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Escludendo la nomina del Baglioni alla carica di capitano generale, sotto Firenze il mese di gennaio si chiudeva senza ulteriori fatti memorabili, mentre l’assedio si trasformava in una logorante guerra di trincea, una “guerra logoratrice” come l’avrebbe definita Piero Pieri, o se vogliamo una “guerra stanca”, nella quale gli avversari sembravano contare più sull’esaurimento delle risorse del nemico che sulle proprie capacità offensive. In questo senso il primo rischio, per l’uno e l’altro dei contendenti, era quello individuato dallo stesso Pieri: «il nemico che vuol logorare può finire coll’esaurire innanzi tutto se stesso».31

Prospero Colonna, il vincitore della Bicocca scomparso alcuni anni prima, aveva dimostrato indiscutibilmente, durante tante delle sue azioni, i vantaggi della strategia logoratrice: come ricordò il Guicciardini, egli riuscì a difendere lo stato di Milano «senza tentare giornate, senza combattere, non traendo non che altro fuori la spada, non rompendo una sola lancia: onde aperta la via da lui a quegli che seguitorno, molte guerre, continuate molti mesi, si sono vinte più con la industria, con l’arti, con la elezione provida de’ vantaggi, che con l’armi».32

Le guerre d’Italia avevano insegnato che le battaglie andavano cercate, e accettate, solo dopo una lunga preparazione.33 Campagne lunghe e senza successo potevano però concludersi facilmente con la disintegrazione di armate anche temibili sul piano militare, come aveva dimostrato l’esempio di Napoli nel 1528. Inoltre, la strategia che puntava allo sfinimento dell’avversario, preferita dalla maggior parte dei comandanti del tempo34

(e nel caso

31 P.P

IERI, pp. 286-290 e 341 : citazione a p. 290. 32

F.GUICCIARDINI, Storia..., III, p. 1536. 33

MALLETT-SHAW, p. 189.

34 Tanto Andrea Matucci quanto Matteo Palumbo hanno avuto modo di osservare come, negli anni che ci interessano, quella di logoramento rimanesse nella prassi bellica la forma di guerra preferita dai combattenti; mentre fin dalla fine del Quattrocento – e soprattutto dopo la battaglia di Fornovo – presso i teorici dell’arte militare si era diffuso il mito della battaglia risolutrice, della velocità di manovra, dell’esercito che vince per la sua sola forza d’urto (le “guerre sùbite e violentissime” ricordate dal Guicciardini). Si vedano a questo proposito

fiorentino adottata sia dall’Orange sia dal Baglioni) rendeva necessario mantenere gli eserciti in armi per periodi sempre più lunghi, aumentandone esponenzialmente i costi: la regola che si sarebbe stabilita nei decenni successivi, e valida poi per le guerre dell’età moderna, voleva vincitore chi fosse riuscito a mantenere integre e funzionanti le proprie forze il più a lungo possibile, pagando e rifornendo i propri soldati.35

Questo era vero a maggior ragione per un assedio, come quello fiorentino, iniziato poco prima dell’arrivo dell’inverno, stagione durante la quale, fin dall’antichità, in linea generale le operazioni militari si interrompevano, e gli eserciti tornavano a svernare nei propri quartieri. Certo, il modello medievale della “guerra di primavera”, iniziata e condotta a partire dal mese di maggio con «tempo tranquillo, giocondo e temperato»36 era stato ormai completamente sconfessato dall’esperienza dei conflitti cinquecenteschi, durante i quali gli eserciti si erano svincolati sempre più dai legami della stagionalità.37 Condurre operazioni durante i mesi invernali rimaneva comunque (e in fondo ancor oggi rimane) un rischio enorme, tanto che solo pochi anni prima, nell’Arte della Guerra, Machiavelli aveva ricordato – citando il disastroso esito per i francesi della battaglia del Garigliano, nel 1503 – che «non è cosa più imprudente o più pericolosa a un capitano che far la guerra il verno», e che anche gli antichi romani «fuggivano non altrimenti le vernate, che l’alpi aspre e i luoghi difficili e qualunque altra cosa gli impedisse di mostrare l’arte e la virtù loro».38

Per migliorare le difese del proprio campo in vista del periodo più rigido dell’inverno, pochi giorni prima di Natale – quando cominciavano ad arrivare le prime avanguardie dei lanzichenecchi venuti dalla Lombardia – il principe d’Orange aveva fatto richiedere a Siena che si facesse venire Baldassarre Peruzzi, celebrato architetto (in quegli anni agli stipendi della Repubblica senese) di cui era nota l’attività nello studio e realizzazione di fortificazioni.39 Il Peruzzi, sebbene controvoglia, arrivò al campo imperiale nei primi giorni di gennaio, vi rimase poco meno di una settimana e lasciò ai capitani imperiali alcuni disegni, di cui almeno uno ci è pervenuto.40 Difficile dire cosa venisse chiesto al Peruzzi: la sua

il saggio di A.MATUCCI, “E farai alcun fiume”: il mito della battaglia di Fornovo fra Leonardo e Machiavelli, e quello di M.PALUMBO, La guerra esemplare: la battaglia di Fornovo nella ‘Storia d’Italia’ del Guicciardini, entrambi in Les guerres d’Italie (1494-1559) : histoire, pratiques, représentations. Actes du colloque

international (Paris, 9-10-11 décembre 1999), a cura di D. BOILLET et M.F. PIÉJUS, Paris, Université de la Sorbonne-Nouvelle, 2001, rispettivamente alle pp. 103-116 e pp. 117-133.

35

G.PARKER, La rivoluzione..., pp. 109-110. 36 S

ALIMBENE DA PARMA, Cronica, citato da A.A. SETTIA, Tecniche e spazi della guerra medievale, Roma, Viella, 2006, p. 190.

37 M

ALLETT-SHAW, p. 194. 38 N.M

ACHIAVELLI, L’arte della guerra, a cura di F.CINTI, Siena, Barbera, 2007, lib. VI, pp. 201-202. 39

La richiesta della presenza di «maestro Baldassarre (...) per sei o otto giorni et non più», nella lettera di Alfonso Faleri alla Balìa di Siena, 21 dicembre 1529, in ASS, Balìa, 599, n. 77.

40 Giorgio Vasari, nelle sue Vite, sostenne che il Peruzzi, «amando più la libertà», si rifiutò di aiutare gli imperiali nell’impresa contro Firenze (G.VASARI, Le vite de più eccellenti pittori scultori ed architettori, a cura di G.MILANESI, Firenze, Sansoni, 1906, vol. IV, p. 603). In realtà la documentazione esistente nell’archivio di stato senese, già citata da N. ADAMS, Baldassarre Peruzzi and the Siege of Florence: Archival Notes and

Undated drawings, «The Art Bulletin», vol. 60, n. 3, settembre 1978, pp. 475-482, dimostra che il contributo del

Peruzzi vi fu. «Questi signori li hanno fatto assai carezze et molto hanno discorso con lui e visti già suoi disegni di bastioni, trinciere et altre machine, et assai li satisfa», scrisse il 7 gennaio 1530 Alfonso Faleri alla Balìa (ASS, Balìa, 600, n. 16). Due giorni dopo l’ambasciatore senese annunciava il prossimo rientro del Maestro, il quale

consulenza arrivò comunque nel momento in cui si stabiliva un secondo campo imperiale sull’altro lato dell’Arno, ragion per cui si doveva anche gettare un ponte provvisorio sul fiume – evidentemente per costruire un percorso rapido tra i due accampamenti.41

Forse l’architetto doveva suggerire i luoghi più idonei a posizionare i nuovi acquartieramenti e le artiglierie: quel che è certo è che nemmeno due settimane dopo, tra il 20 e il 25 gennaio, l’intero esercito imperiale abbandonò le proprie posizioni per assumerne di nuove, più vicine alle mura di Firenze. Le prime linee imperiali, da quel momento, si trovarono a poche centinaia di metri dalle mura, per impedire l’afflusso di rifornimenti e stringere in questo modo la morsa che doveva soffocare la città: al termine di questo avvicinamento alle mura, un consiglio di guerra di tutti i capitani dell’esercito assediante si svolse a Lastra a Signa, il 25 gennaio, probabilmente per definire il nuovo quadro strategico delle operazioni.42

Nell’armata imperiale i principali problemi da affrontare per il proseguimento dell’assedio erano quelli logistici: garantire le paghe, rifornire l’esercito, trovare materiali di consumo. Dopo la morte del Morone della gestione di questi aspetti era stato incaricato Loys Ram, che aveva sostituito il suo predecessore anche nel suo ruolo di “pungolo” nei confronti di Siena. La Balìa senese veniva continuamente sollecitata a fornire bestiame, corde, munizioni, e tutto quel che serviva per rispondere alle necessità quotidiane dell’esercito imperiale.43 Quasi mai la risposta era in grado di soddisfare il principe d’Orange: anzi, proprio a gennaio lo Chalon tornò a minacciare la repubblica alleata, dopo la scoperta che i rifornimenti destinati ai fiorentini transitavano senza molestie sul territorio senese. Alcuni giorni dopo, tuttavia, l’Orange tornò a usare toni più concilianti chiedendo che da Siena venissero inviati mercanti per vendere pane all’interno del campo; salvo poi tornare ad adirarsi entro la fine del mese, a causa degli indispensabili guastatori, sempre promessi e mai arrivati a dispetto dei continui solleciti.44 Lamentandosene con l’ambasciatore senese, come raccontò lo stesso Faleri, l’Orange

«cominciava ad alterar, e saltar in mille impertinentie, dicendo che gliene fu promessi 1000 pagati per un mese et che di poi benché che lui dice che non l’accettò mai ne lo accetta, il signor Morone costì fu contento bassarli a 400, et che non ha havuti mai ne 400 ne 1000, si non forse un 100 venuti la sera e itesene la mattina».45

«ha conferito con questi Signori decto di suo parere, di poi li hanno mostrii li luoghi dove pensavano fare alcune cose e a tucti ha bene satisfacto e ha lassato li disegni che havea facti» (ASS, Balìa, 600, n. 21). Dalle lettere del Faleri si evince in effetti che Peruzzi al campo «non si sente bene et starci mal volentieri», ma sembra che questa cattiva volontà fosse dovuta all’aver interrotto i progetti di coreografia urbana che dovevano servire per una prossima (e poi mai concretizzata) venuta di Carlo V in Siena, nel caso che l’incoronazione si fosse svolta a Roma. Secondo lo stesso ADAMS, p. 478, tra i disegni lasciati dal Peruzzi agli imperiali c’era quello oggi

conservato nel GABINETTO DISEGNI E STAMPE DELLA GALLERIA DEGLI UFFIZI, UA 360.

41 La necessità di un ponte sull’Arno è ricordata nella lettera di Filiberto di Chalon a Carlo V del 28 dicembre 1529, in HHStA, LA Belgien, PA 68.3, c.73r-77v. A questo scopo il papa fece sapere all’Orange che avrebbe inviato un maestro per gettare il ponte: Carlo V a Filiberto di Chalon, 3 gennaio 1530, in HHStA, LA Belgien, PA 69.1, cc. 1r-3v.

42 R

OTH, L’ultima repubblica..., p. 351.

43 Loys Ram alla Balìa di Siena, 5 gennaio 1530, in ASS, Balia, 609, n. 21 44

Cfr. le lettere Filiberto di Chalon alla Balìa di Siena dell’8, 17 e 20 gennaio 1530 : ivi, nn. 24b, 41 e 46. 45 Alfonso Faleri alla Balìa di Siena, 30 gennaio 1530, in ASS, Balia, 600, n. 91. Nei giorni seguenti il governo senese cercò di soddisfare l’impellente bisogno di guastatori per l’esercito imperiale, imponendone la

Testimonianza importante della situazione di incertezza logistica nella quale l’Orange si muoveva, tra mille equilibrismi, è un documento conservato nell’Archivio di Stato di Firenze, un promemoria per «negociar per lo exercito con li commissari di sua santità». Si tratta in pratica di una sorta di lista della spesa, delle cose necessarie al mantenimento e corretto funzonamento dell’esercito assediante. Non si sa chi l’abbia scritto, né a chi dovesse servire questo memorandum, né quando fu compilato: il documento non è datato, ma alcuni riferimenti testuali mi fanno ritenere che possa esser stato compilato da un segretario del principe, forse il Martirano a giudicare dalla grafia, per l’Orange stesso (che tra la fine febbraio e i primi di marzo tornò a Bologna per aggiornare il papa e l’imperatore sulla situazione fiorentina e sollecitare pagamenti e guastatori):46

«È necessario per la sustentation de la gente de lo exercito, che facio cunto che serano boche sedecimila che hano bisogno tre libre de pane per homo al giorno, seranno quaranta ottomilia et doi milia libre altre de extraordinario, bisognara mille e cento stara di pane al giorno et altri cento stara di grano a compartir per li cavalli, dicano a Vostra Signoria Illustrissima dove fano cunto dar questa provisione per che non habiamo niente certo se non quello de Pistoia.

Item Vostra Signoria Illustrissima ha bisogno la provision di carne che è tre volte più che quella dil pane, che ordenino quattro o cinque macellari per che faciano questa provisione a un pretio justo, et dove fano cunto provedersi de ditta carne.

Item che vedano che mancando questo vino che hora si trova dove fano cunto di far provision et monition de vino».47

Il documento continua poi elencando le altre necessità che dovevano esser fatte presenti agli agenti del papa: duemila guastatori, o almeno cinquecento visto che i «Pistolesi promettono sicurandosi la strata darne mille cinquecento»; cinquecento paia di buoi per il traino dell’artiglieria, duecento capi di bestiame da macello, una dozzina di maestri falegnami, 8 fabbri ferrai e 60 «fabricatori che stiano su campo, per che sono necessarij ogni giorno»; una buona scorta di carbone; 300 scale, ferro per l’artiglieria, 400 sacchi di tela, 4000 ceste, e una quantità indeterminata ma sufficiente di polvere, palle, piombo, picconi, pali per i guastatori, corde per tirare l’artiglieria. Ancora più difficile che trovare il cibo era garantire la regolarità delle paghe, perché i denari necessari al finanziamento dell’impresa raggiungevano il campo in maniera altalenante e incerta, generando lo scontento tra le truppe.48

Un altro documento non datato, ma risalente anch’esso ai primi di febbraio 1530, presenta un chiaro prospetto delle somme necessarie a saldare le paghe arretrate dell’esercito, dei mesi di dicembre 1529 e gennaio 1530 (che risulta essere già concluso):

coscrizione alle comunità del Dominio: a dispetto degli sforzi, il totale degli uomini racimolati non superò però le trecento unità. Cfr. ASS, Balia, 433, cc. 47v-48r.

46 Su questa nuova missione bolognese cfr. l’avviso anonimo del 2 di marzo da Bologna, in M

OLINI, II, pp. 334- 325: «qui venne l’ultimo dì del passato el principe d’Orangia chiamato dall’imperatore, et per quanto s’intende per dar l’assalto a Firenze dimanda per la parte che tocca al papa 60mila ducati, et un mondo de guastatori, et con tutto questo fa la cosa difficilissima et periculosa, per tal che comun sententia è che bisognerà pigliare Firenze per assedio».

47

ASF, Miscellanea repubblicana, 4, ins. 116, doc. 2.

48 L’ultima volta era stato il 17 gennaio, quando il papa aveva fatto arrivare diciassettemila scudi: R

OBERT, I, p. 353.

«Per il mese di Genaio proximo e lapso

Li alamani del colonnello Hes e Tamis sc. 20200

Li spagnuoli sc. 13000 Li Italiani sc. 24000 Li Cavalleggieri sc. 5125 Li ufficiali sc. 2600 Le giente d’arme sc. 7473 --- sc. 72398 Per d. ordinariij son bisogno per lo meno sc. 6000 per le compagnie venute del Regno de Martio Colonna;

Jo Andrea Castaldo et Fabritio Marramaldo che saranno più

de fanti 5000 per il meno, et bisogna sc. 20000»

Il conto del solo mese di gennaio sfiorava dunque già i centomila scudi. A questi se ne aggiungevano 35521 ancora dovuti per il mese di dicembre. Sul margine del foglio, una somma in colonna dava il totale generale: 133919 scudi di paghe arretrate, senza dimenticare che il mese di febbraio era già iniziato.49

Intanto, come abbiamo visto, dopo la sconfitta del dicembre precedente a Monterchi Napoleone Orsini era uscito dal conflitto, e si era rifugiato nel suo castello di Bracciano. Il suo ritiro ebbe delle ripercussioni anche in Firenze, provocando la diserzione di tre capitani e delle rispettive compagnie. Il 2 febbraio Cecco Orsini, Jacopo Antonio Orsini e Luca da Sermona abbandonarono senza autorizzazione il servizio di scorta che stavano svolgendo per rifugiarsi nel campo imperiale.50 I primi due erano imparentati con l’abate di Farfa, il terzo un suo fedelissimo: portarono con loro circa 300 soldati, 250 dei quali comunque rientrarono dopo pochi giorni.

Le diserzioni colpivano del resto anche l’esercito cesareo. Secondo Carlo Cappello, queste erano dovute al fatto che nel campo imperiale si pativa «di pane e di vino», per cui, a detta degli stessi disertori, «il principe pensava, per aver più commode le vettovaglie, di ridurre tutto l’esercito nel piano di qua d’Arno».51 Anche l’Orange, scrivendo all’imperatore ai primi di febbraio, ammetteva che «tous ce chevaulx legiers quy sont ycy meurent de fain, et est chose imposible quy se peussent plus entretenyr».52

Pochi giorni prima era passato dalla parte fiorentina uno dei più noti capitani imperiali, Anguillotto da Pisa, che era entrato in urto con il suo comandante, il conte Pier Maria da San Secondo.53 Anguillotto non riuscì a portare un grande contributo alla causa fiorentina: morì infatti un paio di settimane dopo, l’11 febbraio. Quel giorno il suo reparto fu chiamato a far da scorta a un gruppo di contadini che doveva uscire verso le colline fiesolane per fare scorta di

49

ASF, Miscellanea repubblicana, 4, ins. 116, doc. 14. 50

Per questo i tre capitani vennero dichiarati banditi: cfr. ASF, Dieci di Balìa. Missive, 108, cc. 152v-153r. 51 Carlo Cappello al doge Andrea Gritti, 2 febbraio 1530, in ASF, Carte Strozziane. Seconda serie, 31, c. 151rv. 52 Filiberto di Chalon a Carlo V, non datata [ma 3 febbraio 1530 dai riferimenti contenuti] : in HHStA, LA Belgien, PA 69.2, c. 11r.

53 La sua diserzione è ricordata nella lettera dell’ambasciatore ferrarese Alessandro Guarini ad Alfonso I d’Este, 21 gennaio 1530 : in ASMo, Cancelleria Ducale. Estero. Carteggi ambasciatori. Firenze, 15, ins. 9, ad datam.

legna. A proteggere i boscaioli erano tre bande di soldati; una di Bellanton Còrso, che s’andò ad appostare a San Gervasio; le altre due erano guidate invece da Francesco de’ Bardi e dall’Anguillotto. L’insegna del suo reparto, riconosciuta dagli imperiali, provocò la rabbia del conte di San Secondo, che attraversò l’Arno con 2000 fanti e 500 cavalli comandati dal Gonzaga. L’intenzione del conte, ma anche quella dello stesso Orange, era quella di uccidere il condottiero pisano, perché simili tradimenti fossero puniti in maniera esemplare. La manovra degli imperiali, rapidissima, tagliò fuori i fiorentini dalla possibilità di ritirarsi verso porta alla Croce, costringendoli ad accettar battaglia.

Il capitano Giovanni Vinci, che si trovava con la sua compagnia alla guardia della porta, cercò di soccorrere l’amico in pericolo abbandonando il posto di guardia e uscendo con le sue truppe, ma non arrivò in tempo (e l’azione lo costrinse poi a nascondersi per qualche giorno dalla furia di Malatesta Baglioni, che lo voleva impiccare per aver lasciato indifesa la porta). Circondato da forze otto volto superiori, Anguillotto resistette fino all’ultimo: gli si ruppe perfino la spada, e continuò a combattere col solo moncone dell’arma, difendendosi spalla a spalla col suo luogotenente Cecco da Buti. Caduto a terra, ferito, fu finito senza pietà per ordine del San Secondo.54 Cecco da Buti si arrese, e fu subito passato per le armi. Francesco de’ Bardi cadde prigioniero, e dovette pagare il proprio riscatto per essere rimesso in libertà. Solo Bellanton Còrso riuscì a rientrare dentro le mura cittadine: in totale i fiorentini avevano avuto durante lo scontro 100 morti e 46 feriti, ma anche gli imperiali avevano pagato cara la loro voglia di vendetta, che era costata quasi ottanta morti. Scrisse l’Orange, raccontando l’episodio all’imperatore:

«Sire, j’alis, yer, passer l’eau pour donner sur enne escorte que les ennemys fesoyent tour les jours, qu’estoyt de envyron cinc cens hommes de piet et queque chevaulx et les ay rencontré et defays tour leurs gens de piet et les avons mené tirant juques aux portes, et n’a esté sens bien combatre premierement, et croys que de tous eux yl n’en est par echapé vint quy ne soyent esté pris, blesés ou tués».55

Col passare dei giorni e delle settimane la situazione andò peggiorando, anche perché ai disagi della cattiva stagione e alla mancanza di vettovaglie si univano gli insopportabili ritardi nel pagamento delle truppe. Il 28 febbraio l’ambasciatore Cappello scriveva al doge che

«da uno venuto di campo si ha che jeri gl’Italiani vennero alle mani con li Spagnuoli, e che li lanzi si sollevarono in favore degli Italiani, e che essendo stato morto un Italiano da un capitano spagnuolo, il principe fece tagliar la testa a detto capitano per acquetar il tumulto. Tuttavia che il conte Pier Maria de’ Rossi haveva protestato ad esso principe che se non provvedeva che gl’italiani fossero soddisfatti delle paghe loro, prenderiano partito».56

54

GIOVIO, II, p. 179 e AMMIRATO,VI, p. 144 sostengono che Anguillotto stesso chiese a uno dei suoi avversari, che ne rifiutò la resa, di essere ucciso per morire di spada anziché consegnato alle mani del boia. SEGNI, pp. 163- 164; e NARDI, II, p. 203 scrissero invece che Anguillotto fu ucciso dal San Secondo, «di sua mano».

55

Filiberto di Chalon a Carlo V, 12 febbraio 1530, in HHStA, LA Belgien, PA 69.2, cc. 12r-13v.

56 Carlo Cappello ad Andrea Gritti, 28 febbraio 1530, in ASF, Carte Strozziane. Seconda Serie, 31, cc. 153r- 156v.

L’ammutinamento generale era ormai un rischio concreto, e un paio di settimane dopo, il 18 marzo, il principe d’Orange si trovava costretto ad avvertire l’imperatore che se non si fossero trovati i denari per il pagamento delle truppe, «tenés ceste armee pour rompue».57