Nel suo The Nigerian Civil War and the Evolution of Nigerian Literature, il criti- co nigeriano Chidi Amuta, riferendosi alla “terza fase” delle letterature postcolo- niali individuata da Frantz Fanon, sottolinea la rilevanza della guerra di secessione del Biafra nella formazione di una coscienza nazionale (cfr. Amuta 1983, p. 86). Sia prima che dopo il conflitto, il panorama nigeriano è caratterizzato da una fiorente produzione narrativa, poetica e teatrale in lingua inglese che, pur riunendo autori di diversa provenienza etnica, non comporta di per sé il superamento di quel triba- lismo che Achebe, nel suo The Trouble with Nigeria (1983), individua come uno dei nodi insoluti della Nigeria contemporanea. Tuttavia, la speranza che, nonostante le divisioni etniche, la Nigeria potesse in ultimo impostare la propria esistenza all’in- segna dell’unità nazionale rimane viva negli intellettuali durante i primi anni del- l’indipendenza (cfr. Neogy [1968] 1997, p. 224). Il conflitto del Biafra (1967-70), con i suoi due milioni di morti e la devastazione dei territori orientali, pone invece radicalmente i nigeriani di fronte alla necessità di ripensare quella nazione – artifi- cialmente creata dall’amministrazione britannica con l’intervento di Lord Lugard, formalmente sancita nel 1914 e mai tuttavia rispondente a una sostanziale unità della popolazione (cfr. Amoda 1972, pp. 16 e 47) – a cui pure continuavano a rife- rirsi i proclami dei governanti o aspiranti tali (cfr. Achebe 1983, pp. 15-17). Inoltre, lontano dall’avere solamente valore politico, l’impatto del conflitto sull’immagina- rio degli autori allora emergenti, profondamente colpiti dalla morte del poeta Christopher Okigbo (1932-67), nonché sulla ricchezza della letteratura nigeriana, rimane incalcolabile: in senso positivo, per le molte opere di rilievo che alla guerra del Biafra si ispirano1, e in senso negativo soprattutto per la distruzione del merca- to di Onitsha, dove si era sviluppata buona parte della letteratura popolare nige- riana. Quest’ultima, nell’analisi di Amuta e non solo (cfr. Obiechina 1973), rimane uno dei filoni centrali della letteratura nigeriana, e dunque sia la devastazione di Onitsha, sia la scomparsa di Okigbo, la cui la voce rappresenta invece quella pro- duzione “alta” più volte accusata di essere eminentemente diretta a un pubblico straniero, non potevano che assumere contorni simbolici nella sensibilità degli intellettuali nigeriani2.
Tuttavia, nonostante il corpus delle “war novels” rappresenti fra l’altro una fonte insostituibile di informazioni per ciò che concerne la quotidianità del conflitto (cfr. Wiseberg 1975, p. 118), la critica occidentale ha dedicato poca attenzione soprat- tutto ad autori come Elechi Amadi, Eddie Iroh e Chukwuemeka Ike, dei quali si vor- rebbe dunque in questa sede discutere Sunset in Biafra (Amadi 1973), Sunset at che le due azioni non sono coniugabili. Più recentemente Madame Ba di Orsenna
(2003) mostra come la militarizzazione del linguaggio burocratico relativo all’emi- grazione porti ai convogli armati che lucrano sui clandestini nel Sahara. Se il con- cetto di lontananza culturale in questo romanzo è ribadito, nel poliziesco Lumière noire (1987) Daenincks già lavorava per attenuarlo: il testimone oculare dell’assassi- nio è un immigrato irregolare fatto rientrare manu militari in Mali con un charter “della vergogna”. Nell’inchiesta il territorio francese si allunga dai foyer parigini fino alla periferia di Bamako. Reti internazionali permettono ai servizi francesi di elimi- nare in mezzo alla savana maliana le tracce di ciò che è avvenuto nell’aeroporto pari- gino, prova evidente di come il fenomeno migratorio richieda griglie concettuali ampie e non retoriche della sicurezza. In campo africano il viaggio verso la metro- poli coloniale, e la conseguente disillusione sono alle origini della letteratura post- coloniale e riproposti in centinaia di modulazioni. Recentemente il tema si allarga a comprendere il fenomeno migratorio: romanzi come Bleu, Blanc, Rouge (1998) del congolese Mabanckou mostrano sia la vita braccata di chi cede al miraggio di un luogo in cui la ricchezza è spudorata, sia il disprezzo della comunità africana che pesa su chi non prova a emigrare o fallisce.
Per i lettori francofoni, è assurdo predicare arcaicità e lontananza come costitu- tive del continente africano. Tale ideale permette invece al cittadino francese (occi- dentale) di abolire la vicinanza dell’Altro e di tutto un periodo di storia coloniale comune. Il poliziesco appare più adeguato ad annunciare un’identità meticcia, in cui riaffiora la “partecipazione” alla base dell’engagement che da sempre fonda la scrit- tura dell’Africa francofona. Come afferma Benoît (2000, p. 37),
è più pertinente vedere nella letteratura engagée una letteratura della partecipazione, che si oppone ad una letteratura dell’astensione: è qui la tensione specifica che pesa sullo scrittore impegnato, nella scelta fra ritrarsi e implicarsi, se non compromettersi, nel mondo, inserendo la letteratura nella vita sociale e politica del proprio tempo.
Dovere di memoria significa anche riconoscimento identitario delle vittime, che abitano una cultura diversa ma definita entro i parametri di un’umanità comune. Il gibutiano Waberi in un recente romanzo parla di “quelle popolazioni dai costumi bar- bari, dai gesti brutali” che depredano le terre di “Auvergna, Toscana o Fiandra”, quei “teutoni, guasconi e iberici arretrati” che senza motivo “versano il sangue dei loro ata- vici nemici”, e che “attendono una pace di là da venire” (Waberi 2006, p. 13).
La storia della ragazza francese che, adottata da una famiglia africana benestante negli “Stati Uniti d’Africa”, misconosce la povera famiglia europea in cui è nata, è nar- rativamente inesistente ma trova una forza umoristica nel semplice rovesciamento dei luoghi comuni. L’effetto di straniamento su cui gioca il romanzo funziona solo perché gli stereotipi conservano tuttora nell’immaginario occidentale un’efficacia terribile.
1Dopo qualche anno sono state pubblicate le opere di Boubacar Boris Diop (Senegal), di Koulsy Lamko e dello
stesso Nocky Djedanoum (Ciad), Monique Ilboudo (Burkina Faso), Meja Mwangi (Kenia), Véronique Tadjo (Costa d’Avorio), Abderaman Waberi (Gibuti), Tierno Monenembo (Guinea), Jean-Marie Vianney Rurangwa e Venuste Kayimahe (Ruanda). Cfr. Valgimigli 2004-2005.
2Il romanzo ha vinto il Prix Polar de Cognac 2004.
121; cfr. anche Amuta 1983, p. 88), giacché esso sembrava, almeno a parole, mirare al benessere della popolazione e non già solamente all’arricchimento personale del- l’apparato governativo.
Se da una parte, dunque, la guerra del Biafra può essere considerata quale esem- pio paradigmatico della triste eredità del potere coloniale e della ancor viva dipen- denza dell’Africa dal Primo Mondo, ogni paragone che esuli dallo specifico conte- sto nigeriano rischia di condurre a percezioni errate di questo conflitto, come le molte sorte all’epoca da parte dell’opinione pubblica internazionale5. Fra queste, vi è l’idea che la richiesta di indipendenza del Biafra fosse la conseguenza di una sfi- ducia, da parte delle popolazioni orientali, nei confronti dell’unità del paese, laddo- ve paradossalmente, come sottolinea Achebe, “In origine, l’idea di una Nigeria uni- ficata era nata nei territori orientali (…). Erano i popoli della Nigeria orientale a pre- mere per un’unica Nigeria” (Neogy [1968] 1997, p. 226). Piuttosto, il problema della conflittualità interetnica trovava motivo d’essere nello stesso assetto federale della Nigeria, nel momento in cui lo squilibrio fra le varie aree conduceva al timore condiviso che solo alcune etnie potessero in ultimo trarre giovamento dalla sparti- zione e gestione delle risorse economiche, timore ingigantito dalla tendenza di alcu- ni programmi governativi a evocare strumentalmente i diritti delle etnie “minori” al fine di contrastare il potere dei gruppi principali (cfr. Emiliani 2004, pp. 84-86). A questo quadro, si aggiunga infine l’esplicito e non sempre richiesto intervento di nazioni come la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica che, preoccupate delle risorse petrolifere presenti in Nigeria, offrirono sostegno concreto alla causa federale, men- tre al Biafra si allearono il Portogallo, in primo luogo, e successivamente la Francia (cfr. Nnoli 1972, p. 130).
La complessità della guerra torna con molta evidenza nelle opere di Amadi e Ike, che concretizzano la sconfitta dell’utopia di un Biafra autonomo, libero e democra- tico, nel “tramonto” che intitola le loro opere, ovvero l’immagine rovesciata di quel senso di speranza racchiuso nello stemma del Biafra indipendente, il “rising sun”. Per quanto riguarda Amadi (1973, p. 23), si tratta piuttosto di una doppia sconfitta, non solo in senso locale, ma anche rispetto alle aspettative delle popolazioni africa- ne nel loro complesso, che dovrebbero a suo avviso, piuttosto che combattersi in guerre fratricide, collaborare per arginare proprio quelle influenze esterne così rile- vanti nel corso della guerra. Questa posizione di Amadi contribuisce a inquadrare meglio quella coscienza nazionale rilevata da Amuta e forgiata per il critico dalla guerra del Biafra, poiché questa ha in effetti anche concorso (paradossalmente, in apparenza) al rafforzamento di un’ottica transnazionale, che inserisce le priorità della nazione nel complessivo quadro africano. Come sottolinea Amuta (1983, p. 86), “nel riconoscere l’emergere delle letterature nazionali in Africa, non è nostra intenzione minimizzare la vitale coscienza panafricanista presente nella nostra lette- ratura”. Il rinnovato interesse degli autori nigeriani per la storia non implica infatti il superamento di quel dualismo costituito, sia in ambito letterario che critico, dalla dicotomia occidentale/africano: una dicotomia che ha a lungo contrapposto coloro che difendevano la necessità di una lingua inglese comune, riconoscendo l’eredità coloniale come storia oramai irreversibile dell’Africa (fra gli altri, Chinua Achebe) e coloro che (come i critici Obi Wali e Chinweizu) si battevano invece per un ritorno a una “africanità” originaria dai contorni spesso imprecisati (cfr. Chinweizu 1984). “WAR NARRATIVES”: LA LETTERATURA NIGERIANA E LA GUERRA DI SECESSIONE DEL BIAFRA
Dawn (Ike 1976), e Forty-eight Guns for the General (Iroh 1976). La rilevanza di queste tre opere risiede non solo nel valore documentario, ma anche nelle modalità di scrittura con cui affrontano il tema della guerra, poiché mentre la rielaborazione della memoria del conflitto è in Amadi affidata a un’autobiografia, Sunset at Dawn e Forty-eight Guns for the General, invece, sono rispettivamente un romanzo storico e un thriller. Questa varietà di generi, caratteristica delle “war novels”, non implica che queste opere introducano novità stilistiche rilevanti, né che propongano nuovi modelli di scrittura; in questo senso, nonostante le “war novels” siano caratterizzate dalla necessità di formulare interpretazioni della realtà politicamente più stringenti, di confrontarsi con il problema della storia e di mediare fra il ruolo di testimoni e quello di “cantori” degli autori stessi, sarebbe senz’altro affrettato definirle qui post- moderne. Ma la difficoltà di applicare la nozione di postmodernismo alle “war novels” così come, in generale, alla letteratura africana senza quanto meno adattar- ne i contenuti (cfr. Appiah 1991), non implica a sua volta che questo corpus non costituisca un punto di rottura nella letteratura nigeriana, una svolta fondamentale per comprenderne lo sviluppo nel trentennio successivo.
Come dicevo, il valore storiografico delle tre opere qui in esame, influenzate dalle distanti posizioni politiche degli autori (Ike e Iroh hanno militato tra le fila dell’e- sercito biafrano, mentre Amadi si è battuto per la causa federale), consiste nel rac- contare aspetti diversi del conflitto quali, da un lato, la quotidianità dei soldati fede- rali (in Sunset in Biafra), e dall’altro, in Sunset at Dawn, la sopravvivenza dei civili biafrani, in particolare della classe media. Infine, l’utilizzo di truppe mercenarie da parte dell’esercito del Biafra è argomento portante di Forty-eight Guns for the General, nel quale Iroh contrappone un pugno di mercenari bianchi (le “quarantot- to pistole”, appunto) al nero esercito biafrano, che essi pretendono non solo di coa- diuvare ma infine di soggiogare al proprio potere; aspetto, quest’ultimo, a mio avvi- so di grande rilevanza, e che verrà in particolare sottolineato nell’ultima parte di que- sto contributo.
La ricostruzione della memoria del conflitto nell’opera di Amadi, Ike e Iroh ci consente di comprendere più a fondo le cause e le dinamiche della guerra del Biafra, a lungo fraintese in ambito internazionale nel momento in cui questo conflitto, agli occhi dell’osservatore esterno, è apparso all’epoca come “tipicamente” africano: in primo luogo per la palese componente etnica (l’odio maturato nei confronti degli ibo da parte delle altre etnie)3, e in secondo luogo per la peculiarità politica del conte- sto storico, visto che la secessione del Biafra venne dichiarata successivamente al golpe dei militari del 1966 e all’insediamento del governo Gowon a metà dello stes- so anno; in breve, l’ennesimo binomio dittatura-tribalismo destinato a confermare uno stereotipo della storia africana che ne polarizza il senso in questi due termini. In verità, occorre inquadrare il caso nigeriano nella cornice della precedente gestione coloniale britannica che, dopo aver applicato politiche eterogenee nei confronti dei vari gruppi, ha in ultimo preteso di unificarli tutti sotto un’unica bandiera (cfr. Amuta 1983, p. 87). Inoltre, la presenza in Nigeria di risorse come il petrolio ha innescato rapporti spesso poco trasparenti fra i governi nigeriani e le multinazionali presenti sul territorio, rendendoli invisi alla popolazione. Per questo, sebbene il 1966 rimanga un anno nero nella storia nigeriana, ragionevolmente Nnoli sottolinea che “Il colpo di Stato del gennaio 1966 fu ben accolto da molti nigeriani”4(1972, p.
ventura” (Ezeigbo 1991, p. 69; corsivo mio). Tuttavia, mi pare tuttavia difficile pre- scindere dal fatto che i mercenari presentati da Iroh siano bianchi, particolare che la Ezeigbo non menziona mai. Molto correttamente, dunque, la critica mette in luce il rapporto dicotomico fra i due protagonisti, e sottolinea come il loro acerrimo scon- tro costituisca fra l’altro una modalità ricorrente del thriller (p. 71). Ma ignorare il tema del confronto razziale presente in Iroh significa sottovalutare due qualità essen- ziali del suo testo: la rilevanza, a livello storiografico, delle delucidazioni che esso fornisce sull’intromissione nel conflitto delle potenze occidentali; e l’importanza, a livello letterario, dei possibili riferimenti ad altri testi che tale tema suggerisce. I qua- rantotto avventurieri bianchi sono infatti convinti a priori, proprio in considerazio- ne della loro supposta superiorità razziale, di poter contribuire alla guerra del Biafra in modo decisivo. Iroh non lesina infatti passaggi in cui i mercenari bianchi si rap- portano in maniera apertamente sprezzante con l’esercito nero loro sottoposto, come quando si riconosce nel conflitto del Biafra una guerra “esoticamente” più complessa delle precedenti affrontate, visto che mentre in quelle regnava l’alta tec- nologia, viceversa “Ciò risultava inappropriato nell’oscura Africa nera (…). Qui pas- sava ancora tutto attraverso la canna del fucile. O forse, nell’Africa più nera, addi- rittura per il taglio affilato del machete, o per la punta avvelenata di una zagaglia” (Iroh 1976, p. 55). Tuttavia la scelta di Iroh di contrapporre una maggioranza nera a una minoranza bianca rimanda a un più vasto corpus letterario, che vede autori di entrambe le generazioni, come Achebe (in Things Fall Apart, 1957) o la Emecheta (in The Rape of Shavi, 1984) confrontarsi con il rapporto conflittuale e numerica- mente impari fra bianchi e neri. Questo rapporto è per molti autori nigeriani un argomento centrale della propria narrativa, dal momento che, anche quando ripen- sato alla luce di nuove prospettive, il più generale rapporto fra Africa e Occidente rimane il fulcro della
1Fra le “war novels” occorre menzionare Casualties (John Pepper Clark, 1970), Madmen and Specialists (Wole
Soyinka, 1971), Girls at War and Other Stories (Chinua Achebe, 1972), The Anonimity of Sacrifice (I. N. C. Aniebo,
1974), The Last Duty (Isidore Okpewho, 1976), Divided We Stand (Cyprian Ekwensi, 1980) e Destination Biafra
(Buchi Emecheta, 1982). Quest’ultimo rappresenta uno dei pochi esempi di scrittura femminile sulla guerra, e sin- tetizza l’assai meno retorico approccio delle donne al conflitto, dovuto non solo ai lutti sofferti ma soprattutto all’al- tissimo tasso di stupri del periodo (cfr. Bryce 1991, p. 30). Va infine segnalata una importante produzione poetica in lingua hausa fiorita nella Nigeria settentrionale in relazione alla guerra (cfr. Furniss 1991).
2Ciò non implica che questi ultimi siano stati esclusivamente vittime del conflitto; al contrario, in un’intervista
del 1968, Achebe sottolinea come molti di loro avessero giustificato i linciaggi e le aggressioni avvenute all’epoca, sia nel Nord del paese che nella capitale, a carico degli ibo (cfr. Neogy [1968] 1997, pp. 222-224), rendendosi così colpevoli di sottovalutare l’impatto stesso di quegli orrori che pure, fra il maggio e il settembre 1966, provocarono già fino a centomila morti (cfr. Emiliani 2004, pp. 83-84).
3In The Trouble with Nigeria, Achebe (1983, pp. 45-50) sottolinea come l’ostilità nei confronti degli ibo deri-
vasse dal loro benessere economico, dalla loro proverbiale laboriosità e da un livello di istruzione superiore alla media, mentre Bamisaiye (1974, p. 31) la riconduce a una propaganda sostenuta, a suo avviso, anche dalla stampa internazionale.
4La traduzione dall’inglese all’italiano delle citazioni sono a mia cura; i riferimenti bibliografici si riferiscono
però all’edizione originale, non esistendo una edizione italiana di questi testi.
5“Molti americani, ad esempio, tendevano a leggere il conflitto in analogia alla Guerra Civile Americana. I russi
la comparavano a quanto era accaduto nel Congo-Kinshasa quando il Katanga aveva dichiarato la secessione dallo Stato unitario della Repubblica del Congo, e molti Stati africani discussero del conflitto tradendo una profonda paura per una possibile balcanizzazione” (Nnoli 1972, p. 119); errate percezioni della guerra derivavano anche dagli imprecisi reportage della stampa estera (cfr. Bamisaiye 1974).
“WAR NARRATIVES”: LA LETTERATURA NIGERIANA E LA GUERRA DI SECESSIONE DEL BIAFRA
Piuttosto, gli autori si vedono costretti ad adeguare il proprio punto di vista, già da tempo impegnato sul fronte civile e politico, a una Nigeria non più, come all’alba dell’indipendenza, “semplicemente” suddivisa fra le sue varie eredità culturali e in attesa di una riorganizzazione, ma ora alle prese con problemi dapprima sopiti o addirittura sconosciuti: i repentini flussi migratori, la devastazione dei territori orientali, l’odio insanabile fra le varie etnie coinvolte nei massacri del 1966, e così via. Nazionalismo e maggiore attenzione per il dettaglio storico sono dunque ele- menti complementari, che, senza sostituire il quadro culturale precedente, al con- trario lo arricchiscono.
Per quanto riguarda invece Sunset at Dawn, la necessità di conciliare un raccon- to storico documentato con quella di una trama fittizia caratterizza palesemente que- st’opera (cfr. Amuta 1983, p. 94), nella quale l’autore effettua una ricostruzione attenta (e pensata, suggerisco, per lettori non nigeriani) delle tappe della guerra. Amuta, che riconosce nel romanzo di Ike un esempio lampante delle nuove priorità degli autori nigeriani, sorvola però sulla caratteristica principale di quest’opera, che è l’ironia. I protagonisti, docenti dell’Università della Nigeria a Nsukka in fuga man mano che le truppe federali avanzano, vengono infatti presentati da Ike con tratti quasi caricaturali, come figure patetiche e senza nerbo, concretizzando la scelta del- l’autore di aggiungere un sorriso, sia pure a denti stretti, a una realtà altrimenti disperatamente tragica. Questa scelta mi pare degna di nota laddove anch’essa, al pari del rinnovato scetticismo di Amadi nei confronti della sua terra, è significativa della svolta letteraria impressa dal conflitto, che si risolve in un distacco dell’autore dall’opera, in una rappresentazione più scientifica e meno filosoficamente o ideolo- gicamente orientata di quelle che avevano caratterizzato la produzione dei primi anni dell’indipendenza.
Delle tre opere qui in esame, Forty-eight Guns for the General è invece la più imprecisa, sebbene a mio avviso la più interessante. Erroneamente Amuta la defini- sce detective fiction (p. 96), laddove successivamente la Ezeigbo (1991, p. 67) rico- noscerà invece nel romanzo un eccellente esempio africano di thriller, genere che, parallelamente alla detective fiction, si afferma in Nigeria nel corso degli anni Sessanta del Novecento conseguentemente alla diffusione di autori come sir Arthur Conan Doyle, Edgar Wallace e Agatha Christie. Inoltre, “Gli eventi drammatici della guerra, il ruolo del soldato professionista (…) e l’introduzione della guerra mecca- nizzata (…) offrirono agli scrittori la giusta atmosfera” (p. 68). Certamente, l’opera di Iroh, laddove ritenuta “popolare”, potrebbe essere considerata un’eredità della letteratura di Onitsha. Ma a mio parere la sua rilevanza risiede piuttosto nell’essere conforme allo spirito di quella seconda generazione di autori, come Femi Osofisan e Buchi Emecheta, che viene usualmente opposta alla prima generazione (quella dei grandi maestri, da Achebe a Wole Soyinka) soprattutto per ciò che concerne il fine, spesso polemico, della loro opera, e una politicizzazione esplicita che deriva proprio dalle conseguenze sociali, economiche e culturali della guerra. Per quanto concerne Iroh, la Ezeigbo riconosce tale intento polemico solamente nella scelta dell’autore di rappresentare nello scontro fra il protagonista positivo, il colonnello Chukwemeka Chuma, e il negativo personaggio del mercenario Jacques Rudolf, le problematiche della guerra: “Iroh analizza il disastroso impiego dei mercenari da parte del Biafra, e nel fare ciò rivela la natura brutale, opportunistica e corrotta di tutti i soldati di