1. Il racconto di Ingeborg Bachmann Tra pazzi e assassini non tratta direttamen- te degli anni terribili, il nazismo, la Shoah, ma li fa rivivere in modo trasversale. Tutto questo fa da sfondo a un momento preciso: quando ex vittime ed ex carnefici sono chiamati a costruire insieme la realtà austriaca, quando nasce una perversa alleanza che soffoca ogni discussione e ogni “racconto” del passato recente. È una situazio- ne che la Bachmann stessa aveva vissuto (cfr. Höller 1999, pp. 50-56), da intellettuale appassionatamente politica quale era, a Vienna, all’inizio degli anni Cinquanta, e che ora - il racconto esce nel 1961 - cerca di far vivere, come “una storia tra molte”, come direbbe la Arendt (1960, p. 226).
“Non ho mai dubitato, che dovesse esistere qualcuno come lei, ma ora lei c’è real- mente, e la mia straordinaria gioia per questo fatto durerà per sempre” (Hahn, Knott 2007, p. 107). Così Ingeborg Bachmann a Hannah Arendt in una lettera del 16 ago- sto 1962, dopo averla incontrata a New York nel giugno dello stesso anno. La Bachmann spera in un nuovo incontro, che, a causa di problemi personali di tutte e due - i postumi della separazione della Bachmann da Max Frisch e la malattia del marito della Arendt - non avrà luogo. In questa lettera chiede anche quando uscirà Eichmann in Jerusalem. Per questo libro la Arendt, poi, proporrà all’editore Piper come traduttrice tedesca proprio la Bachmann, che però rifiuterà perché, come Piper scrive alla Arendt, non si sentiva abbastanza sicura nell’inglese (per tutta que- sta vicenda cfr. Weigel 1999, pp. 462-464).
Nonostante non si siano più incontrate la biblioteca di Ingeborg Bachmann ci indica un interesse persistente per il pensiero della Arendt (cfr. p. 464). Se poi leg- giamo alcuni testi bachmanniani che precedono l’incontro a New York, la gioia espressa nella lettera diventa comprensibile. Sembra proprio che ci sia una Wahlverwandtschaft intellettuale-politica tra le due donne.
Vorrei confrontare il racconto Tra pazzi e assassini, al quale la Bachmann lavora- va ancora nel 1960, e un frammento scritto molto probabilmente durante la sua ste- sura - Auf das Opfer darf sich niemand berufen (A nessuno è permesso appellarsi al sacrificio/alla vittima) - con alcuni pensieri formulati dalla Arendt in La banalità del male. Eichmann in Gerusalemme e in altri suoi testi del periodo 1945-60.
2. Il raccontoTra pazzi e assassini è ambientato a Vienna: “Siamo a Vienna più di dieci anni dopo la fine della guerra. ‘Dopo la fine della guerra’ - ecco come datiamo gli eventi” (Bachmann 1961, p. 89). I “noi” sono un gruppo di uomini che si incon- trano ogni venerdì sera in una osteria per bere, per fumare, per parlare. Come viene spiegato all’inizio del racconto, è una pratica generalizzata degli “uomini”, e le loro mogli, relegate a casa con i bambini, la vivono con rancore:
nire un’immagine piatta e superficiale del passato. Così infatti si esprimeva Kracauer (1927, p. 427): “affinché la sto- ria appaia, la superficie semplice e coerente della fotografia deve essere distrutta”.
3Questo dilemma si è riproposto quando si è organizzata a New York una mostra fotografica sulle foto scatta-
te durante l’attentato al World Trade Center, dove appunto, data la drammaticità dell’evento, si volevano escludere la fotografie dei professionisti.
4Gianni Canova nella sua lezione su “Lo statuto teorico della fotografia”, tenuta per il seminario del dottorato
di ricerca in Letterature e Culture dei paesi di lingua inglese, Università di Bologna, 21 gennaio 2008, ha fatto rife- rimento a questo importante cambiamento semiotico ed epistemologico che la fotografia digitale inaugura e inten- sifica, sia riguardo la “traccia” che al rapporto tra immagine digitale e “reale”.
5“Inconvenient Evidence: Iraqi Prison Photographs from Abu Ghraib”, 17 settembre-28 novembre 2004.
neanche volevano saperlo. Quegli uomini non erano degli assassini, non vi pare? Quelli volevano sopravvivere e guadagnarsi delle onorificenze, pensavano alle loro famiglie, alla vittoria e alla Patria, in quel momento tra l’altro quasi non ci pensavano, allora non ci pensavano quasi più perché erano in trappola (p. 114).
Questi normali padri di famiglia che per poter meglio uccidere usano un linguag- gio “fiorito”, cioè burocratico, come “fare piazza pulita”, “annichilire”, “disinfestare” (ib.), sono paragonabili all’“uomo-massa”, l’esito finale del “borghese”, del quale la Arendt parla in un articolo scritto durante gli ultimi mesi di guerra, nel 1945, Colpa organizzata e responsabilità universale. Criticando la tesi della colpa collettiva dei tedeschi - sarebbe paradossalmente una vittoria della strategia nazista di far coinci- dere il popolo tedesco con il nazionalsocialismo - allarga invece l’orizzonte su un fenomeno internazionale: la trasformazione del borghese pater familias, preoccupato solo di garantire una vita serena a sua moglie e ai suoi figli, “interessato solo alla sua sicurezza”, nel moderno uomo massa che per questa sicurezza, “per la sua pensione, per la sua polizza sulla vita”, “era pronto a sacrificare le sue convinzioni, il suo onore, e la sua dignità umana (…) la sola condizione che poneva era di essere totalmente esentato dalla responsabilità per i propri atti” (Arendt 1945, p. 45).
Questo tipo umano si ritrova nell’organizzatore della macchina di sterminio Heinrich Himmler, e negli uomini e nelle donne che collaboravano alla sua organiz- zazione. Se Himmler è un “borghese” con tutti i tratti esteriori della rispettabilità, “che non tradisce la moglie e che cerca ansiosamente di assicurare un futuro digni- toso ai propri figli” (p. 44), anche la sua organizzazione, a differenza delle precedenti unità delle SSe della GESTAPO, “non si affidava ai fanatici, né agli assassini, né agli
assassini nati; fa invece interamente affidamento sulla normalità dei lavoratori e padri di famiglia” (p. 45).
Nel racconto della Bachmann si parla di guerra, i campi di sterminio restano sullo sfondo, però la radicale “dicotomia tra funzioni pubbliche e private, famiglia e lavo- ro” (p. 47) riguarda sia gli ex-soldati che scappano dalle proprie famiglie per tuffar- si nostalgicamente nella guerra, sia il giovane Friedl, che porta come scusa per pro- babili futuri compromessi con il sistema di Haderer, basato su false riconciliazioni e continuità con il passato, la sua famiglia, i suoi tre bambini.
Un momento centrale del racconto è il dialogo che si svolge tra l’Io e Friedl, quando, disgustati, si rifugiano nella toilette del Kronenkeller. L’Io riflette: “Allora, dopo il ’45, anch’io pensavo che il mondo fosse diviso - e per sempre - in buoni e cattivi, mentre il mondo ora torna a dividersi, ma in base a nuovi criteri” (p. 104). La risposta che il fratello di Herz a Londra aveva dato a Friedl - “Non metterò più piede in quel paese. Non tornerò in mezzo agli assassini” - non lo convince:
“Lo capisco, capisco lui anche meglio di Herz. Benché” dissi lentamente “in realtà non va bene neanche così, va bene solo per un po’, solo finché dura il peggio del peggio. Non si può essere vittime per tutta la vita. È una cosa che non va” (p. 107).
La Arendt potrebbe dirsi d’accordo con questo dubbio dell’Io, in due direzio- ni. Intanto lei si rifiuta di pensare che i crimini nazisti siano qualcosa che riguarda- no solo i tedeschi. Proprio la sua analisi del moderno uomo-massa porta all’ammo- nimento: “faremmo bene a non esporlo a troppe tentazioni nella convinzione, INGEBORG BACHMANN E HANNAH ARENDT TRA PAZZI E ASSASSINI
Le donne giacevano nei loro letti con i sentimenti che provano le vittime, con gli occhi spalancati nel buio, piene di disperazione e di cattiveria. Facevano i conti col matrimo- nio, cogli anni, col denaro della spesa, li manipolavano, li falsificavano, facevano detra- zioni illecite (…). Nel loro primo sogno assassinavano i loro uomini, li facevano morire in incidenti automobilistici (…). Piangevano sui loro uomini partiti in automobile o a caval- lo che non tornavano mai a casa, e infine compiangevano se stesse. Erano queste ultime le loro lacrime più vere (pp. 90-91).
Le donne si sentono come delle vittime, sono piene di odio, disperate, mentre gli uomini fuggono da loro e dalla famiglia, e sono “in cammino verso se stessi”: “diamo la caccia a ciò che di più bello abbiamo perduto, come a un animale selvatico” (p. 89). È importante, lo vedremo, che il racconto inizi con questa divisione di genere, tra vita privata (femminile) e il parlare, lontano dalla famiglia, degli uomini. Il grup- po maschile è composto da cinque uomini più anziani - Haderer, Bertoni, Ranitzky e Hutter, ex nazisti o che seguivano in ogni modo la corrente, e Mahler che invece ha una “memoria di un angelo impietoso, ricordava in ogni momento; aveva sem- plicemente memoria, non odio, possedeva appunto la capacità sovrumana di con- servare tutto e di far sapere a tutti che lui sapeva” (pp. 97-98) - da due più giovani - l’Io narrante e Friedl - e da due ebrei, Herz e Steckel.
Proprio per l’assenza dei due ebrei - Steckel è malato, e Herz è a Londra per pre- parare il suo ritorno definitivo in Austria - “o forse solo perché prima o poi la con- versazione doveva diventare vera” (p. 92), una sera Haderer e Hutter dominano la conversazione parlando della guerra: “non mollavano il tema della guerra nel quale si erano infognati fino al collo” (p. 99), e Haderer arriva a dire: “Non vorrei dover fare a meno di nulla, di quegli anni, di quelle esperienze” (p. 100). Per loro la guer- ra possiede ancora fascino, e di quel fascino in presenza delle ex vittime, degli ebrei, non potevano parlare. Vivono in due mondi separati:
Tutti dunque operavano in due mondi e in questi due mondi erano diversi, due io sepa- rati e mai riunificati ai quali non era concesso incontrarsi. Ora erano tutti ubriachi, face- vano gli spacconi e dovevano passare attraverso il purgatorio in cui gridavano i loro io non ancora purificati, che ben presto sarebbero stati sostituiti dai loro io borghesi, quel- li capaci di sentimenti e di socialità, con mogli e professioni, rivalità e difficoltà di ogni tipo (p. 102).
La complementarità di una faticosa esistenza famigliare e borghese - “quella tomba che è la camera da letto, la nostra prigione, alla quale però ritornavamo ogni volta esausti e pronti a fare la pace, come se avessimo dato la parola d’onore” (p. 91) - e della “follia” tremenda e fascinosa della guerra struttura tutto il racconto. Si inse- risce in questa struttura anche il personaggio del “pazzo”, un paziente del medico Mahler che improvvisamente appare accanto al gruppo raccolto intorno al tavolo, e che con uno sguardo “freddo e morto” racconta la sua storia. Spinto da istinti omi- cidi, alla ricerca di una vittima per sfogare il suo odio, quando però si trova al fron- te, a Montecassino, non riesce a uccidere nessuno:
Per gli altri era semplice, loro svolgevano un compito che gli era stato assegnato, perlo- più non sapevano nemmeno se avevano colpito qualcuno e quanti ne avevano colpiti, e
Nella frase “noi tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri” è indicato non un desi- derio di compromesso, ma una proposta politica. Per arrivare a un vero risanamen- to sociale e politico, che dovrebbe indubbiamente coinvolgere tutti - gli “assassini”, le “quasi-vittime”, e gli oppositori interni al regime nazista come Mahler - invece di affrettarsi a dimenticare insieme, tutti dovrebbero avere la forza di parlare insieme di ciò che è avvenuto negli anni bui. (Credo che alla Bachmann sarebbero piaciute quelle “Commissioni per la verità e la riconciliazione”, pensate e organizzate nel Sudafrica post-apartheid da Nelson Mandela e Desmond Tutu, cfr. O’Hagan 1997).
Ma proprio di portare avanti questo dibattito aperto nessuno sembra avere la forza. Neanche i due giovani del racconto bachmanniano. I discorsi di Friedl e dell’Io si arenano sul concetto di vittima: proprio le vittime (il nonno di Friedl è stato una vittima della monarchia, il padre una dell’era clericofascista di Dollfuss, i fratelli sono stati fucilati come disertori) sembrano essere l’unico aiuto per orien- tarsi. Ma poi sorge il dubbio anche in Friedl: “Non si può fare a meno di star sem- pre dalla parte delle vittime, ma questo non porta a niente, esse non indicano nes- suna via” (Bachmann 1961, p. 107). Perché la morale non serve: “Chi non lo sa che non si deve uccidere?” si domanda Friedl (p. 108). Il discorso morale è decisamen- te inadeguato. Il pazzo, il paziente di Mahler, da soldato non era riuscito a uccide- re non perché più morale degli altri, ma a causa della sua intelligenza e della sua immaginazione. L’Eichmann analizzato da Hannah Arendt, proprio di queste doti era totalmente privo:
Per dirla in parole povere, egli non capì mai che cosa stava facendo. (…) Non era uno stu- pido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità) (…). Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo (Arendt 1963, pp. 290-291)1. Alla fine del racconto il pazzo - che è guarito, che cioè non è più spinto a ucci- dere - sentendo degli ex soldati che nella sala accanto stanno rumorosamente festeg- giando un loro raduno, si alza e va da loro. Né il narratore né il medico Mahler lo trattengono, e il “pazzo” viene ucciso dai “reduci dal fronte” ubriachi. L’assassino è chiaramente una figura paradossale, “grottesca” (Stoll 1991, p. 233), quasi un’alle- goria, la cui funzione è di fare risaltare la normalità degli assassini veri, dei “sani”. L’io, ritornato a casa, scopre su una mano tracce del suo sangue:
Non rabbrividì. Grazie a quel sangue sentii di aver ricevuto una protezione che non mi avrebbe reso invulnerabile, ma avrebbe impedito che da me si sprigionassero le esalazio- ni della mia disperazione, della mia ira, della mia sete di vendetta. Mai. Mai più. Dovessero anche divorarmi questi pensieri da giustiziere che mi erano sorti dentro, non avrebbero colpito nessuno, così come non aveva mai assassinato nessuno quell’assassino ch’era stato soltanto una vittima - una vittima che non è servita a nulla. Ma chi sa queste cose? Chi ha il coraggio di dirle? (Bachmann 1961, pp. 116 sg.)
La morte del “pazzo” viene interpretata dall’Io come un ammonimento a repri- mere gli “hinrichtenden Gedanken”, la sua volontà di fare il giustiziere. Ma ciò che pensa l’Io non è l’unico senso del racconto. Nella formulazione - “Dovessero anche divorarmi questi pensieri…” - ciò che colpisce è la repressione, l’impossibilità di INGEBORG BACHMANN E HANNAH ARENDT TRA PAZZI E ASSASSINI
infondata, che solo l’uomo-massa tedesco sia capace di simili atti efferati” (p. 46). Quando incontrava dei tedeschi che le dicevano di vergognarsi di essere tedeschi, dice di aver avuto “spesso la tentazione di rispondere loro che mi vergogno di esse- re umana”. È per lei cruciale che “questa vergogna elementare, condivisa ai nostri giorni da molti individui delle più diverse nazionalità (…) non abbia trovato anco- ra un’espressione politica adeguata” (p. 47). È da lì che si potrebbe partire, perché da questa idea di umanità
una volta spogliata da ogni sentimentalismo, deriva la conseguenza molto seria che, in una forma o nell’altra, gli uomini devono assumersi la responsabilità per tutti i crimini com- messi dagli uomini e che tutte le nazioni condividono il peso del male commesso da tutte le altre (pp. 47-48).
Dall’altra parte, come la Bachmann, anche la Arendt fa una cesura molto netta tra il comportamento adeguato durante il “peggio del peggio” e il comportamento che si dovrebbe tenere quando non si è più in una situazione di persecuzione. Un testo nel quale questa differenza viene formulata in modo molto esplicito mi sembra essere il suo discorso ad Amburgo in onore di Lessing del 1959. Lì porta un esem- pio molto illuminante:
Nel Terzo Reich, nel caso di un’amicizia tra un tedesco e un ebreo, non sarebbe stato segno di umanità se gli amici avessero detto: non siamo tutti e due uomini? Sarebbe stata nient’altro che un’evasione fuori dalla realtà e fuori del mondo comune a entrambi a quel- l’epoca e non una presa di posizione contro il mondo esistente. Una legge che proibiva ogni rapporto tra ebrei e tedeschi poteva essere elusa, ma non smentita da uomini che negassero ogni realtà alla distinzione. Dal punto di vista di un’umanità che non abbia perso il solido terreno della realtà, un’umanità nella realtà della persecuzione, essi avreb- bero dovuto dirsi: tedesco, ebreo, e amici. In tutti i casi in cui a quell’epoca un’amicizia del genere è esistita (certo questo non vale più oggi!), in tutti i casi in cui è stata mante- nuta nella sua purezza, ossia senza falsi complessi di colpa, da un lato, e falsi complessi di superiorità o di inferiorità, dall’altro, si è prodotta una scintilla di umanità in un mondo divenuto inumano (1960, p. 227).
La sottolineatura tra parentesi - “(certo questo non vale più oggi!)” - mette in guar- dia. Da una fissazione sull’identità razziale, bollata già inColpa organizzata e respon- sabilità universale, ma anche da eventuali “amicizie” opportunistiche, tra un “ebreo” e un “tedesco” nel dopoguerra, come quella che, nel racconto della Bachmann, Haderer ostenta con Herz, e forse anche da “falsi complessi di superiorità” come quella del fratello di Herz.
Con questo ritorniamo al centro del racconto, alla conversazione concitata, tra l’Io e Friedl, nei bagni del Kronenkeller. I due sono fuggiti dai discorsi nostalgici ed esaltati di Haderer e Hutter, e si domandano perché mai accettano di passare le loro serate in questa compagnia. Il narratore afferma:
Io penso che siamo costretti a vivere tutti insieme anche se non possiamo vivere tutti insieme. In ogni testa c’è un mondo e ci sono delle aspirazioni che escludono qualsiasi altro mondo e qualsiasi altra aspirazione. Eppure noi tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo che qualcosa vada a buon fine (Bachmann 1961, p. 105).
merito. Poiché sono consapevoli di ciò e poiché sono ancora tormentati dal pensiero spa- ventoso di ciò che sarebbe potuto accadere, finiscono spesso di introdurre in questo genere di discussioni quell’insopportabile tono di superiorità morale che spesso, e in par- ticolare tra gli ebrei, può trasformarsi - come di fatto sta già avvenendo - nel volgare rove- scio della medaglia delle dottrine naziste (Arendt 1945, p. 43).
Nella Arendt la Bachmann poteva trovare una donna che di fronte ai crimini nazisti non si consolava demonizzandoli o demonizzando il popolo tedesco come facevano tanti intellettuali raffinati, ma che si metteva a riflettere sulle cause della caduta etico-politica delle masse che rende possibili i regimi totalitari. E tra le cause metteva anche la privatizzazione della vita quotidiana, il disinteresse per il bene comune, la fissazione sulla famiglia nucleare. Lo sguardo di estraneità nei confronti di quest’ultima accomuna la Bachmann e la Arendt. È uno sguardo che dà fastidio ancora oggi a molti critici - sia della Bachmann che della Arend - per i quali è incon- cepibile equiparare gli assassini a buoni padri di famiglia, cioè a persone che poten- zialmente esistono ancora, e in tutti i paesi del mondo, anche tra le quasi vittime di un tempo. Ma proprio questo essere comune - l’uomo che non è vittima o colui che è quasi diventato vittima - “è un essere dubbio per eccellenza”, e, secondo Barbara Agnese, la meta dei svelamenti poetici della Bachmann: “l’essere comune che igno- ra la logica sacrificale del proprio comportamento” (Agnese 1996, p. 194).
La Bachmann indaga il rapporto con le vittime, afferma che l’appellarsi alle vitti- me è un “abuso”, e che a “nessun paese, a nessun gruppo, a nessuna idea è permes- so appellarsi ai propri morti”. La Arendt critica, nella sua Banalità del male, proprio l’impostazione “nazionale” del processo a Eichmann:
né nel dibattimento né nella sentenza nessuno accennò mai alla possibilità che lo stermi- nio di interi gruppi etnici (gli ebrei o i polacchi o gli zingari) fosse qualcosa di più che un crimine contro ciascuno di quei popoli: e cioè che colpisse e danneggiasse gravemente l’ordine internazionale, l’umanità nella sua interezza (Arendt 1963, p. 281).
Del resto già nell’articolo del 1945 la Arendt aveva assunto, come abbiamo visto, questa visione di responsabilità globale, dove “tutte le nazioni condividono il peso del male commesso da tutte le altre” (1945, p. 48). Il termine “responsabilità” impli- ca un atteggiamento che è l’opposto del “sich berufen”, dell’appellarsi. Dove “l’ap- pellarsi” restringe all’identità - di razza, di popolo, di religione - il concetto di