dell’olocausto nel mondo occidentale, poiché è questo un pro- cesso che connota la costruzione e la definizione di bene e di male e, implicitamen- te, di moralità, così come pure illumina sui meccanismi che controllano la costru- zione simbolica che trasporta e fissa tali concetti nell’immaginario e nella memoria dei singoli e dei gruppi sociali. È attraverso questo processo di universalizzazione simbolica che l’Olocausto diventa una sorta di scomoda “metafora ponte, di colle- gamento” tra drammi e traumi (Alexander 2003, p. 104), senza che per questo si tolga rilevanza allo specifico dell’Olocausto stesso (sebbene il rischio esista, soprat- tutto in una società mass-mediatica) (cfr. Demaria 2006). E il processo di universa- lizzazione di questo specifico evento traumatico si costruisce anche attraverso la pro- duzione di diverse narrazioni della tragedia originaria. Alexander porta l’esempio dell’impatto avuto, negli anni Cinquanta, dalla pubblicazione del Diario di Anna Frank (e poi delle sue riduzioni teatrali e cinematografiche) per far emergere una nuova dimensione del trauma, definita come “il nuovo dramma del trauma” (Alexander 2003, p. 74), che porta alla “personalizzazione del trauma e delle sue vit- time” (p. 75). Quelli che Aleida Assmann ha definito come “i mediatori della memo- ria” (1999, pp. 165 sgg.), le fonti letterarie, le rappresentazioni cinematografiche, quelle televisive, i repertori fotografici, le riduzioni teatrali, servono a “facilitare l’i- dentificazione psicologica e l’estensione simbolica” (Alexander 2003, p. 77) dell’e- sperienza traumatica; ci si immedesima nella vittima, la vittima diventa una persona qualunque (può capitare, dunque, anche a noi), ma al tempo stesso si è inevitabil- mente portati a riconoscere che il “male” è insito negli individui e nelle società: STRANI TRANSITI: TRACCE LETTERARIE DI JAPANESE-AMERICANS DOPO PEARL HARBOUR 

che giustificata dalla realtà della situazione nordamericana di quegli anni, anche dopo Pearl Harbour. La questione dei nippo-americani è questione che precede e di diverse decine d’anni il raid aereo del 7 dicembre 1941 che porta gli USAin guerra

col Giappone: il primo gruppo di immigrati giapponesi si costituisce nel 1868, (Alameda County, California), il numero cresce rapidamente (dai 2.039 del 1890 ai 24.326 del 1900) e con esso cresce anche la discriminazione fondata su basi razziali e legata a logiche (e fobie) economiche e culturali. Discriminazione che porta alla segregazione (ad esempio scolastica), alla limitazione (ma meglio sarebbe dire proi- bizione) all’acquisto di proprietà (soprattutto terriere), al controllo ferreo dell’im- migrazione (arrestata nel 1924 da un Immigration Act che non garantisce nemmeno più la quota minima stabilita per gli altri gruppi di immigrati europei); e, cosa impor- tante, nel 1922 la corte suprema degli Stati Uniti conferma che “giapponesi e altri asiatici non possono essere naturalizzati ‘per ragioni di razza’” (caso Ozawa vs US).

Ecco dunque che negli USA, la contingenza bellica acuisce una situazione di discri-

minazione che è una realtà di fatto ormai dalla seconda metà dell’Ottocento; dopo Pearl Harbour, la minaccia di una possibile invasione giapponese del territorio della costa occidentale degli USAporta alla enfatizzazione del pericolo giallo e alla costru-

zione di una idea di male e di nemico che trova terreno fertile nella nazione anche perché già iscritta in una storia consolidata di discriminazione culturale e giuridica (cfr. Daniels, Taylor, Kitano, a cura, 1986).

Se l’internamento per italiani e tedeschi (sciagurato sì, ma circoscritto a una categoria ben definita di enemy alien, il potenziale soldato, la potenziale spia, il potenziale collaborazionista) si giustifica o almeno si comprende alla luce della guerra “giusta” contro il nazifascismo e fa parte della logica del conflitto che scon- volge gli assetti propri della società civile, quello dei nippo-americani (applicato su vasta scala, indiscriminatamente, a nuclei familiari estesi, spesso divisi nei vari campi) solleva invece una serie di questioni decisamente scomode per l’establish- ment americano, così come per la nazione tutta; questioni che, nel corso del XX

secolo e a tutt’oggi, sono state affrontate in modo diverso in rapporto al divenire storico e alla costruzione simbolica che ha portato nel tempo a leggere le espe- rienze di discriminazione razziale e di segregazione in rapporto a quello che il teo- rico sociale Jeffrey J. Alexander (2003, cap. 1) ha definito come il “processo di uni- versalizzazione dell’Olocausto” (un processo strettamente connesso alla concet- tualizzazione di universali “morali”, quali il bene e il male, cruciali per le geo-poli- tiche del secondo Novecento e drammaticamente attuali per quelle del XXI seco-

lo). Le ricerche di Alexander nel campo della sociologia della cultura sono parti- colarmente interessanti, sebbene a tratti problematiche (cfr. Lepre 2006), anche per chi si occupa di letteratura e, soprattutto, per chi si occupa di letteratura lega- ta ai grandi eventi traumatici della Storia; dunque sono interessanti per chi si occu- pa di letteratura di testimonianza, un filone eterogeneo che va dalla memorialisti- ca, alla narrativa, alla scrittura di diari, all’autobiografia. È in questo filone che si iscrivono anche le tracce letterarie degli ex internati nippo-americani (e quelle dei loro discendenti), a lungo neglette e recuperate a partire dagli anni Settanta, con enfasi crescente dalla metà degli anni Ottanta. Opere come Citizen 13660 (Okubo

1946), No-No Boy (Okada 1977), Nisei Daughter (Sone 1979), Through Harsh

Winters (Kikimura, a cura, 1981), Desert Exile (Uchida 1982) e altre, sono tracce

zione razziale e, dunque, macchia la moralità di un establishment che non può più giustificare quell’azione semplicemente adducendo lo stato di guerra.

Il dramma dei japanese-americans diventa così, nel tempo, non solo dramma di quello specifico gruppo di enemy aliens, ma anche vero e proprio trauma culturale per la nazione americana:

Un trauma culturale si verifica quando i membri di una collettività sentono di essere stati colpiti da un evento terribile che ha lasciato un marchio indelebile sulla loro coscienza di gruppo, segnando le loro memorie per sempre e mutando la loro identità futura in modi profondi e irreversibili (p. 129).

Nella teoria profana del trauma proposta da Alexander, dunque, la questione dei nippo-americani diventa trauma culturale della società americana, costretta nel tempo a ridefinirsi alla luce della messa in discussione dell’idea di moralità (e dun- que dei principi di “bene” e di “male”) che si attua dagli anni Sessanta in poi. E le suddette fonti letterarie, molte delle quali pubblicate già nell’immediato dopoguer- ra ma poi neglette per oltre due decenni, diventano strumenti importanti da un lato, per recuperare la traccia e il rimosso di quel trauma (tanto a livello individuale che collettivo); dall’altro, proprio perché recuperano quelle memorie, esse partecipano anche al processo di recupero dell’equilibrio che la rivelazione del trauma ha rotto. Le fonti letterarie diventano infatti testimonianze che inducono ad affrontare lo shock della rivelazione e, anche, mediatori strumentali all’ammissione della colpa colletti- va, alla denuncia e, dunque, coadiuvano la definizione di processi culturali e politi- ci di “giustizia” e di “compensazione”. Come ha ricordato Kai Erikson in Everything in Its Path (1976), il dramma collettivo è:

un colpo ai tessuti di base della vita sociale che danneggia le dinamiche che tengono unite le persone e il senso di comunità. Il trauma collettivo si forma in modo lento, perfino insi- dioso, all’interno della consapevolezza di coloro che ne soffrono, di conseguenza non ha la qualità dell’immediatezza normalmente associata con il trauma. Ma è lo stesso una forma di shock, un modo di rendersi gradualmente conto che la comunità come effettiva sor- gente di supporto non esiste più e che una parte importante del Sé è scomparsa (…). Il “noi” come relazione tra due o più cellule in collegamento tra loro all’interno di un più largo corpo non esiste più (pp. 153-154, corsivo mio).

Rispetto al riconoscimento dell’evento traumatico, al contesto che lo ha posto in essere, all’ammissione delle implicazioni che ne derivano per i singoli e per il grup- po, esiste, dunque, uno scarto tra soggetto e collettività; le fonti letterarie, testimo- nianze del trauma prima di tutto soggettivo, servono a far ritornare a poco a poco il ricordo del trauma culturale della e nella collettività (cfr. Friedländer 1975). Il recu- pero del rimosso attuato anche attraverso il recupero e la rivalutazione di fonti let- terarie aiuta ad ammettere il trauma, poiché queste aiutano a manifestare in seno alla vita pubblica i residui della memoria fino a quel momento consciamente o incon- sciamente rimossi e gli effetti nel tempo sul gruppo e sul patto sociale, civico e civi- le che lo tiene insieme (Alexander 2003, p. 135).

Prende forma così un nuovo “linguaggio del trauma”, che è forse una delle situa- zioni che più caratterizzano la riflessione teorica del secondo Novecento e che porta STRANI TRANSITI: TRACCE LETTERARIE DI JAPANESE-AMERICANS DOPO PEARL HARBOUR 

Il messaggio del dramma del trauma, come quello di ogni tragedia, è che il male è dentro di noi e dentro ogni società. Se siamo tutti vittime e carnefici, allora non esiste più un pub- blico che possa distanziarsi in modo legittimo dalla sofferenza collettiva, sia dalle sue vit- time che dai suoi carnefici (…). L’identificazione psicologica con il genocidio degli ebrei e l’estensione simbolica delle sue implicazioni morali oltre le parti immediatamente coin- volte ha scatenato una universalizzazione senza precedenti della responsabilità politica e morale (pp. 71-72, corsivo mio).

In questa prospettiva, raccontare, ricordare un trauma risponde non solo a un bisogno emotivo, ma anche a una ambizione morale. E, infatti, nei primi anni del secondo dopoguerra, il ricordo e il racconto dell’olocausto si iscrivono nella visio- ne di una guerra giusta, combattuta contro il male assoluto (il nazismo e la sua per- sonificazione, Adolf Hitler); in quegli anni, la costruzione simbolica legata a que- sto trauma è dunque controllata soprattutto dall’establishment e poggia sulla defi- nizione di categorie morali nette e condivise, associate all’evento specifico e fun- zionali al consolidamento di un modello sociale, di una idea di democrazia che si fonda proprio su questi valori. Negli USA, il processo di universalizzazione

dell’Olocausto, che lo porta a divenire scomoda “metafora ponte” fra drammi e traumi, si attua piuttosto a partire dagli anni Sessanta, quando il controllo dei mezzi di produzione simbolica inizia a sfuggire all’establishment, insieme a una messa in discussione delle proprie ambizioni morali. È in questi anni che viene seriamente messa in crisi la moralità della leadership americana alla luce dei nuovi eventi storici (il Vietnam, gli scandali politici), documentati in tempo reale dai nuovi media che, in quegli anni, diventano sempre più forme di potere e di con- trollo dei meccanismi che reggono e condizionano il sistema di valori che caratte- rizza la società statunitense; negli stessi anni, la decostruzione della moralità del- l’establishment americano porta anche a rileggere eventi del passato “attraverso una serie di analogie negative col nazismo” (p. 86). I bombardamenti di Dresda (al centro anche del noto romanzo di Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5 [Slaughterhouse- Five] del 1969) o le atomiche a Hiroshima e Nagasaki non sono più solo eventi iscritti acriticamente nella logica di una guerra “giusta” e di una punizione “mora- le”, ma vengono percepiti sempre più come tragedie umane di vasta portata. Si attua, anche in questo caso, un processo di identificazione con le vittime della tra- gedia, di personificazione del trauma che porta alla sua universalizzazione. È in que- sto contesto che si iscrive anche il recupero delle tracce letterarie legate al dram- ma dei campi di internamento per nippo-americani. Tra le ragioni che, negli anni del secondo conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra, hanno portato a riconoscere e tipizzare il nazismo come male assoluto, vi è anche la condanna della discriminazione razziale che è alla base della logica di razionalizzazione del mas- sacro che porta alla soluzione finale. E proprio la discriminazione razziale è al cen- tro delle testimonianze letterarie che ricordano l’esperienza di internamento dei japanese-americans: sebbene nei campi nordamericani non si concettualizzi, né si pratichi la soluzione finale, resta il fatto che un intero gruppo etnico viene discri- minato, segregato, privato delle libertà civili in un modo che oggi viene ricono- sciuto essere stato parziale, arbitrario, ingiusto, incivile, non democratico. È pro- prio il diverso trattamento di questi enemy aliens rispetto agli altri due gruppi di enemy aliens (quello tedesco e quello italiano) che rafforza l’accusa di discrimina-

tempo le dinamiche di costruzione e rimemorazione del trauma e, dunque, la ridefi- nizione dei meccanismi di potere in seno a una stessa collettività.

Nel caso dei japanese-americans, la letteratura porta testimonianza delle diverse forme di partecipazione e di comprensione di uno stesso trauma e acquistano valen- za diversa se lette alla luce della “memoria individuale” o della “memoria collettiva”, anche se, in questo caso, è più corretto parlare di “memorie collettive”; esistono, infatti, diversi gruppi sociali che, nel tempo, si confrontano con le memorie dello stesso evento traumatico in un processo che complica il lavoro di rimemorazione, tanto in seno al gruppo nippo-americano, che nel contesto più ampio della società americana. Quest’ultima, negli anni Quaranta (e anche nell’immediato dopoguerra), non percepisce necessariamente l’internamento dei japanese-americans come grande trauma culturale della nazione: in quella contingenza storica, il dramma (e il conse- guente trauma) è quello legato all’attacco di Pearl Harbour; è solo successivamente, quando inizia ad attuarsi il processo di universalizzazione dell’olocausto, che i tran- sit camps per japanese-americans diventano emblematici del recupero di rimossi sco- modi che inficiano l’immagine di una nazione buona e giusta e rivelano la crisi di una certa idea di moralità nazionale. In questo senso, vale quanto sostenuto da Alexander ovvero che

gli eventi non sono intrinsecamente traumatici. Il trauma è una attribuzione socialmente mediata. L’attribuzione può avvenire in tempo reale, nel momento in cui l’evento accade; ma può avvenire anche prima che l’evento abbia luogo, sotto forma di presagio, o anche dopo che l’evento si è concluso, sotto forma di ricostruzione formulata a posteriori… (p. 138). Ma gli eventi traumatici che precedono il trauma culturale, esistono, sono espe- riti e lasciano tracce fisiche ed emotive. Per la comunità dei japanese-americans, infatti, l’internamento è vero dramma individuale e, soprattutto, generazionale, poi- ché lascia tracce traumatiche diverse a seconda che a ricordare sia un issei (prima