• Non ci sono risultati.

1. Mito RAF

Molti ricorderanno il grande scalpore suscitato sulla stampa internazionale, nel- l’estate del 2003, dalla notizia che una galleria di Berlino stesse preparando un’e- sposizione che recava il titolo provvisorio di “Mythos RAF”. Gli allestitori divennero

oggetto di un’autentica campagna diffamatoria, la mostra venne congelata e con la denominazione Zur Vorstellung des Terrors: Die RAF-Ausstellung (La rappresentazio-

ne del terrore: l’esposizione sulla RAF) si tenne soltanto un anno e mezzo dopo, fra il

gennaio e maggio del 2005. Anche adesso a due anni dalla conclusione della mostra, l’interesse politico, mediatico e culturale nei confronti della RAFnon accenna a dimi-

nuire: che si parli della richiesta di grazia di Christian Klar, che si recensisca il fon- damentale volume, uscito nel 2006, a cura di Wolfgang Kraushaar e dall’amburghe- se Institut für Sozialforschung, che si parli dell’ennesimo film in preparazione sul tema (lo sta girando Andres Veiel ed è tratto dal volume di Gerd Koenen intitolato Vesper, Baader, Ensslin) che si dia spazio alle prese di posizione di Bettina Röhl, la figlia di Ulrike Meinhof (vedi sotto), non c’è mese che gli organi di stampa non tor- nino a confrontarsi con questo nodo irrisolto della storia tedesca occidentale. Al momento della stesura di questo saggio (luglio 2007) si può soltanto immaginare quale valanga mediatica si riverserà fra pochi mesi, nell’ottobre del 2007, allorché ricorrerà il trentesimo anniversario dell’autunno tedesco.

Nelle pagine che seguiranno fornirò qualche breve cenno sul ruolo svolto dalla figura di Ulrike Meinhof all’interno di quel controverso fenomeno che passa sotto la definizione di “mito RAF”. Le mie considerazioni saranno precedute da un succinto

riepilogo di quelle che ritengo le componenti decisive di tale mito così come esso è stato creato e recepito dapprima nella sfera pubblica e poi soprattutto nelle arti (al riguardo cfr. soprattutto Galli 2004a; 2006, Kraushaar 2006).

Le principali componenti sono sostanzialmente quattro. La prima si basa sull’o- mologia talora esplicita ma il più delle volte implicita fra il radicalismo del gesto arti- stico e il radicalismo del gesto politico. In quelle stesse settimane del giugno 1972 in cui, con un’operazione di intelligence che non avrà eguali né prima né dopo, le forze dell’ordine mettevano a segno, nell’arco di soli quindici giorni, un colpo dopo l’al- tro, catturando rispettivamente a Francoforte, Amburgo e Hannover, le quattro figu- re di massimo spicco della prima generazione della RAF, Andreas Baader e Holger

Meins, Gudrun Ensslin, Ulrike Meinhof, Joseph Beuys espone a Kassel un’opera fortemente provocatoria: un paio di ciabatte di feltro, slabbrate, aperte, piene di

Perché dal 1998? Il ’98 è l’anno di scioglimento della RAF, ed è l’anno in cui di

fatto si poteva considerare conclusa quella lunga marcia attraverso le istituzioni auspicata trent’anni prima da Rudi Dutschke, nel ’98 saliva infatti al governo Gerhard Schröder, un governo che vedeva come ministro degli Interni, Otto Schily, ex avvocato della RAF, e come ministro degli Esteri Joschka Fischer, una delle figure

di spicco dell’azionismo di piazza di Francoforte soprattutto all’epoca degli sgombri coatti delle case occupate. La fin da subito marcata componente pop del mito RAF,

che – per così dire – aveva per anni continuato a covare sotto la cenere, scalzata da altri ben più vistosi Diskurse, come quello di cui tra un attimo dirò, è tornata da allo- ra prepotentemente a farsi largo, dando luogo a una serie di prodotti letterari, arti- stici e di costume che hanno appunto delineato una sorta di ri-contestualizzazione di quelle antiche icone. Anche qui ricorderò qualche esempio: il famoso servizio di moda del 2001 uscito su una rivista di tendenza che indusse lo «Spiegel» a ribattez- zare la RAFcome “Prada-Meinhof-Bande”), postumi inni alla RAFda parte di nume-

rosi gruppi rock composti da musicisti magari all’epoca delle gesta terroristiche appena nati, il biopic dedicato a Baader dal regista tedesco Christopher Roth, uscito nel 2002 (Galli 2004a; Kreimeier 2006).

Ai due elementi costitutivi del mito visti fin qui – la RAFcome paradigma del radi-

calismo e, fin dai tempi delle azioni incendiarie di Francoforte, come icona pop – ne va aggiunto un terzo che potremo definire come l’elemento sacrificale. A differenza dell’ultimo aspetto trattato, che è situabile soprattutto negli anni di formazione del gruppo, nel periodo della clandestinità, questo si cristallizza, invece, negli anni della prigionia, soprattutto nel triennio che va dal novembre del 1974 all’ottobre del 1977, segnato, com’è noto, dalla tragica morte – nell’ordine – di Holger Meins (novembre 1974), Ulrike Meinhof (maggio 1976), Gudrun Ensslin, Andreas Baader e Jan-Carl Raspe (ottobre 1977). Le circostanze altamente drammatiche che hanno presieduto alla morte dei principali esponenti della RAF(come detto, Holger Meins muore per

uno sciopero della fame, Meinhof e Ensslin morte impiccate, Baader a colpi di pisto- la), la mai del tutto chiarita dinamica dei fatti hanno costituito materiale primario per la creazione di una mitologia appunto sacrificale, una mitologia del lutto. Pur non ancora direttamente “artistiche” le prime manifestazioni in tal senso risalgono già al 1974; si tratta di immagini di clamoroso impatto mediatico relative alla morte di Holger Meins: le foto del cadavere composto nella bara, con il viso coperto da un’enorme barba che conferisce al defunto un’iconicità profetica e sacrale e le imma- gini, trasmesse da tutti i telegiornali, del funerale con il primo piano sul futuro mini- stro degli Interni Otto Schily, e Rudi Dutschke che alza il pugno chiuso sulla tomba di Meins esclamando: “Holger, der Kampf geht weiter!” (“Holger, la lotta conti- nua”). Di lì a tre anni si compie il passo verso la trasfigurazione stavolta apertamen- te artistica e (mito)-poetica del sacrificio; ciò avviene nel film collettivo Germania in autunno uscito nel 1978, a cui parteciparono alcuni fra i massimi registi dell’epoca (da Kluge a Reitz, da Schlöndorff a Fassbinder). Fra le molte di cui si potrebbe par- lare ricorderò soltanto la sequenza conclusiva, quella del funerale dei terroristi, che, pur ricca di tutte le più collaudate tecniche di straniamento a cui ci ha abituati Alexander Kluge sancisce, nei minuti finali quando attacca Here’s to you di Joan Baez, la colonna sonora di Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, che i terroristi morti, di cui adesso si sta celebrando il funerale, sono i nuovi martiri (“that agony is DA OFELIA A MARIA STUARDA: L’ICONIZZAZIONE DI ULRIKE MEINHOF 

margarina, in ciascuna di esse è infilato un lungo gambo di rosa rinsecchito con un cartello di protesta e con su scritto: “Dürer, io guido di persona Baader+Meinhof attraverso Documenta V”. Non è questa la sede per analizzare le caratteristiche di

questa complessa opera. Quel che importa è che Beuys ha inaugurato una tradizio- ne: da allora, tramite una serie di strategie testuali, para-testuali e iper-testuali, gli esempi volti a creare l’omologia di cui dicevo sono stati innumerevoli. Ne cito alcu- ni: il quadro di Vlado Kristl intitolato Die Verhaftung von Ulrike Meinhof (La cattu- ra di Ulrike Meinhof) che sconvolse nel 1976 a Mannheim l’esposizione della Lega degli artisti tedeschi, il film Moses und Aron (Mosè e Aronne) del 1974 di Jean Marie Straub e Danielle Huillet, dedicato a Holger Meins morto nel novembre di quel- l’anno per le conseguenze dello sciopero della fame, il progetto cinematografico Deutschland im Herbst (Germania in autunno) coordinato da Alexander Kluge e – l’esempio forse maggiormente noto – il ciclo intitolato 18. Oktober 1977 (18 ottobre 1977) di Gerhard Richter, quindici opere, ora di proprietà del MoMa di New York, nelle quali l’artista utilizza le foto dei principali esponenti della RAF– prima della cat-

tura, durante la prigionia in carcere e soprattutto alla fatidica data di cui al titolo – trattandole, trasformandole e sfuocandole, secondo una tecnica di cui si è frequen- temente servito. Altri esempi li vedremo più avanti.

In parallelo a questa componente, anzi, forse, a ben vedere a essa preesistente, è quella che si potrebbe definire l’isotopia pop interna al mito RAF, un’isotopia che

nasce già prima della fondazione della RAF, ossia negli anni 1968-69, in occasione

dei primi attentati incendiari nell’aprile del 1968 ai grandi magazzini di Francoforte da parte di Andreas Baader e Gudrun Ensslin, iconizzati come novelli eroi male- detti alla Bonnie e Clyde, celebrati da famosissime foto apparse sulla stampa tede- sca: nell’atto di guardarsi, sorridenti e casual, sul banco degli imputati al processo oppure personaggi para-godardiani protagonisti di una serie di foto, rese note solo in seguito, scattate in un bar parigino, durante la temporanea fuga dalla Germania in attesa della revisione del processo. Tali foto e più in generale le gesta della gene- razione dei fondatori della RAFhanno alimentato un diffuso interesse quando non

un’autentica mitologia nella cultura popolare: si pensi a Joe Strummer, il leader dei Clash, che si esibiva con T-Shirt con sopra il logo della RAF(e anche delle BR) ma

pensiamo anche a un musicista raffinato come Brian Eno, che incise un pezzo inti- tolato RAF. Ciò ha permesso a Thomas Elsaesser di giocare sull’ambiguità del ter-

mine “Band”/“Bande” e di parlare della RAF altrimenti detta “Baader-Meinhof-

Bande” come della unica vera band tedesca, l’unica vera espressione politica, cul- turale e mediatica uscita dalla rivolta del ’68, altrimenti, per quanto attiene alla Germania, così astratta, così cerebrale, insomma l’unico vero equivalente tedesco degli “street fighting men” evocati dai Rolling Stones nel loro famoso album del 1968, Beggar’s Banquet. Tecnicamente la gran parte dei fenomeni risale all’epoca in cui ancora la RAFnon era stata fondata (la fondazione risale al 1970), ma l’idea di

Elsaesser (2000), seppur da applicarsi alla fase precedente, quella degli attentati incendiari, non è priva di un suo fondamento. Se in quegli anni ispirarsi alla RAFo

a ciò che presto sarebbe diventata la RAFsignificava in qualche modo condividerne

il disegno politico, a partire dal 1998, allorché l’isotopia pop è tornata brutalmen- te ad affermarsi, la ri-contestualizzazione è avvenuta nel segno di una totale spolia- zione della carica rivoluzionaria di quel disegno politico.

ra e alle opinioni della guerriera e guerillera Meinhof. Più in generale tuttavia l’iti- nerario intellettuale, la severità e irriduciblità morale della Meinhof mal si prestano all’iconizzazione pop, prova ne sia che il cinema, senza dubbio l’ambito artistico in cui la RAFha riscosso più attenzione e che talora ha finito per indulgere a trasfigu-

razioni pop, si è tutto sommato disinteressato della Meinhof (la troviamo solo in contesti rigorosamente documentari come nel film di Reinhard Hauff intitolato Stammheim del 1986).

Troviamo una Meinhof parodizzata in una pièce grottesca del 1999 intitolata Rinderwahnsinn (Mucca pazza), opera del drammaturgo John von Düffel, una sorta di rivista postmoderna in cui si racconta di una specie di Addams family in versione post-unitaria, in cui la madre si chiama Muttermeinhof (Mammameinhof, scritto tutto insieme) che passa il suo tempo a costringere il figlio fascistoide a scrivere su dei documenti di rivendicazione in bianco con il vecchio logo della RAF, per cento

volte “der Kampf geht weiter” la frase di Dutschke al funerale di Holger Meins frase che il figlio non esita a smontare e rimontare esplorando tutte le possibili varianti, esasperando la madre.

Molti dei testi incentrati sulla figura della Meinhof, inoltre, possono essere como- damente considerati testi ad alto tasso sperimentale e a loro modo radicali, a comin- ciare con quello che va visto come lo Urtext ossia la Hamletmachine di Heiner Müller del 1977 che, come dimostrano i corposi materiali da cui è stato distillato il brevissimo testo finale, ha molto scritto e trascritto sul complesso RAF, e in partico-

lare, come vedremo tra un attimo, sulla figura da lui ritenuta come la più significati- va, ossia appunto Ulrike Meinhof. Peraltro Müller avrebbe voluto che la casa editri- ce Suhrkamp, cui la Hamletmachine era in origine destinata, riproducesse una foto del cadavere di Ulrike Meinhof; l’indisponibilità da parte di Siegfried Unseld, il tito- lare di Suhrkamp, fece saltare la pubblicazione che uscì in prima battuta presso il Rotbuch Verlag. Una qualche traccia della presenza della Meinhof si trova ancora nei due monologhi di Ofelia, rispettivamente la seconda e la quinta parte del testo. Cito dal secondo:

Io sono Ofelia. Quella che il fiume non ha trattenuto. La donna con la corda al collo. La donna con le vene tagliate. La donna con l’overdose. SULLE LABBRA NEVE. La donna con la testa nel forno a gas. Ieri ho smesso di uccidermi. Sono sola con i miei seni, con le mie cosce e con il mio grembo. Faccio a pezzi gli strumenti della mia prigionia la sedia il tavolo il letto. Distruggo il campo di battaglia che era la mia dimora. Strappo le porte perché possa entrare il vento e il grido del mondo. Mando in frantumi la finestra. Con le mani insanguinate strappo le fotografie degli uomini che ho amato e che mi hanno usato a letto a tavola sulla sedia per terra. Do fuoco alla mia prigione. Getto nel fuoco i miei vestiti. Mi strappo l’orologio dal petto che era il mio cuore. Esco sulla strada vesti- ta del mio sangue.

Tramite la ribellione di Ofelia Müller intende alludere a donne che si fanno sog- getto rivoluzionario con un atto di violenta emancipazione che può trasformarsi anche in autodistruzione sacrificale, come appare chiaro al più tardi nell’episodio finale dove Ofelia torna in scena in carrozzella, tutta fasciata, a proclamare il pro- prio credo nichilista sotto le spoglie di Elettra: “Viva l’odio, il disprezzo, la rivol- ta, la morte”.

DA OFELIA A MARIA STUARDA: L’ICONIZZAZIONE DI ULRIKE MEINHOF 

your triumph”, così suona il verso più forte della canzone di Joan Baez), le vittime di una palese ingiustizia, che, al pari dei due anarchici giustiziati in America, sono stati anch’essi brutalmente “liquidati”.

La quarta e ultima isotopia non è di tipo strettamente tematico ma attiene – si potrebbe dire – al genus, alla Gattung. La RAFè stata spesso oggetto di dissacrazio-

ne parodistica, ciò che per certi aspetti non ha fatto altro che esaltarne ulteriormen- te lo statuto mitico. Nel 1978, l’anno in cui esce nelle sale Germania in autunno, Fassbinder gira Die dritte Generation uno dei tre titoli di film diventati di fatto idio- ma: è da allora che si parla di una non si sa fino a che punto realmente esistita “terza generazione” della RAF, dopo la prima dei “fondatori” e la seconda, quella che nel

1977 aveva rapito Schleyer, così come è diventato idioma, dopo il film di Kluge & Co il “deutscher Herbst”, l’autunno tedesco, così come è diventata idioma dopo il film di Margarethe von Trotta la “bleierne Zeit” (“gli anni di piombo”). Il film, incentrato su un gruppo eterogeneo di sedicenti e velleitari terroristi, ormai privi di qualsivoglia progetto politico, racconta le loro schermaglie, i preparativi di fanto- matiche azioni, tutto un complesso intreccio di delazioni, connivenze, secondo le tipiche perverse dinamiche di gruppo e di coppia che ben conosciamo nei film di Fassbinder. Commettendo un grave errore strategico e risultando alla fine le mario- nette di un disegno che non sono mai riusciti a manovrare i terroristi decidono di rapire un industriale di computer (interpretato da Eddie Constatine, il Lemmy Caution di una serie di film di spionaggio francesi e, opportunamente rivisitato, di Jean-Luc Godard) e mettono in opera materialmente tale azione nelle scene finali del film, quando, l’ultimo giorno di carnevale, travestiti e mascherati in modo ridi- colo, danno l’assalto all’automobile con a bordo la vittima. La sequenza del rapi- mento e successivamente le numerose ed estenuanti prove per il video da far perve- nire ai familiari del rapito rappresentano un ricalco parodistico del rapimento Schleyer, intendono decostruire la scena primaria dell’“autunno tedesco”, volgere in farsa la tragedia della Germania.

2. Martiri e regine

Studiando l’eterogeneo materiale disponibile è possibile, riguardo a Ulrike Meinhof, rintracciare a ben vedere esempi testuali che delineano ciascuno dei quat- tro aspetti segnalati; troviamo ad esempio una Ulrike Meinhof in versione pop in uno spettacolo del 2002, intitolato Alzheimer 2000 ideato e allestito all’opera di Bonn dal batterista del gruppo industrial “Einstürzende Neubauten” Frank Martin Strauß e da Andreas Ammer, in cui il personaggio della Meinhof, interpretato dalla nota cantante rock di origine iraniana Jasmine Tabatabai recita e soprattutto canta dei songs, fra i quali spicca quello intitolato Burn warehouse burn, che riprende un famoso slogan in voga sul finire degli anni Sessanta, inneggiante alle gesta incen- diarie di Baader e Ensslin e riferito in verità dunque a una fase in cui la Meinhof ancora non si era unita al gruppo. È solo a prezzo di clamorose sconfessioni della verità storica che sono possibili rappresentazioni come quelle di Ammer e Strauss, autori qualche anno prima di un assai più significativo radiodramma intitolato Deutsche Krieger (Guerrieri tedeschi), la cui terza parte era tutta dedicata alla figu-

mo contemporaneamente al suicidio di Ulrike che qui avviene tramite un agghiac- ciante taglio della lingua, e a due soldati/macellai che schiacciano il corpo della donna fra due lastre di plexiglas, in un gesto che è a un tempo un’impiccagione e un’iconizzazione visto che Ulrike viene trasformata in una sorta di poster in carne e ossa. Lo spettacolo rappresenta non solo il primo esempio nel teatro tedesco di espli- cita celebrazione in chiave sacrificale del mito Meinhof ma anche un’attenta e reite- rata riflessione su quella deriva iconizzante che di fatto rischia di svuotare il poten- ziale rivoluzionario, una deriva che avrebbe raggiunto il proprio massimo dispiega- mento nel decennio successivo.

Sono molti i testi dei tardi anni Novanta e dei primi anni del nuovo secolo di cui potremmo parlare, oltre a quelli già citati ma mi soffermerò brevemente per conclu- dere sul testo che negli ultimi due anni ha costituito una di quelle ricorrenti riattua- lizzazioni, anche mediatiche, del “mito-RAF”, di cui parlavo all’inizio. Dal giugno del

2005 è presente sull’aggiornatissimo e ricchissimo sito di Elfriede Jelinek (premio Nobel del 2004) un testo di circa sei pagine tratto da un dramma intitolato Ulrike Maria Stuart. Il testo nella sua forma completa è stato presente sul sito soltanto 48 ore, alla fine di febbraio del 2006. La casa editrice Rowohlt interpellata direttamente da me ha affermato all’incirca un anno fa che il testo della pièce, per volontà dell’autri- ce non sarebbe stato per il momento pubblicato, e infatti a tutt’oggi la pièce è inedi- ta. Il 28 ottobre 2006 ha avuto luogo la prima rappresentazione del lavoro al Thalia Theater di Amburgo con la la regia di Nicolas Stemann. Alla prima rappresentazione amburghese hanno fatto seguito allestimenti in altre città tedesche: Hannover; Berlino, Monaco. La prima rappresentazione è stato in dubbio fino all’ultimo perché come già in altre occasioni nella vicenda si è intromessa la figlia di Ulrike Meinhof, Bettina Röhl, da sempre in rotta di collisione con i media tedeschi, ritenendosi di fatto l’unica legittimata a parlare sul conto della propria madre. Stavolta, per soprammer- cato, Bettina Röhl riteneva che si configurasse anche il reato di lesione dei cosiddetti Persönlichkeitsrechte (i diritti della persona), una fattispecie che nei media tedeschi viene evocata sempre più spesso. Il reato nascerebbe dal fatto che tra i vari personaggi della prima parte della pièce ve ne sono anche alcuni denominati “Die Prinzen im Tower”, i “principi nella torre” (evocativi del Riccardo IIIdi Shakespeare), che posso-

no presentare alcune analogie con le gemelle Bettina e Regina Röhl, le figlie di Ulrike e del marito Klaus Rainer Röhl, abbandonate dalla Meinhof in una baraccopoli nel Belice, allorché la madre a partire dal 1970 scelse la via della clandestinità e riacciuf-