Grazie alla pace che si stava concludendo tra Carlo V e i collegati italiani, tra la seconda metà di dicembre 1529 e il gennaio 1530 le sorti dell’assedio volsero a favore degli imperiali, e furono molte le guarnigioni fiorentine che si arresero senza combattere o che vennero sconfitte una a una. A pesare sugli equilibri militari delle forze in campo fu l’arrivo di rinforzi per l’esercito assediante. Carlo V, conclusa la pace con Venezia ritirò infatti tutte le sue truppe dall’Italia settentrionale, e le inviò in Toscana. Già il 12 dicembre un rapporto di Giannozzo Capponi, da Pietrasanta, segnalava l’avvicinamento di reparti spagnoli, giunti nei dintorni di Camporgiano.25 Pochi giorni dopo, il 15 dicembre alcune compagnie di “lanzi” tedeschi, che portavano al seguito le artiglierie pesanti, partirono da Ferrara e da Bologna in direzione di Firenze. Si trattava, secondo quanto racconta il Guicciardini, di «quattromila fanti tedeschi, dumila cinquecento fanti spagnoli, ottocento italiani, più di trecento cavalli leggieri, con venticinque pezzi d’artiglieria»: un’armata di ottomila uomini, che quasi raddoppiava le forze assedianti e soprattutto permetteva di chiudere l’accerchiamento della città.26
A Firenze il Consiglio degli Ottanta stava valutando la possibilità di ritirare le truppe da Pistoia e Prato, per evitare che la calata degli imperiali le isolasse all’interno delle due città. Meglio, si diceva, farle venire a Firenze, dove avrebbero potuto contribuire alla difesa. Si trattava di una scelta sbagliata, perché l’abbandono di Pistoia e Prato avrebbe consegnato senza colpo ferire nelle mani degli imperiali una delle più importanti arterie di comunicazione che giungevano in città, consentendo al nemico di isolarla totalmente. La concentrazione di tutte le forze disponibili a Firenze sarebbe stata ragionevole soltanto nel caso si volesse affrontare gli imperiali in una battaglia campale. Ma non era così, anche se a prevalere fu l’opinione di chi voleva disporre tutte le forze della Repubblica sulle mura cittadine.
Della questione i vertici fiorentini avevano iniziato a discutere già il mese precedente, e il dibattito fu caratterizzato da continui ripensamenti. Dopo la perdita di Peccioli, il timore che l’episodio potesse ripetersi portò la Pratica a elaborare una strategia mirante al controllo soltanto di alcuni punti-chiave del territorio: Pisa, Livorno, Empoli, Pistoia. In particolare occorreva tenere aperta la strada che attraverso Campi raggiungeva Prato,27 e a questo scopo furono date disposizioni al commissario campigiano di fortificare il castello.28 Agli inizi di novembre, su proposta dei Dieci, fu discussa anche la possibilità che Campi «si sfasciasse» (cioè se ne abbattessero le mura), perché in caso di conquista non potesse essere di utilità al
24 ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 150, c. 200r.
25 Giannozzo Capponi ai Dieci, 12 dicembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 149, c. 292rv. 26
F. GUICCIARDINI, Storia…, III, p. 2037.
27 ASF, Consulte e pratiche, 71, cc. 118r-120r, 25 ottobre 1529.
nemico che da lì avrebbe potuto lanciare operazioni sia contro Prato sia contro Firenze.29 Il 14 novembre la decisione, per quanto riguardava Prato, era stata di «tenerlo a ogni modo»:30 e per Pistoia la scelta, almeno in un primo momento, dovette essere dello stesso tenore. Per verificare la fattibilità di questa ipotesi Leandro Signorelli, uno dei più valenti ingegneri militari agli ordini di Malatesta Baglioni, era stato inviato dai Dieci a valutare lo stato delle difese pistoiesi e pratesi.31
A Pistoia era commissario Niccolò de’ Lapi, che proprio in quei giorni era stato affiancato da Agostino Dini, per agevolare i preparativi militari.32 Di fronte alle preoccupazioni avanzate dal Dini in merito, il 5 dicembre i Dieci chiarirono che «noi siamo disposti a difendere cotesta terra ad ogni modo, ma che bisogna che loro – cioè gli stessi abitanti – s’aiutino».33
Il giudizio espresso dal Signorelli sulle fortificazioni pistoiesi fu comunque negativo. Con una lettera inviata il 7 dicembre, chiariva che fortificare Pistoia sarebbe stato troppo dispendioso, e che anche avendo a disposizione mille guastatori non sarebbero bastati quaranta giorni di lavoro.34 Troppi, considerando le segnalazioni che già si avevano sui movimenti nemici al di là dell’Appennino: quello stesso giorno la Pratica discusse dell’abbandono di Pistoia, dalla quale avrebbe dovuto esser tratta qualsiasi cosa utile, dalle armi agli argenti, passando per legname e vettovaglie.35
Da parte del Signorelli la stessa valutazione, pochi giorni dopo, sarebbe stata data anche sullo stato di efficienza delle fortificazioni di Prato, dove si trovava commissario Lottieri Gherardi.36 Nei giorni seguenti, le comunicazioni tra Firenze e i commissari di Pistoia e Prato si fecero frenetiche, e si svolsero molto spesso in cifra, per mantenere la massima segretezza sul piano di evacuazione che si stava preparando. Il 13 dicembre il Dini scriveva nuovamente a Firenze, avvertendo di aver ricevuto notizie da Barga in merito a movimenti di un grosso contingente nemico in Garfagnana. Due giorni dopo il commissario pistoiese chiedeva ai Dieci di essere sollevato dall’incarico e congedato, poiché considerando «il partito di non
29 Ivi, cc. 121v-125v. Contrario all’ipotesi di una distruzione di Campi fu l’influente Alfonso Strozzi, la cui famiglia aveva tradizionalmente molte proprietà nel castello sul Bisenzio. Secondo lo Strozzi «se e capitani consigliono che Campi si disfaccia, facciasi; ma a lui parrebbe si guardassi, facendo molte comodità et che guarda tutto el paese». Ancora alla fine del mese Campi era guardata da una compagnia di soldati fiorentini, il che fa ipotizzare che le sue difese fossero ancora in ordine: cfr. le lettere dei Dieci a Francesco Bardi, 25 novembre 1529, in ASF, Dieci di Balia. Missive, 104, c. 90v; e a Michelangelo da Parrano, 30 novembre 1529, in ASF, Dieci di Balia. Missive, 105, c. 88rv. È comunque da notare che proprio al periodo dell’assedio di Firenze sembra risalga lo smantellamento del lato orientale delle mura campigiane: non è chiaro a questo punto se questo sia avvenuto a seguito della conquista degli spagnoli o se fu deliberatamente attuata dagli stessi fiorentini. Sull’argomento si veda A. MONTI - F. SZNURA, “Riparo della città”. Il castello di Campi nel
Trecento: un caso di ristrutturazione urbanistica, Campi Bisenzio, Metropoli, 1997, p. 36.
30
BNCF, Magliabechiano, XXV, 535, p. 161.
31 Leandro Signorelli da Perugia era stato condotto agli stipendi della Repubblica il 4 dicembre 1529, come «capitano di tutte le artiglierie di detta lor Excelsa Repubblica Fiorentina con amplissima autorità sopra quelle»: ASF, Dieci di Balìa. Deliberazioni, condotte e stanziamenti, 66, c. 16v.
32
Il Dini era arrivato a Pistoia il 26 novembre, come si evince dalla sua lettera ai Dieci del giorno successivo : cfr. ASF, Dieci di Balìa. Responsive, c. 242rv.
33 I Dieci ad Agostino Dini, 5 dicembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Missive, 104, c. 112r. 34
Leandro Signorelli ai Dieci, 7 dicembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 149, c. 150r. 35 ASF, Consulte e pratiche, 71, cc. 129r-132r, 7 dicembre 1529.
pigliare la difesa di questa città, la persona mia qui sarebbe invano»; chiarendo comunque, con un’ulteriore missiva, che gli uomini di Pistoia si trovavano «sbigottiti», ritenendo «V.S. sieno per abandonnarli».37
I pistoiesi non avevano torto: per riprendere il giudizio formulato da Eric Cochrane, il ritiro fiorentino fu l’ennesima dimostrazione di come la città Dominante non dovesse nulla al suo Dominio.38
Il piano fiorentino prevedeva che da Pistoia sarebbero state evacuate per prima cosa le artiglierie e i munizionamenti, da far arrivare a Firenze con una buona scorta di armati per garantire la sicurezza del trasporto. Le restanti bande di fanteria sarebbero dovute andare per il momento a rafforzare la guarnigione di Prato, almeno fino a quando non fosse stato deciso di abbandonare anche quella piazza. Per assicurare il buon successo dell’operazione era stato nominato anche una sorta di super-commissario ad acta, Pieradovardo Giachinotti. Il 19 dicembre il Giachinotti fu mandato a Pistoia, sfidando la cavalleria imperiale di Ferrante Gonzaga che proprio in quelle ore scorazzava nella piana tra Firenze e Prato. Una colonna fiorentina fu sorpresa dal nemico e impegnata in una lunga battaglia che si concluse però con una sonora disfatta: sul terreno, secondo il rapporto sullo scontro scritto dal principe d’Orange, rimasero duecento soldati della Repubblica, mentre gli imperiali si impadronivano di tutti i carriaggi.39 Così narrò i fatti il Gonzaga:
«domenica di tre hore avanti giorno, con circa 300 cavalli mi puosi in imboscata appresso il fiume sotto Fiorenza circa mezzo miglio et quando mi parse tempo che già era alto il sole passai il fiume per due vadi, vicini l’uno al altro meno di due tiri di arcobuso, per il primo più propinquo alla terra feci passar circa cinquanta cavalli per corridori, i quali incontrando la scorta de nimici dove erono circa 200 arcobusieri et una compagnia di 40 cavalli del signor Paulo da Marciana, si dieron la carica dui et tre volte l’una parte al altra. Alla fine premendo la moltitudine delli arcobusieri furon li nemici costretti a ritirarsi più che di passo per ritrovar il vado del fiume, et già essendo entrata una parte nel aggua sopraggiunsi io con l’altra gent passate per l’altro vado di sotto, et demo adosso a costoro di tal sorte che delli 200 arcobusieri pochi restorno che non fossero amazati de’ cavalli alcuni restorno prigioni ma la maggior parte si salvò nella terra per haverla tanto propinqua che a noi non fu spatio di poter dare loro la caccia».40
Due giorni dopo i Dieci inviarono al Lapi e al Dini l’ordine di ritirata, del quale fu informato anche il commissario pratese Gherardi. Secondo gli ordini, le artiglierie provenienti da Pistoia avrebbero dovuto arrivare prima a Prato, e da qui trasferirsi a Firenze per la via di Campi: lungo la strada, la colonna sarebbe stata raggiunta da un contingente fiorentino che le sarebbe andato incontro uscendo dalla città.41 A complicare l’operazione giunse però inaspettata la
37 Lettere di Agostino Dini ai Dieci del 13, 15 e 16 dicembre 1529 : in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 149, cc. 312r-313r; Responsive, 150, cc. 22rv e 62r.
38
COCHRANE, Italy ...,p. 13. 39
«Yer, fut rompu aux ennemys leur escorte dela l’eau entre Prato et Florence, et ores que le combat durant longuement les nostres gaygnarent et les mirent tous en piesses». Filiberto di Chalon a Carlo V, 20 dicembre 1529, in HHStA, LA Belgien, PA 68.3, c. 72rv.
40
Ferrante Gonzaga al marchese Federico, 25 dicembre 1529, in ASM, Archivio Gonzaga, 1109, c. 630v. 41 Cfr. le lettere dei Dieci scritte tra il 19 e il 21 dicembre 1529 ad Agostino Dini, allo stesso Dini e a Niccolò de’ Lapi e a Lottieri Gherardi : in ASF, Dieci di Balìa. Missive, 104, c. 136v; 139v-140v; e 140v-141r.
conquista imperiale del castello di Calenzano, borgo murato a breve distanza da Prato. Qui si trovava commissario Agnolo Anselmi, con un piccolo manipolo di trenta fanti il cui compito era quello di sorvegliare la via pratese: troppo pochi per opporsi alle bande tedesche, agli ordini del conte Ludovico di Lodron, che provenienti dal bolognese calarono sulla piana fiorentina attraverso il Mugello.42
Il 21 dicembre il Gherardi, da Prato, informò con una lettera in cifra i Dieci della caduta del castello: «sono arrivate due bandiere a Calenzano et hannolo preso perché no vi era più che sei persone perché il resto era ita fuori standovi col commissario».43 La presenza del nemico in una località così vicina, e per di più posta lungo uno dei principali percorsi tra Prato e Firenze, rendeva più rischioso il rischieramento delle truppe fiorentine.
A Pistoia intanto tutto era ormai pronto per la ritirata. Il 22 dicembre Agostino Dini scrisse nuovamente a Firenze, spiegando di aver già «carico tutta la polvere e buona parte delle artiglieria da mura» in vista dell’evacuazione. Resteranno invece «tre pezzi di artiglieria grossa la quale no veggiamo modo mandarlli». Lo stesso giorno, da Prato, il Gherardi consigliava di cominciare a ritirare anche le artiglierie pratesi, passando lungo la via di Campi, la quale era considerata «per hoggi secura, benché ci si mandarà scorta».44
Pistoia venne abbandonata nel pomeriggio del 23 dicembre. Quella mattina, dopo una consultazione con i capitani, il Lapi e il Dini decisero di sguarnire completamente la città, ritirando tutte e sette le bande di fanteria. «Ci è parso – scrissero a Firenze i due commissari, che attendevano l’arrivo di Pieradovardo Giachinotti per affidargli il comando della colonna – havendo V.S. bisogno delle genti mandarlle a ogni modo», e che la colonna si sarebbe mossa «alla volta di Prato, e si discosteranno quel più sarà possibile da Calenzano».45 In pratica, il percorso scelto fu la strada maestra fiorentina (nota anche come via Pistoiese), fino al Poggio a Caiano, e da qui verso Prato dove avrebbe dovuto realizzarsi l’ammassamento delle truppe. Il Giachinotti però non arrivò mai a prendere il comando della colonna pistoiese. In quelle stesse ore la Signoria aveva infatti deciso di abbandonare anche Prato. L’ordine era stato inviato al Giachinotti proprio il 23 dicembre: «ci siamo resoluti – scrivevano i Dieci – che tu ti parta con coteste genti et con tutto quello che potrai portare faccendo la via di Campi».46 Il Giachinotti obbedì; e mentre la colonna pratese muoveva verso Firenze, i cinquecento uomini che componevano la guarnigione pistoiese – sotto la guida dei capitani Giovanni e Michele da Pescia, che forse non erano stati debitamente informati dei dettagli
42 Il conte Ludovico di Lodron (1484-1538) aveva abbracciato fin da giovane il mestiere delle armi, sotto le bandiere del cognato Georg von Frundsberg. Ricordato per aver concesso il Campo della Muda di Lodrone per lo svolgimento del duello, originato da motivi amorosi, tra Fabrizio Maramaldo e Gian Tomaso Carafa (3 agosto 1523), il Lodrone partecipò alla battaglia di Pavia nel 1525 e al sacco di Roma nel 1527. Morì nel 1538, durante la guerra contro i turchi. Catturato durante una battaglia, il Lodrone fu decapitato, e la sua testa portata in trionfo a Costantinopoli. Sul personaggio si veda il recente G.POLETTI (a cura di), Ludovico Lodron. Un personaggio
del Cinquecento tra mito e storia, Tione di Trento, Centro Studi Judicaria, 2008.
43 Lottieri Gherardi ai Dieci, 21 dicembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 150, c. 158r. 44
Cfr. le lettere di Lottieri Gherardi e di Agostino Dini ai Dieci del 22 dicembre 1529 : ivi, cc. 187r e 190r. 45 Niccolò de’ Lapi e Agostino Dini ai Dieci, 23 dicembre 1529, ivi, c. 209rv.
dell’operazione – «se ne andarono in ordinanza e colle bandiere spiegate», raggiungendo poche ore dopo Prato.47
Quasi contemporaneamente, vedendone sortire la guarnigione, i lanzichenecchi del conte di Lodron cercarono di penetrare all’interno delle mura pratesi, come il conte stesso scrisse in una lettera al principe d’Orange:
«pensavamo oggi intrare in Prato per che li soldati del ditto locho lo havevano lassato ma agionti qua havemo trovato che gli sono entrati dentro sette insegne di fanti che venneno da Pistoglia quale hanno abandonata: per quanto havemmo inteso li ditti fanti si partiranno da lì per Fiorenza, forsi questa notte, ali quali volentiera haveria fatta una imboscata ma simo gionti tardi et siamo inexperti del paese».48
All’alba del giorno di Natale, un tentativo di assaltare la città fu respinto dalla nuova guarnigione pratese: ma nel riferire ai Dieci del successo, il commissario Gherardi li sollecitava anche a prendere una decisione definitiva sull’abbandono di Prato, dove ora si trovavano 800 fanti, con poche riserve di polvere e senza artiglierie.49
L’ordine di ritirata arrivò probabilmente nella stessa sera del 25 dicembre. Poche ore più tardi, con il favore delle tenebre, «Prato (…) colla medesima imprudenza s’abbandonò, e quando mandarono poi una parte delle loro genti per far prova o di ricuperare una terra o l’altra – cioè Prato o Pistoia – v’erano di già entrati i nimici, e sì grossi, che non parve loro di tentare di cacciarneli».50 Francesco Baldovinetti, che assisteva agli eventi dalla sua abitazione fiorentina, scrisse nei suoi appunti che «in Firenze si consultò che s’abbandonasse Prato (...) e fu una triste cosa per Firenze abbandonarlo, chè si serrarono e assediarono per tutte le vie».51 Il 26 dicembre entrambe le città abbandonate dai repubblicani venivano occupate dai lanzichenecchi venuti dalla Lombardia52. Conquistate Pistoia e Prato, le armate imperiali dilagarono nella piana fiorentina, da sempre “ventre molle” della difesa della città. Nel castello di Campi si trovava, dall’ottobre 1529, una guarnigione formata da cento fanti agli ordini di Francesco de’ Bardi, che tuttavia non bastò per garantire la sicurezza del castello. L’episodio della conquista di Campi da parte degli imperiali è piuttosto oscuro, perché sull’argomento le poche fonti disponibili sono estremamente concise, ma sembra probabile che con la ritirata da Pistoia e Prato anche le truppe di stanza a Campi abbiano abbandonato la piazza.53 Da una fonte d’epoca sappiamo che tra i comandanti dell’esercito imperiale inviati da Carlo V a rinforzare l’assedio di Firenze c’era anche lo spagnolo Pedro Velles de Guevara, comandante della milizia dei Bisogni. Secondo alcuni autori si trattava di mercenari spesso
47 V
ARCHI, I, p. 734. I due commissari pistoiesi, il Lapi e il Dini, temendo forse di cadere nelle mani degli imperiali, se ne andarono invece in direzione opposta, e si rifugiarono a Lucca, da dove il giorno di Natale scrissero un’ultima volta ai Dieci (ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 150, c. 260r).
48 Ludovico di Lodrone a Filiberto di Chalon, 24 dicembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 150, c. 230r.
49
Lottieri Gherardi ai Dieci, 25 dicembre 1529, ivi, c. 245rv. 50 V
ARCHI, I, p. 735. 51 B
ALDOVINETTI, p. 40. 52
Carlo Cappello al doge Andrea Gritti, 26 dicembre 1529, in ASF, Carte Strozziane, Seconda serie, 31, cc. 140r-141v.
53 A.M
senza paga, che si erano guadagnati il loro appellativo per aver sempre “bisogno” di qualcosa, necessità alla quale provvedevano razziando le campagne. In realtà il termine bisoños, in spagnolo, significa “reclute”: c’è da chiedersi semmai se il nome gli derivasse dal fatto di essere effettivamente truppe fresche, o non piuttosto veterani rotti a tutte le malizie della guerra, che magari si facevano chiamare in questo modo per scherzo, esercitando il proprio umorismo da caserma con un’antifrasi.
Il Guevara guidava un contingente di circa 4000 uomini, che negli ultimi giorni di dicembre avevano stabilito il loro campo nei pressi della Badia Fiesolana, mentre i “lanzi” provenienti dalla Lombardia si erano acquartierati a San Donato in Polverosa. Furono i reparti del Guevara a occupare la piana fiorentina, attestandosi a Campi e Peretola. Quando e in che modo questo avvenisse, non è chiaro: ma dovette essere tra la fine di dicembre e i primi giorni di gennaio del 1530, come pare si possa dedurre da alcuni raffronti cronologici contenuti nella Storia del Varchi. Dopo l’occupazione, il compito di amministrare Peretola e Campi fu affidato dagli spagnoli a Francesco Valori e Zaccaria di Battista Strozzi (due fiorentini che militavano nel campo cesareo), e il castello campigiano divenne luogo di concentramento per i pezzi di artiglieria degli spagnoli. «Eransi in questo medesimo tempo – il gennaio 1530 – condotte l’artiglierie dei nimici, tutte rotte e conquassate, parte a Campi e parte in Peretola, alla guardia delle quali era venuto Pietro Velleio con forse mille Spagnuoli di quelli, i quali per ischerno si chiamavano Bisogni», scrisse il Varchi.54
Mentre gli eserciti assedianti occupavano i principali centri della pianura, attestandosi sulla riva destra d’Arno, ai confini del dominio fiorentino le lontane fortezze di Pietrasanta e di Motrone – rimaste tagliate fuori dai contatti con la madrepatria – aprivano spontaneamente le porte agli imperiali. Negli stessi giorni seguirono la stessa sorte Signa, nella piana fiorentina; Nipozzano, sulle colline a sud della città; e Montepulciano, in Valdichiana.