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Sotto le mura di Napoli, in un solo mese di guerra, le Bande Nere fiorentine avevano perso 400 uomini, quasi un decimo dei propri effettivi.8 Nella seconda metà di maggio, durante un’operazione il cui scopo era mettere fuori uso i mulini che continuavano a macinare grano per gli imperiali, anche il capitano generale delle fanterie fiorentine, Orazio Baglioni, morì in combattimento: chi dice battendosi fino all’ultimo contro il nemico che lo circondava, chi colpito da fuoco amico.9

Il Lautrec impose come nuovo comandante delle Bande Nere un suo protetto, il giovane conte bolognese Ugo de’ Pepoli: il quale ne divenne governatore (e ultimo comandante de facto) senza che all’onere corrispondesse il piatto di una condotta col governo fiorentino.10

Nel frattempo il potente esercito franco-italiano cominciava a essere martoriato dalle malattie. Tra le prime mosse compiute dal Lautrec dopo l’insediamento del campo sotto Napoli c’era stata la distruzione delle condutture dell’Acquedotto della Bolla, le cui acque si erano sparse nei terreni vicini, impaludandoli. Lo scopo era quello di assetare Napoli, ma l’azione si rivolse contro lo stesso esercito assediante. Il caldo dell’estate favorì il diffondersi della malaria, e già a metà di giugno l’armata del Lautrec viveva una situazione sanitaria disastrosa.11 In compenso l’assedio sembrava destinato a concludersi presto: l’11 giugno le galere della flotta veneta giunsero nel porto di Napoli, già bloccato dalla squadra navale di Filippino Doria, si unirono a queste e iniziarono un massiccio bombardamento del porto; mentre quasi contemporaneamente, all’interno delle mura, i lanzichenecchi agli ordini degli imperiali, scaduto il periodo di ingaggio, minacciavano di abbandonare la città assediata. A mutare un esito che sembrava già scritto a tutto favore dei francesi ci pensò la flotta dei Doria, che tra la fine di giugno e i primi di luglio – scaduta la condotta che la legava a Francesco I – cambiò schieramento e si consegnò alla Spagna, ottenendo in cambio la restaurazione della libertà genovese.12 Quando il conte Filippino, con le sue galere, abbandonò il blocco navale, numerosi navigli riuscirono a entrare in porto carichi di soccorsi per gli assediati.

7 Per una rapida sintesi della campagna di Lombardia del 1528-29 si veda M

ALLETT-SHAW, pp. 170-171. 8 M.A

RFAIOLI,The Black Bands of Giovanni, Pisa, Plus University Press, 2005, pp. 130-133.

9

Marco del Nero ai Dieci, 22 maggio 1528, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 128, c. 365r. Per le varie versioni della morte di Orazio Baglioni si veda A.BAGLIONI, I Baglioni, Prato, Tipografica Pavese, 1964 p. 250 e P.PELLINI, Della Historia di Perugia, Perugia, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, 1970, p. 476. 10 A

RFAIOLI,The Black Bands…, p. 133. 11

Giovan Battista Soderini ai Dieci, 12 giugno 1528, in ASF, Dieci di Balìa, Responsive, 128, c. 3v.

12 Le capitolazioni del giugno 1528 tra Filiberto di Chalon e Andrea Doria, per la condotta al servizio di Carlo V delle galere genovesi sono in ARCHIVIO DI STATO DI GENOVA (d’ora in poi ASG), Archivio Segreto, 1649.

Il rapporto di forze avrebbe potuto comunque tornare a favore dei francesi con l’arrivo, il 19 luglio, di una squadra navale di 25 unità al comando del principe di Navarra Charles de Foix (nipote del Lautrec), che però, a causa di ritardi nelle operazioni di attracco, si trovò a sbarcare le proprie truppe sotto un consistente attacco della cavalleria imperiale uscita da Napoli. Le forze veneziane, che dovevano proteggere lo sbarco, furono quasi completamente annientate; il nuovo comandante delle Bande Nere, il conte Pepoli, fu catturato; e solo un massiccio contrattacco della fanteria fiorentina e dei Guasconi riportò la situazione sotto controllo, pur con massicce perdite per i collegati: 500 morti e altrettanti prigionieri nelle mani degli imperiali.13 Il successo ottenuto fece riguadagnare fiducia ai difensori di Napoli, mentre sul finire di luglio la febbre tifoide che da un paio di mesi covava nel campo francese esplose in tutta la sua virulenza: per il 5 d’agosto, tra gli assedianti solo 7000 uomini erano in grado di combattere, grosso modo tanti quanti i difensori della città. Dieci giorni dopo, l’esercito francese in pratica non esisteva più, e nella notte tra il 16 e il 17 agosto moriva anche il Lautrec.

Gli imperiali, ormai liberi dall’assedio, passarono al contrattacco: per il 19 agosto avevano riconquistato Sarno, il 22 venne ripresa Nola. Il 27 agosto, con una massiccia sortita, attaccarono infine quel che rimaneva dell’armata francese, asserragliata in pochi capisaldi che vennero circondati. La conseguente ritirata degli eserciti collegati, guidata dal cugino del Lautrec, il marchese di Saluzzo Michele Antonio del Vasto, si risolse in un disastro: lo stesso Saluzzo, fu catturato, e morì per le ferite riportate. L’esercito in rotta era inseguito dal nemico, e veniva costantemente martellato sui fianchi dalla cavalleria imperiale e dalla fanteria di Fabrizio Maramaldo, che il 28 agosto conquistò Capua catturando anche parte delle forze fiorentine.14 Solo 3000 soldati italiani, con ciò che restava delle provate Bande Nere, riuscirono a rinchiudersi in Aversa, dove il 30 agosto si arresero al principe d’Orange a discrezione, consegnando anche le proprie bandiere di guerra.15 La guerra nel Regno non si era ancora conclusa, perché si combatteva ancora negli Abruzzi e in Puglia, dove francesi e veneziani, con diecimila fanti e mille cavalli, ancora mantenevano ancora il controllo di Trani, Monopoli e Polignano: località che sarebbero state evacuate dal nemico solo un anno dopo, con la conclusione dei trattati di pace. Con la rotta di Aversa e l’annientamento dell’armata del Lautrec, tuttavia, il principe d’Orange colse tutti i frutti della sua strategia di guerra, che era stata condotta con grande capacità: ritirandosi al bisogno, ma senza mai rinunciare a molestare il nemico, fino a cogliere l’occasione propizia per annientarlo.16

13 Giovan Battista Soderini ai Dieci, 19 luglio 1528, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 131, c. 177r. Il conte Pepoli fu liberato il 4 agosto, in uno scambio di prigionieri; troppo malato per continuare le operazioni, si ritirò a Capua, dove morì tre settimane dopo, nei giorni della rotta francese.

14

Per la rotta dell’esercito francese e la riconquista di Capua si veda SEGNI, pp. 63-67.

15 Giovanni Borromei a Federico marchese di Mantova, 12 settembre 1528, in ASM, Archivio Gonzaga, 1109, c. 546v.

16

La conduzione “aggressiva” dell’Orange fu notata da F. L.TAYLOR,The art of War in Italy, 1494-1529,

Cambridge, CUP, 1921 [rist. an. London, Greenhill Books, 1993], p.27, secondo il quale Filiberto di Chalon seguiva in questo modo l’insegnamento tattico del “Gran Capitano” Consalvo de Córdoba.

Quando la notizia del disastro napoletano raggiunse la Lombardia, i veneziani fecero di tutto per evitare che il Saint Pol muovesse verso Napoli, in un disperato tentativo di rivincita che sarebbe stato comunque impedito al generale francese dall’estrema difficoltà di saldare alle sue truppe le paghe arretrate. L’8 settembre l’esercito veneziano passò all’offensiva, mettendo sotto assedio Pavia, che fu ancora una volta messa a sacco e si arrese il 22 dello stesso mese. Il successo fu però controbilanciato da una ennesima, e ben più importante, sconfitta della Lega: il 12 settembre Genova era passata nel campo imperiale, dopo una sollevazione popolare in favore di Andrea Doria.

Nei mesi successivi il Saint Pol, con la sua armata malpagata e ridotta ai minimi termini, si asserragliò in Alessandria, continuando a mantenere una ridotta attività militare ma senza riuscire ad assestare alcun colpo decisivo al nemico. Impiegato dal re Cristianissimo più come strumento di deterrenza che non come arma offensiva, mentre già si riaprivano le trattative di pace con Carlo V per la liberazione dei Delfini, l’esercito del Saint Pol si trovò ben presto costretto a condurre una guerra di piccolo cabotaggio, mirante soprattutto al mantenimento delle posizioni raggiunte.

Sul finire dell’anno il bilancio della guerra, per gli eserciti dei collegati, era decisamente fallimentare. Genova e Napoli erano perdute, e Venezia proseguiva la guerra soltanto per la propria difesa e per il possesso delle città costiere della Puglia. Firenze era ormai direttamente minacciata dagli eserciti imperiali, i cui generali cominciarono già da settembre a preparare un’offensiva contro la Toscana, come dimostra una lettera di Andrea Doria all’imperatore conservata negli archivi viennesi.17 Risulta evidente come Carlo V guardasse all’impresa fiorentina ben prima degli accordi di Barcellona con Clemente VII. Quel che le guerre d’Italia, fin dal 1494, avevano insegnato era infatti che per controllare Napoli e Milano occorreva sottomettere anche le potenze del centro Italia, e dunque Firenze (che quando si trovava sotto regime repubblicano, era scopertamente filo-francese) e gli stati ecclesiastici.

17 Andrea Doria a Carlo V, 19 settembre 1528, in H

AUS-HOF-STAATSARCHIV DI VIENNA (d’ora in poi HHStA), LA Belgien, PA 67-4, cc. 279r-280r.

– IV –

DÉRAPAGE (SLITTAMENTO)

« Ma perché gl’huomini vivono contenti, et quiti quando ottengono, o veggono via, e modo al poter conseguire i desiderij loro: però quella Repubblica si debbe giudicare rettamente ordinata, nella quale ciascuna qualità di cittadini ha facultà di ottenere i desideri suoi».

Donato Giannotti, Discorso sopra il fermare il

governo di Firenze

All’inizio del settembre 1528, dopo il fallimento dell’assedio di Napoli, nessuno poteva più dubitare del completo trionfo di Carlo V, sebbene in Puglia le armate veneziane, e in Lombardia quelle francesi, continuassero a contrastare gli imperiali ancora per un anno o quasi. Il papa decise proprio in quei giorni, a quanto sembra consigliato da Giovan Battista Sanga, di avvicinarsi seriamente al vittorioso imperatore, che di lì a un paio di settimane gli faceva promettere, tramite l’Orange, la restaurazione della signoria medicea in Firenze.1 Riallacciati i contatti con l’Impero, questi non si interruppero né per le promesse dei collegati di restituire immediatamente tutti i possedimenti pontifici occupati, non appena il papa si fosse dichiarato per la Lega; né quando, sul finire dell’anno, i temporeggiamenti di Carlo e l’impazienza di Clemente portarono a un nuovo raffreddamento nel rapporto tra le due potenze:2 una battuta d’arresto si registrò soltanto a gennaio, a causa della malattia che per quasi tre settimane tenne il pontefice in preda a febbri violente, tanto che non si credeva che sarebbe sopravvissuto.3 Pensando di essere in pericolo di vita, nella serata del 10 gennaio Clemente VII conferì la porpora cardinalizia al nipote Ippolito de’ Medici, per assicurare una posizione di prestigio almeno a uno dei tre rampolli della casata. Anche nella malattia, e forse proprio perché malato, al pontefice non doveva sfuggire che in caso di una sua morte improvvisa, nella situazione che si era venuta a creare, i Medici sarebbero rimasti privi di una qualsiasi base dinastica territoriale, e avrebbero irrimediabilmente perso il ruolo che nel corso di un secolo si erano ritagliati nella politica italiana. A un certo punto la notizia della morte del papa si diffuse incontrollata, e ne nacquero disordini in Viterbo e Montefiascone; mentre

1

SANUTO, XLVIII, coll. 485-490. 2 V

ON PASTOR, pp. 325-327. 3 Ivi, pp. 328-329.

da Roma l’ambasciatore senese Jano Calvo Salimbeni scriveva ai Ventuno informandoli della situazione giorno per giorno.4

Allarmato dalle notizie romane il governo senese arrivò anche a scrivere al principe d’Orange, chiedendo consigli su come comportarsi ora che – come si diceva – il papa era morto. Alcuni giorni dopo una nuova lettera del Salimbeni spiegava che secondo l’opinione dei medici che curavano il pontefice «se questa notte non gli viene l'accidente che sarà guarito; ma venendoli, non haverà rimedio»; per aggiungere, in un paragrafo in cifra, che «l’imbasciador et altri che hano veduto el Papa dicano non passarà l'undecimo, che sarà postdomane».5

A Firenze si guardava con attenzione a questi sviluppi, e soprattutto alla malattia del papa, nella speranza che un colpo di fortuna potesse inaspettatamente chiudere il lungo braccio di ferro con il pontefice. Da quando era iniziata la guerra della Lega di Cognac, la città aveva speso cifre enormi per parteciparvi, prima sotto l’egida medicea, poi sotto il governo repubblicano. Solo tra il giugno 1526 e lo stesso mese del 1527 erano stati impiegati 800 mila ducati, «et siamo consumati», come scrissero i Dieci all’ambasciatore in terra di Francia. Nei dodici mesi successivi, fino grossomodo alla disastrosa conclusione della campagna del Lautrec, ne vennero spesi altri seicentomila circa, di cui oltre 250.000 solo per il corpo di spedizione di Napoli.6

Da tutto questo, la Repubblica aveva ricavato ben poco a livello strategico, e sul finire del 1528 si ritrovava praticamente priva di un esercito che la potesse difendere da una possibile ritorsione nemica. Qualche mese dopo, osservando la situazione che si era creata, Anton Francesco degli Albizi avrebbe criticato duramente l’inefficacia delle scelte compiute negli ultimi anni:

«Io sono ito più volte meco medesimo considerando qual possa essere la cagione che habbia indocto la nostra città ad intromettersi, quasi sempre, in tutte le guerre et discordie che sono state in Italia non solamente sanza profitto alcuno ma con grande detrimento di quella perché, oltre allo havere speso un thesoro infinito, si è ito comperando la inimicitia di questo et di quello Principe i quali, molte volte, mossi da questi sdegni debitamente conceputi contro alla nostra città, hanno quella molte volte oppressa et ridocta in extrema necessità».7

La causa di questa infruttuosa politica estera stava tutta in un peccato originale. La Firenze repubblicana aveva mantenuto fede alle allenze stabilite dal governo mediceo, ed era rimasta – seguendo la sua antica vocazione – nello schieramento filofrancese. In una prospettiva storica si può dire che fu uno sbaglio, che sarebbe stato meglio un rovesciamento di alleanze o

4 Girolamo Massaini alla Balìa di Siena, 11 gennaio 1529, in A

RCHIVIO DI STATO DI SIENA (d’ora in poi ASS), Balìa, 600, n. 28; e Jano Calvo Salimbeni alla Balìa di Siena, 13 gennaio 1529, in ASS, Balìa, 600, n. 34a. 5 La Balìa senese a Filiberto di Chalon, 16 gennaio 1529 in ASS, Balìa, 431, cc. 41v-42r; e Jano Calvo Salimbeni alla Balìa di Siena, 21 gennaio 1529, in ASS, Balìa, 600, n. 38a.

6

I Dieci a Roberto Acciaioli, 9 giugno 1527, in ASF, Dieci di Balìa. Legazioni e commissarìe, 42, c. 2r. 7

ASF, Consulte e pratiche, 71, cc. 50r-55v, 19 luglio 1529. La risposta che lo stesso Albizi si dava era che la Repubblica era mal governata, con riferimento non tanto agli uomini che la reggevano, quanto ai suoi ordinamenti costituzionali; e soprattutto mal consigliata, perché riconosceva un ruolo eccessivo ai «cittadini potenti, ai quali tutti, per la loro auctorità, è potuto riuscire ogni disegno preponendo li interessi particulari al bene universale della patria loro». Si trattava probabilmente di una velata critica all’operato di Tommaso Soderini.

almeno un’uscita di Firenze dal conflitto. Con il cambiamento di regime la Repubblica avrebbe infatti trovato un alleato naturale nell’imperatore, facendo fronte comune contro il papa Medici. Secondo Armando Lodolini fu la tradizione guelfa a impedire ai fiorentini di veder giusto;8 per gli osservatori del tempo, tra i quali il Busini e lo stesso Albizi (che pure aveva sostenuto l’idea di un cambiamento di alleanze)9

spostarsi nello schieramento imperiale sarebbe stato invece impossibile, perché avrebbe avuto come immediata conseguenza quella di essere assaliti dai francesi, visto che «detti imperiali non ci potevano prima soccorrere che questi della Lega non ci havessino sforzati»,10 e del resto «stare in mezzo non si poteva».11 È anche vero, tuttavia, che tranne il gonfaloniere Capponi (che avviò dopo la restaurazione repubblicana contatti con Carlo V, iniziativa poi bloccata da Tommaso Soderini), l’establishment fiorentino sembrava non dare alcuna importanza alla contraddizione politica in cui la Repubblica si era venuta a trovare: alleata di una Lega che aveva tra i suoi obiettivi quello di restaurare il potere del papa, cioè del peggior nemico dello stato popolare.

Solo in un’occasione, a mio avviso, Firenze tentò – sfortunatamente senza successo – di varare una politica estera che andasse al di fuori di schemi precostituiti. Nel febbraio 1528 Giovanni Covoni venne inviato oratore a Siena, per promuovere, tra le due città da sempre rivali, la formazione di una lega difensiva, alla quale il governo fiorentino pensava fin dai giorni della restaurazione repubblicana. Le trattative, condotte per conto dei senesi dall’oratore a Firenze Giovanni Palmieri, proseguirono fino a giugno, per poi arenarsi su una situazione di pace armata a dispetto di un’ulteriore iniziativa diplomatica nel luglio: iniziativa comunque infruttuosa, perché i capitoli che i senesi erano disposti ad accettare riservavano a Siena la possibilità di muovere contro Firenze se questo fosse stato richiesto in aiuto dell’imperatore.12 Con la rotta dell’esercito del Lautrec, la Balìa senese intravide nella debolezza dei fiorentini un momento propizio, e tornò a pensare a una possibile conquista di Montepulciano, sua tradizionale rivendicazione, lasciando perdere l’idea di una possibile alleanza. Per qualche mese ancora le trattative proseguirono, anche perché i fiorentini continuavano a dirsi «dispostissimi, et prontissimi a congiognersi, e a collegarsi» con i senesi:13 sul finire dell’anno l’idea di una lega con Firenze fu però abbandonata completamente dopo che l’ambasciatore senese nel Regno di Napoli, Bartolomeo Tantucci, era stato avvisato da Girolamo Morone dell’inutilità di un simile passo, dal momento che Carlo V già guardava all’impresa fiorentina.14

8 A.L

ODOLINI, Papato-Impero-Repubblica, Bologna, Cappelli, 1930, p. 25. 9 S

EGNI, p. 23 e pp. 81-82. 10

ASF, Consulte e pratiche, 71, c. 54v. 11 G.M

ILANESI (a cura di), Lettere di Giambattista Busini a Benedetto Varchi, Firenze, Le Monnier, 1860, p. 90. Come notò Marino Berengo, nelle guerre d’Italia del Cinquecento un’autentica neutralità non era possibile, si poteva solo scegliere di stare con l’uno o con l’altro dei due schieramenti in lotta: cfr. BERENGO, p. 15.

12

FALLETTI FOSSATI, I, pp. 291-301.

13 L’ambasciatore senese a Firenze Antonio de’ Vecchi alla Balìa di Siena, 7 ottobre 1528, in ASS, Balìa, 593, n. 78.

14

Si veda a questo riguardo la lettera da Napoli di Bartolomeo Tantucci alla Balìa di Siena, 10 dicembre 1528, in ASS, Balìa, 586, n. 48, dove l’ambasciatore senese invitava apertamente i Ventuno a non «legarsi hora quando sono a cavallo per andarli contro».