Nei due mesi a cavallo tra il 1529 e il 1530 la guerra nella Romagna fiorentina si era inasprita. Ai primi di dicembre alcune bande papaline, 600 uomini in tutto, avevano assalito Rocca San Casciano, ma erano stati respinti dalla piccola guarnigione locale e si erano quindi diretti su Tredozio. Il commissario fiorentino ancora una volta era uscito da Castrocaro in soccorso del borgo appenninico, ma non era poi riuscito ad agganciare il nemico in combattimento.58
Il Carnesecchi scriveva a Firenze lamentandosi dei pochi uomini a sua disposizione, e chiedendo almeno trecento fanti di rinforzo: altrimenti, diceva «diveneremo preda delli inimici crudeli i quali son sitibondi del sangue nostro per haver mostro quella fede che ci ha tenuto sotto di quelle».59 I rinforzi effettivamente arrivarono: ma erano soltanto cento uomini, al comando dei capitani Bate e Corbizo.
I nemici si erano intanto avvicinati a Monte Poggiolo, l’avamposto della rocca di Castrocaro, con 2000 fanti e 400 cavalli, ai quali si dovevano unire le forze di Balasso de’ Naldi dal Mugello.60 Contrariamente alle aspettative dello stesso Carnesecchi, le forze papaline, non avendo ottenuto da Forlì artiglierie sufficienti a tentare l’impresa, non mossero però verso Castrocaro, quanto piuttosto verso i passi appenninici. Il Carnesecchi sentiva di dover cercare battaglia, per non vedersi chiudere le ultime vie di comunicazione con Firenze. A Rocca San Casciano, una delle principali piazzaforti della Romagna fiorentina, la guarnigione era di quattrocento uomini, sotto il comando del commissario Giovanni de’ Rossi. Una settimana prima di Natale questi aveva informato il Carnesecchi circa movimenti di truppe nemiche in direzione di Calboli, invitando il commissario generale a sortire da Castrocaro con cinquanta archibugieri, per tendere un’imboscata al nemico e stringerlo in una tenaglia. Fedele all’accordo, il Carnesecchi uscì dalla rocca, in direzione di Dovadola. Dopo una inutile attesa durata una giornata intera, Carnesecchi rientrò alla base senza che il collega si fosse mai presentato all’appuntamento: aveva infatti marciato in direzione di Marradi, a suo dire per un ordine ricevuto direttamente da Firenze. In tal modo però aveva lasciato scoperto un intero settore del teatro delle operazioni. Ne approfittarono i papalini, che riuscirono a impadronirsi, oltreché di Calboli, anche di Portico, Tredozio e Premilcuore. In una lettera scritta ai Dieci della Guerra il giorno di Natale, Carnesecchi riferiva con sgomento della perdita dei borghi appenninici, strategici per mantenere le comunicazioni con la città. Nella stessa lettera, riferiva anche dei continui attacchi che il nemico portava su Rocca San Casciano: «e ogni
57 Filiberto di Chalon a Carlo V, 18 marzo 1530, in HHStA, LA Belgien, PA 69.2, cc. 26r-27r.
58 Comune e huomini di Castrocaro ai Dieci, 7 dicembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 147, cc. 112r-113r
59 B
ORGIA LOTTI, p. 33.
giorno danno assalti al castello, del quale dubito forte».61 In effetti la perdita di Portico e Tredozio, spiegava il Carnesecchi, aveva demoralizzato gli uomini, che «cominzano a perdere di animo». Lo stesso Commissario Generale viveva del resto un momento di scoraggiamento, al quale certo aveva contribuito anche la beffa nata dall’incomprensione tra lui e il de’ Rossi. Circondato dai nemici, senza mezzi di difesa, quasi senza denari, e con i villaggi del dominio pronti a ribellarsi contro Firenze per sottrarsi alla guerra, in una lettera di alcuni giorni dopo scrisse ai Dieci che «chi non è nel forno è in sulla pala».62
La rivincita sarebbe arrivata da lì a poche settimane. A Vicchio, nel Mugello, continuava a resistere il commissario Filippo Parenti, che già aveva affrontato efficacemente le bande del Ramazzotto e di Balasso de’Naldi. Il 7 gennaio 1530 seimila imperiali guidati dal marchese di Vasto, scortati dalla cavalleria e da vari pezzi di artiglieria, uscirono da Prato e s’incamminarono verso il castello mugellano.63 Il Parenti, informato da una spia dei movimenti del nemico, non ci mise molto a comprendere che ogni resistenza sarebbe stata vana contro forze così preponderanti, a dispetto dei rinforzi inviati da Firenze;64 e dopo essersi opposto per un’altra settimana allo strapotere avversario pensò di abbandonare Vicchio per risparmiare la vita ai suoi soldati. Il 15 gennaio i nemici trovarono il castello vuoto e con le porte spalancate. Parenti si era ritirato, andando a trincerarsi con le sue truppe e i suoi cannoni nella rocca di Castiglione, presso Marradi: un colle isolato a 489 metri sul livello del mare, chiave di volta per il controllo dell’alta valle del Lamone.65
I partigiani filo medicei di Marradi colsero l’occasione per sollevare la popolazione del paese contro i fiorentini. Quali fossero le argomentazioni impiegate per convincere gli abitanti a ribellarsi al dominio di Firenze non lo sappiamo, ma lo possiamo immaginare. Forse si temeva che la presenza del commissario Parenti a Castiglione attirasse le truppe papaline: una battaglia nelle vicinanze sarebbe stata pagata dalla comunità con saccheggi, violenze e devastazioni. A guidare la rivolta erano Cennino de’ Buosi, Francesco Giacomo Fabbroni e un tal Carbonata. I marradesi, dopo aver messo in condizione di non nuocere la piccola guarnigione agli ordini del capitano Corbizo – alla quale furono sottratte bandiere e tamburi – posero l’assedio al castello di Castiglione.
Nella notte tra il 31 gennaio e il 1 febbraio Carnesecchi, per sedare la ribellione, mosse verso Marradi alla testa di 500 fanti, arrivando inaspettato di fronte al borgo che fu subito preso d’assalto. Dopo una breve scaramuccia, lo scontro continuò nel paese, dove i rivoltosi si erano asserragliati all’interno di alcune case. Fu necessario espugnarle una per una, raccontò lo stesso Carnesecchi nel rapporto inviato il 2 febbraio a Firenze. Carbonata, uno dei leader della rivolta, morì negli scontri. Poco dopo venivano mandati soldati alla rocca di Castiglione, per
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Lorenzo Carnesecchi ai Dieci, 25 dicembre 1529: ivi, c. 255rv. 62
Lorenzo Carnesecchi ai Dieci, 29 dicembre 1529 : ivi, c. 279rv.
63 Alfonso Faleri alla Balìa senese, 5 e 7 gennaio 1530 : in ASS, Balìa, 600, nn. 12 e 16. Cfr. anche la lettera dello stesso del 12 gennaio in FALLETTI FOSSATI, II, pp. 114-117.
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I Dieci a Filippo Parenti, 8 gennaio 1530, in ASF, Dieci di Balìa. Missive, 104, c. 156rv. 65 B
ORGIA LOTTI, p. 39. Sull’argomento anche A. LEGA, Il castello di Castiglione nella valle del Lamone, Faenza, Conti, 1884.
avvisare Filippo Parenti e Giovanni de’ Rossi che potevano uscire: l’azione del Carnesecchi era stata così rapida che i difensori fiorentini non si erano accorti di nulla, e in un primo momento credettero a un inganno del nemico, indugiando ad abbandonare il castello.
Vinta poi la resistenza dei ribelli, spiegava il commissario fiorentino, «voli mi cognoscessino non mancho misericordioso che prima crudele». Così, per mostrare tutta la sua misericordia, il Carnesecchi raccontava di aver fatto «arder la casa di Frajacomo Fabroni nella quale era assai roba, e tutto volli si brusassi per dimostrar a loro malignamente che la gloria non lavaritia mi ci induceva». Fu data alle fiamme anche l’abitazione del defunto Carbonata, quelle di Mambrino e di Fognano (due degli edifici dove si erano asserragliati i rivoltosi) e alcune altre. La mattina del primo febbraio Cennino de’ Buosi, uno dei capi della rivolta, fu decapitato. Il suo corpo, meglio sarebbe dire il suo busto – come correttamente scrisse il Carnesecchi – fu appeso per un piede alla fortezza, e lì lasciato esposto. La testa invece, infilata su una picca, «habiamo mandata a Castrocaro e in exemplo dei maligni dedicatola in sul torione di porta fiorentina, pena conveniente a tanto maligno huomo e carico di ogni sceleratezza».66 Anche se parlare di “misericordia” può far sorridere, il de’ Buosi fu l’unico a pagare con la vita la ribellione di Marradi. Tanto che il commissario Parenti, una volta uscito da Castiglione, non mancò di criticare Carnesecchi per la sua indulgenza, scrivendone persino a Firenze. «Io ho fatto al meglio ho saputo e basta», si giustificò Carnesecchi con i Dieci, che comunque gli confermarono la propria fiducia dicendosi «molto satisfacti di te».67
Lasciato a Marradi il capitano Pietro Borghini e Gabriello da Lutiano, Carnesecchi si mosse verso Castrocaro, mentre Parenti – che si era rifiutato di rimanere a Marradi – ripiegava su Modigliana.68 Sulla via del ritorno, la colonna fiorentina incrociò la strada della banda di Balasso de’Naldi, con 20 cavalli e 150 fanti, impegnandolo in combattimento e costringendolo alla fuga. L’animosità e la tenacia del Carnesecchi gli valsero anche una taglia posta sul suo capo dai fuorusciti fiorentini di parte medicea, alla quale rispose a sua volta, provocatoriamente, mettendone un’altra – simbolica – sul capo del presidente Lionello da Carpi; e non su quello di papa Clemente, come erroneamente raccontò il Varchi:
«E perché messer Giorgio Ridolfi priore di Capua, uomo sopra ogni credere cirìmonioso, l’aveva posta a lui, se alcuno l’ammazzasse o desse prigione egli ebbe ardimento, non so se per beffe o per da dovero, di porre la taglia per bando pubblico a papa Clemente a chi lo facesse prigione o ammazzasse, cosa che io sappia o creda, non udita mai più».69
La taglia che i papalini avevano messo sul capo del Carnesecchi ammontava a ben 1000 ducati, se catturato vivo, e 400 morto. Una cifra davvero di tutto rispetto, ma che non turbò
66 Lorenzo Carnesecchi ai Dieci, 2-7 febbraio 1530, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 135, c. 239rv. 67 I Dieci a Lorenzo Carnesecchi, 6 febbraio 1530, in ASF, Dieci di Balìa. Missive, 105, cc. 154r-155r. 68
Fu questa l’ultima significativa azione del Parenti durante la guerra. Con la vittoria imperiale, l’ex commissario di Vicchio sarebbe stato confinato a Peccioli. Dichiarato ribelle, ed espropriato dei suoi beni, si unì infine alla colonia di fuorusciti repubblicani di Napoli.
69 V
ARCHI, II, p. 100; e MONTI, La guerra…, pp. 80-81. In realtà, nella lettera di Lorenzo Carnesecchi ai Dieci, 21 febbraio 1530, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 150, c. 240 rv, il commissario di Castrocaro impiegò l’abbreviazione tachigrafica “p.” per indicare il “presidente” di Romagna: fu questo probabilmente a indurre in errore il Varchi, che interpretò l’iniziale puntata come “papa”.
più di tanto il commissario. Questi, nel riferire la cosa nel suo rapporto del 21 febbraio ai Dieci della Guerra, scriveva infatti con un velo di ironia che «il presidente ancora mostra tener conto di noi e stimarci, il quale ci ha messo in bando di 1000 ducati chi melli dà vivo nelle mane e 400 chi melli dà morto, al che per renderli degno guiderdone fo conto dare a lui di taglia, lire 2 morto e 4 vivo, a uso di lupo, che altro conto non mi pare di tenerne».70
70 Ibidem.