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Il caso Hess, così ampiamente illustrato da Daniel Pick, si presta bene a confer- mare molte teorie psicologiche e psicopatologiche. Commenterò questa strana sto- ria clinico-politica solo dal punto di vista che conosco, quello psicoanalitico, ben sapendo che molti altri approcci sono interessanti. Il paziente è un alto gerarca nazi- sta, che dimentica e ricorda in modo molto strano, non si sente in colpa, ma diven- ta coerente nel tentativo di evitare quella condanna a morte che non ha certo rispar- miato a milioni di vittime. Dice cose confuse e quasi contagia gli inglesi che ne dico- no altrettante.

Mi pare giusto che resti aperta la domanda: questo gerarca fuggitivo quanto è davvero patologico e quanto invece simula la patologia per trarne benefici? La stes- sa domanda, appena modificata, si può ripetere per tanti nazisti, attivi o spettatori, perché, come vedremo dopo, dice bene Nielsen (2004), la mente nazista contiene una componente mimetica, presente in ogni essere umano, ma che i nazisti hanno saputo intenzionalmente potenziare con un uso mirato della propaganda.

Nel caso Hess si è molto discusso sulle funzioni del Super-Io. Cerco di riassume- re il pensiero psicoanalitico in proposito.

Nella mente umana il Super-Io rappresenta la funzione normativa, ma anche auto-osservativa (Freud 1932, p. 172), e si considera il prodotto dell’introiezione delle successive immagini dei genitori, in specie nella loro funzione di autorità. Non coincide con la coscienza morale, perché il Super-Io è una figura della meta psico- logia e non dell’etica, perché è in parte inconscio, mentre la coscienza morale è in gran parte nell’area della consapevolezza e pronuncia principi legati a esperienze del presente. Il Super-Io invece si forma nell’infanzia e quindi raccoglie esperienze del passato che possono non essere più coerenti con il presente ed entrare con esso in conflitto.

Nel Super-Io le immagini dei genitori non corrispondono alla loro struttura reale, ma a come sono state percepite e trasformate nella memoria fin dall’infanzia, quan- do essi appaiono necessariamente molto potenti. Il bambino in principio ha neces- sità di identificarsi con figure ben note, ma le vede dalla sua prospettiva infantile. Ciò spiega come figure almeno in parte modeste e ridicole, come oggi appaiono Hitler e Mussolini, possano essere state considerate potenti e affidabili da parte di milioni di nostri nonni e genitori (con qualche residuo infantile). Lo stesso fatto è la causa della rigidità e intolleranza così frequente nelle persone che non hanno potu- to criticare e correggere la propria struttura superegoica, un’evoluzione maturativa necessaria per diventare degli adulti tolleranti e con una buona integrazione tra la diverse funzioni mentali.

8Per i dettagli sui comunicati tedeschi che insistevano sulla sua follia e la sua confusione mentale, cfr. Kershaw

2000, pp. 577-578. Goebbels non sembrò convinto da queste interpretazioni e commentò che se davvero Hess era il pazzo che si voleva far credere, c’era da chiedersi come mai fosse stato consentito a un uomo ritenuto mentalmente instabile di rimanere così a lungo nella cerchia dei fedelissimi di Hitler.

9L’ipotesi che Hess sia stato effettivamente drogato, avvelenato e/o deliberatamente torturato da alcuni dei

medici e dei custodi in Inghilterra è stata avanzata altrove. Nel suo resoconto dettagliato l’autore di estrema destra, David Irving, si sofferma a lungo sulla crudeltà e la cattiveria dei carcerieri di Hess, in particolare di Dicks (cfr. Irving 1987). Secondo Irving, Dicks agiva per ordine dei servizi segreti e il trattamento riservato a Hess risultava crudelmente in contrasto con l’approccio di medici più benevoli. Ne consegue dunque che Hess sarebbe stato spin- to alla pazzia. Tuttavia, dato il sistematico discredito di cui è stato oggetto il lavoro di Irving (cfr., ad esempio, Evans 2001), l’affidabilità del suo racconto e della sua interpretazione della prigionia di Hess in Inghilterra va considera- ta con estrema cautela.

10Per un inquadramento storico, cfr. Winter 2005.

11Alcune considerazioni del testo del 1947 ricordano il materiale clinico analizzato brillantemente da Foucault

nel ciclo di lezioni tenute al Collège de France, Les anormaux (1974-1975). Foucault fa persino riferimento agli innu-

merevoli “piccoli Hitler” ritratti nella letteratura psichiatrica.

sie e le angosce. Questa trasformazione comprende il pensiero psicoanalitico, che a sua volta esprime un cambiamento culturale che ha ampiamente colonizzato la cul- tura occidentale. Ciò vale anche per il pensiero nazista, ma direi meno, a dispetto del fatto storico che il nazismo ha prodotto una montagna di morti e la psicoanalisi pochi. Qui ricordo quanto dice Canetti in Massa e potere (1960): il potere del tiran- no si misura sull’altezza raggiunta dalla catasta di cadaveri dei nemici.

Daniel Pick è interessato a come il pensiero nazista abbia influenzato il nostro modo di pensare. Si possono fare alcune considerazioni.

La propaganda razzista, le leggi razziali, la Shoah, eventi terribili e a lungo incom- presi in quanto impensabili, possiamo pensarli anche come una conferma storica del pessimismo freudiano e della teoria che ipotizza un istinto di morte.

La psicoanalisi, lo disse già Freud “è un affare ebraico”. Logico che lacosa ebrai- ca piacesse poco ai nazisti. I due modelli di pensieri, così poco paragonabili, posso- no avere in comune un’area, usata in direzioni opposte: noi evitiamo per quanto pos- sibile la suggestione, il nazismo intenzionalmente l’ha molto usata. La psicoanalisi cerca di comprendere e trasformare l’aggressività in forme utili di energia, come la competizione, l’ironia e la legittima difesa, il pensiero nazista predilige l’azione aggressiva, secondo un modello arcaico che non contempla ragionamenti. Questo modo grossolano di procedere portò lutti terribili e però anche il fallimento del pro- getto espansionistico. La Germania fu impoverita non solo dei beni concreti, ma anche di una parte colta della popolazione, costretta a emigrare. Si può affermare che il nazismo sia (stato) un caso estremo di prevalenza dell’istinto di morte.

L’antisemitismo nazista costrinse Freud a trasferirsi a Londra e molti analisti europei ebrei a emigrare negli Stati Uniti, in Argentina, in Brasile. Non solo si spo- stò il centro della riflessione psicoanalitica, ma essa fu influenzata dagli eventi e dalla cultura delle nuove nazioni in cui gli europei erano emigrati. La Germania e l’Austria, luogo di origine della psicoanalisi e di tanti altri movimenti culturali, si tro- varono superate da tante altre nazioni, proprio in conseguenza della distruttività del- l’ordinamento nazista.

Allora torno alla domanda: i criminali nazisti e le molte persone che li hanno sostenuti, erano individui normali immersi nella banalità del male o erano delle per- sone un po’ nate e un po’ diventate per forza portatrici di patologia? Ci fanno tre- mare per la possibilità che ci somiglino o possiamo concederci il sollievo di essere diversi? Uno psichiatra, Niels Peter Nielsen che opera in Italia nonostante il nome straniero (capita anche al mio cognome), in anni recenti ha pubblicato interessanti riflessioni, prima da solo (2004) poi in collaborazione con Salvatore Zizolfi (2005), suo collega a Como. Da questi scritti posso trarre importanti riflessioni.

L’universo mentale nazista può essere osservato da tanti punti di vista: politico, storico, antropologico, culturale, mitologico, come anche nella dialettica tra rivolu- zione e restaurazione. Ma per quanto lo si studi e se ne possano comprendere varie parti, tuttavia resta sempre un’area non compresa, perché non pensabile. Una parte del progetto nazista si situa al di fuori della comune pensabilità e infatti per anni non è stato facile credere alle modalità dello sterminio e tuttora vi sono persone, non necessariamente tutte in malafede, che non riescono a rappresentarsi chiaramente questo orribile capitolo della nostra storia, per poterlo pensare.

Dell’universo mentale nazista Nielsen (2004) dà la seguente definizione:

COMMENTO PSICOANALITICO ALLA RELAZIONE DI DANIEL PICK 

In altre parole la psicoanalisi ritiene che il Super-Io, come molta parte della nostra mente, sia una struttura plastica, capace di apprendere e migliorare, e quindi possa maturare, correggere il proprio “fondamentalismo” originario e trasferire alcune sue funzioni al più ragionevole Io. Questa possibilità trova ostacoli diversi, sia nello sviluppo del mondo interno legato alla qualità degli oggetti interni, sia nei pro- cessi gruppali che comportano sempre una regressione, almeno nelle fasi iniziali.

Mi rendo conto che quest’ultima affermazione richiederebbe chiarimenti, che però ci porterebbero fuori tema e a lungo.

È evidente anche oggi l’attrattiva esercitata da comportamenti arcaici e imitativi di riti tradizionali, come piercing, tatuaggio, magia, induzione della trance attraver- so il ritmo. Possiamo chiamare fascinazione un motore di questo processo e definir- lo come l’attrazione esercitata da una persona o un gruppo, a volte una fazione non numerosa, che dichiara di essere stata nel luogo che io ho sognato e di essere capa- ce di portarmici davvero. Melandri e Secchi (1994) ne hanno parlato con compe- tenza. La fascinazione può arrivare all’eliminazione del proprio volere, che è sosti- tuito dalla dichiarata potente volontà del capo e del suo gruppo, col vantaggio di uno scarico di responsabilità propria. Un processo così riesce facilmente in persone poco mature, propense al pensiero magico. Hess ne è un buon esempio, se è vero che cre- desse a rimedi tibetani, medicine omeopatiche e pareri di imbroglioni. È frequente l’osservazione che nella mente di persone, per vari aspetti adeguate e funzionanti, restino aree immature. Non è quindi così incoerente Hess quando dichiara al dottor Dicks che erano stati gli ebrei con malefici e pratiche ipnotiche a indurre i tedeschi a maltrattarli. Egli sembra attribuire proiettivamente agli ebrei le intenzioni malevo- le e i metodi di convincimento subliminale che sono caratteri tipici dell’apparato nazista. Appare chiaro che la persecuzione serve a attribuire all’altro gruppo i con- tenuti cattivi, perciò disturbanti nel gruppo, e a sollevare il proprio dal senso di colpa. Non è sorprendente che delinquenti e pregiudicati di ogni ceto cerchino di attribuire colpe e difetti ai magistrati.

Forse è utile indicare qualche linea di pensiero nell’area dell’aggressività, senza sviluppare tutta la teoria. Sarebbe lungo e noioso. E potrei diventare io stesso ber- saglio di comportamenti aggressivi.

Per cominciare: a proposito di conflitti, abbiamo paura del buio e quindi di non sapere, ma anche di certi chiarimenti che possono darci certezze sgradite. Quando abbiamo paura, la tensione fa aumentare le risposte aggressive.

Il campo delle considerazioni è davvero molto ampio. Vedeva bene Freud quan- do annotava: “L’uomo normale non è soltanto molto più immorale di quanto egli creda, ma anche molto più morale di quanto egli sappia”. Forse è in Totem e Tabù. Fatta questa premessa, possiamo chiederci: i criminali nazisti e anche le molte persone che li hanno sostenuti, erano individui normali immersi nella banalità del male o erano delle persone un po’ nate e un po’ diventate per forza portatrici di patologia? Sono temibilmente come noi, o possiamo concederci il sollievo di essere diversi da loro?

In pochi decenni del XX secolo si sono svolte vicende di enorme portata per le

conseguenze sul pensiero, la storia, l’economia e la politica: due guerre mondiali, l’a- tomica, la Shoah, l’uomo nello spazio, progressi tecnici e medici, il web, il mercato globale. Tutti fatti che modificano il materiale e lo stile con cui costruiamo le fanta-

So bene che in queste occasioni sarebbe illusorio cercare conclusioni. Posso sin- tetizzare qualche idea così: Hess rappresenta il caso della patologia. Eichmann la normalità, la banalità del male.

Hess pensava che qualche medico intendesse corrompere le sue viscere. Sembra un pensiero nato a cavallo tra una depressione maggiore e una difesa paranoidea, con ideazione di frammentazione, putrefazione. Una piccola isola nel mondo inter- no di questo gerarca sembra aver capito e rappresentato in metafora il destino falli- mentare delle idee grandiose e onnipotenti del governo di cui faceva parte. Egli stes- so persecutore di sé.

COMMENTO PSICOANALITICO ALLA RELAZIONE DI DANIEL PICK 

Si tratta di un’organizzazione mentale mimetica, instabile e tendenzialmente reversibile, che, partendo dall’uccisione dell’anima e da un’educazione alienante, attraverso la distor- sione dell’identità e la corruzione superegoica, porta il soggetto verso un assetto perver- so della mente grazie al quale si può liberare della sua stessa violenza senza doverla rico- noscere.

Qui credo che con uccisione dell’anima sia opportuno intendere la soppressione del senso di Sé, la cancellazione dell’identità a favore dell’appartenenza al gruppo tribale, ma anche la soppressione di ogni coscienza morale, anche perché l’autorità si assume ogni responsabilità, anzi ne chiede la delega con giuramento, salvo poi al processo dichiararsi innocente, per aver solo eseguito gli ordini. Una forma di circo- larità perversa, che appare molto più organizzata del nostro italico, noto e più quo- tidiano scaricabarile, ma gli somiglia molto.

Il comportamento umano mimetico può portare a simili aberrazioni. Sì, anche la psicologia sperimentale lo dimostra. Questa mimesis, e chiedo scusa al maestro Auerbach, si attua con una forma di insegnamento e insieme propaganda che mira alla trasformazione dell’identità e del Super-Io in direzione di una struttura perver- sa di gran parte della popolazione. Come accade nelle perversioni il proprio com- portamento aggressivo non è collocato nell’area del Male.

La buona notizia è che questa organizzazione è reversibile. Meno male.

Dunque una patopedagogia può produrre effetti deleteri. Qui si inserisce un capitolo di storia della teoria psicoanalitica. Nella seconda metà dell’ottocento Daniel Gottlob Moritz Schreber (1808-61), fu un medico e ortopedico famoso in Sassonia e oltre. Aveva messo a punto un metodo pedagogico di Ginnastica medica da camera. Ebbe un figlio, che presumo educato secondo i principi paterni, il quale divenne presidente della Corte di Appello di Dresda, e fu anche a lungo ricoverato per paranoia. Pubblicò nel 1903 le sue Memorie di un malato di nervi. Freud (1910) ne trasse un celebre studio sui meccanismi della psicosi paranoidea, dove l’identifi- cazione con il potente padre conduce sia a una scelta di oggetto omosessuale, sia a un delirio mistico in cui il rapporto con il dio-sole è un nucleo importante. La sva- stica è stata un simbolo solare. L’epoca è quella dei prodromi del nazismo, la tema- tica incentrata su riscatto, disciplina, propaganda e perfezionamento fisico, lo ritro- veremo pochi decenni dopo. Il dramma del rapporto padre-figlio cambierà di poco. I padri morti nella prima guerra mondiale, ma anche i reduci sarebbero stati esau- torati dai figli, che poi sarebbero diventati ancora più grossolanamente bellicosi. Freud era e rimase pessimista riguardo alla capacità umana di governare bene l’ag- gressività.

Il pensiero nazista include un programma di espansione, prevaricazione, di profonda ipocrisia che mente sulla morte e sulla vita, misconosce e insieme autoriz- za la violenza. Nel segreto dell’organizzazione perversa del mondo interno, in ogni vero nazista si agita l’illusione di un nuovo mondo: ma è solo un mondo alla rove- scia, un mondo di morte anziché di vita.

Posso aggiungere qualche dettaglio personale: a me la persecuzione non ha cau- sato danni. È stata una concausa dell’apprendimento proprio della lingua tedesca, durante la permanenza come rifugiato in Svizzera, e più tardi della motivazione a essere analizzato e poi analista.