«Abbiamo preso d’assalto Roma; gli uccisi furono più di seimila, saccheggiata l’intera città, nelle chiese e dentro la terra prendemmo tutto ciò che trovammo». Così ha lasciato scritto nelle sue memorie Sebastian Scherthlin, un lanzichenecco di Burtenbach che partecipò al sacco di Roma del 1527.20
Il 5 maggio l’esercito imperiale si presentò davanti alle mura di Roma. Il Frundsberg, colpito da malore, se ne era dovuto tornare a casa: alla guida dell’armata era al suo posto il duca di Borbone. L’assalto cominciò alle prime luci dell’alba del 6 maggio, approfittando di una fitta nebbia che nascondeva gli attaccanti alla vista degli artiglieri papalini. Le mura aureliane, così chiamate perché costruite dall’imperatore Marco Aurelio, più di mille anni prima, non resistettero che due ore: poi gli invasori dilagarono a Borgo, il quartiere della Curia e del governo cittadino. Il pontefice fu costretto a lasciare il Vaticano, mentre la sua guardia svizzera s’immolava di fronte agli appartamenti pontifici, per coprirgli la fuga e permettergli di ritirarsi in Castel Sant’Angelo: dove poi Clemente sarebbe rimasto assediato per settimane, assistendo impotente al saccheggio della città.21
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NARDI, II, p. 115. 18
Lorenzo Orsini (1476-1536), conosciuto alla storia militare come Renzo di Ceri, militò fin da giovanissimo agli ordini del papa, per poi porsi al servizio di Venezia e tornare quindi agli stipendi della Chiesa. Dopo il sacco di Roma si mise nuovamente agli ordini della Serenissima, per la quale condusse per oltre un anno la guerra contro gli imperiali in Puglia.
19 Orazio Baglioni (1493-1528), figlio minore di Gianpaolo, fu come il padre signore di Perugia (insieme al fratello maggiore Malatesta) e condottiero agli ordini di Venezia e della Santa Sede. Imprigionato in Castel Sant’Angelo da Clemente VII, nel gennaio 1524, perché accusato di fomentare le tensioni che agitavano Perugia, fu scarcerato quasi tre anni dopo, per portare il suo contributo alla guerra della Lega.
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Sebastian Schertlin (1496-1577) fu una singolare figura di lanzichenecco. Rampollo di una famiglia borghese era stato avviato a una carriera accademica, e aveva conseguito il titolo di magister all’università di Tubinga nel 1512. Arruolatosi tra i lanzi nel 1518, partecipò a numerose campagne militari, ma solo il sacco di Roma – dal quale tornò tanto ricco da potersi comprare un feudo – segnò per lui la svolta, dando inizio a una brillante carriera politica e militare. Sul personaggio si veda F.BLENDINGER, Sebastian Schertlin von Burtenbach, in G.
VON PÖLNITZ, Lebensbilder aus dem Bayerischen Schwaben, vol. II, Munchen, Hueber, 1953, pp. 197-227. 21 Sul sacco di Roma segnalo in particolare i documenti contenuti in C. M
ILANESI, Il sacco di Roma del
MDXXVII. Narrazioni di contemporanei scelte, Firenze, Barbera, 1867; e in A.RODRIGUEZ VILLA, Memorias
para la historia del asalto y saqueo de Roma en 1527 por el ejército imperial, Madrid, Biblioteca de Instruccion
Il sacco di Roma fu un evento traumatico, sul piano culturale e politico, oltre a rappresentare un clamoroso fallimento per quella politica di potenza (tradizionalmente seguita anche dai pontefici che avevano preceduto Clemente VII) che si era basata su ripetuti cambiamenti di alleanze tra opposti schieramenti, e che nel mutato quadro geopolitico italiano si rivelò inadeguata e dannosa.22 Già Guicciardini interpretò il sacco come un momento di frattura nella storia europea: un’importanza, come osservò sul finire del secolo scorso Eric Cochrane, dovuta non tanto alla singolarità del fatto in sé (dal 1494 in poi moltissime erano state le città italiane barbaramente messe a sacco), nella durata o nella ricchezza del bottino, quanto piuttosto nella distruzione del mito che la capitale spirituale della cristianità fosse esente dalla comune esperienza delle altre città italiane.23
Il 9 maggio 1527 Francesco Gonzaga, ambasciatore di Mantova alla corte pontificia, scriveva al marchese Federico una prima relazione sui fatti, che lasciava cogliere tutto lo stupore e la commozione per quello che stava avvenendo.
«Molti casi horendi sono accaduti in questa miseranda revolutione, li quali a pensarvi solo comoveno le viscere tra li altri alcuni cittadini romani vedendosi redutti in necessità de andare in mano di Spagnoli, loro et loro donne, como moglie sorelle et figliole, si sono chiusi in una camera et hanno con un pugnal medesimo morte le donne et duoppo loro istessi per fugire de non andar ne le mano loro, e questo è stato fatto da tre o quattro che mi son ditti ma è da pensar che molti altri habbino fatto il medesimo. Per Roma non si vede anima viva di quelle che prima vi habbitavano, e solo vanno in volta soldati. Del vivere di pane et altro non c’è provigione al mondo, tutti li fornari et li artifici d’ogni altra sorte sono pregioni o persi, di mo’ che mai credo non si vedesse la più stupenda e miserevole cosa di questa. La carestia è estrema, et in questa casa ove siamo è morto qualche persona de fame; è stato venduto il pane un ducato l’uno, purché anche se ne ritrovasse pareria buon mercato. Mai fu la maggior pietà de questa: io per me confesso esser fuor di me et stupefacto et parmi mutato il mondo in tutto et non so qual maggior inferno possa esser che a questo, doveché si può far iuditio che questo sia il principio de la ruina del mondo».24
L’esercito dei collegati italiani giunse in vista di Roma soltanto il 21 maggio, e in questo ritardo ebbero forse un ruolo anche i dissapori che opponevano Clemente VII al duca d’Urbino, che con il pontefice aveva da tempo un contenzioso aperto per il possesso della rocca di San Leo. Ma ormai la città era saldamente nelle mani degli imperiali; e il Della Rovere, dopo un rapido esame della situazione, preferì ripiegare senza affrontare la prova delle armi, mentre Roma continuava ad essere svaligiata di tutte le sue ricchezze, senza riguardo nemmeno per i luoghi sacri. In una relazione inviata a Carlo V alla metà di giugno, Mercurino da Gattinara, che seguiva l’esercito in qualità di rappresentante dell’imperatore, raccontò i sacrilegi compiuti in quei giorni, spiegando che i Lanzichenecchi, entrando in Roma, si erano «governati come veri luterani»:
London, Macmillan, 1972, e in italiano M.L.LENZI, Il sacco di Roma del 1527, Firenze, La Nuova Italia, 1978; romanzato, ma di godibile lettura A.DI PIERRO, Il sacco di Roma, Milano, Mondadori, 2003.
22 K.G
OUWENS, Clement VII…, p. 35. 23
E.COCHRANE, Italy 1530-1630, Longman, London-New York, 1988, p. 10. Su questa linea di pensiero anche A.CHASTEL, Il sacco di Roma. 1527, Torino, Einaudi, 1983.
24 Francesco Gonzaga a Federico marchese di Mantova, 9 maggio 1527, citata in L
«Li ornamenti di tutte le chiese sono stati rubbati et gittate le cose sacre et reliquie a male perché, pigliandosi li soldati l’argento nel quale erano serrate dette reliquie, non hanno tenuto conto del resto più che di un pezzo di legno. Et, similmente, si è saccheggiato il luogo di Sancta Sanctorum, quale era tenuto in maggior riverenza che tutto il resto. La Chiesa di San Pietro e il Palazzo del Papa, da basso ad alto, è fatto stalla di cavalli.
Io sono certo che a Vostra Maestà, come Imperator Cattolico et Christianissimo, dispiacerà ancora tanto stratio et vilipendio della Religion Christiana, della Sede Apostolica et della città di Roma. Vero è che ogn’uno tiene per certo che questo sia proceduto per giuditio di Dio, perché la Corte Romana era posta in molta tirannia et disordine. Tuttavia la rovina è stata grande et già si conosce che senza la mano et presenza di Vostra Maestà, non li può essere alcun rimedio. Questo essercito non ha capo o membri né obedienza né forma alcuna, ogn’uno si governa all’appetito suo”.25
Il comando dell’esercito imperiale, rimasto senza guida dopo che il duca di Borbone era stato ucciso nelle prime fasi dell’attacco a Roma, era nel frattempo stato assunto da Filiberto di Chalon, principe d’Orange: un generale ancora giovane, ma già molto apprezzato dall’imperatore per le sue doti di prudenza e le capacità diplomatiche, il quale però dovette faticare non poco per farsi riconoscere e accettare da soldatesche avvezze a ben altre guide.26 Alto, robusto, dotato di una forza erculea, di carnagione e occhi chiari, il principe si era guadagnato, nei giorni successivi all’assalto alla Città Eterna, una lunga cicatrice sulla guancia sinistra, per un colpo di archibugio che gli aveva attraversato la faccia da un lato all’altro. Della stirpe dei conti di Borgogna, nato il 18 marzo 1502 nel castello di famiglia a Lons–Le–Saunier, nella Franca Contea, in quell’estate del 1527 Filiberto di Chalon aveva da poco superato i 25 anni, pur avendo già accumulato una buona esperienza sul campo di battaglia. Appena quindicenne si era messo al servizio di Carlo V, ed era stato subito insignito dell’onoreficenza del Toson d’oro; a ventuno anni era già generale delle fanterie imperiali. Espropriato da Francesco I dei suoi diritti e dei suoi possedimenti, lo Chalon era stato catturato dai francesi nel luglio 1524, che lo trattennero nelle carceri più dure del regno fino alla sua liberazione, avvenuta a seguito della pace di Madrid. Filiberto si era quindi avventurato nel pantano delle guerre d’Italia, riprendendo il suo posto al servizio dell’imperatore, ritrovandosi nel giro di un anno proiettato al comando dell’esercito cesareo.27 Il 5 giugno furono firmati i capitoli della resa di Clemente VII, e due giorni dopo la maggior parte di coloro che si erano rifugiati in Castel Sant’Angelo poté lasciare la fortezza: ma il pontefice, cui fu imposta una taglia enorme, 400mila ducati, non riuscì a pagarla per intero, e si ritrovò quindi di fatto prigioniero nella sua stessa fortezza, da dove riuscì a fuggire soltanto a dicembre.28
25 BAV, Codices Reginenses Latini, 350, cc. 121v-122r.
26 Scrivendo a un suo segretario nei giorni del sacco Scaramuzza Trivulzio, cardinale di Como, ricordò le difficoltà del principe d’Orange nel mantenere la disciplina, dato che «li soldati dicevono che, morto Borbone, non avevono alcuno superiore». La lettera è a stampa in C. MILANESI, pp.471-490.
27 La più recente biografia del principe è quella scritta da J.P.S
OISSON, Philibert de Chalon, Prince d’Orange, Paris, Grasset, 2005.
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Durante la prigionia, il 15 luglio 1527, Clemente VII emanò una bolla sulle modalità di elezione del futuro pontefice se la sua morte fosse occorsa prima della sua liberazione. Cfr. BAV, Codices Vaticani Latini, 10253, cc. 15r-16v.
Nel frattempo le potenze collegate videro nei guai di Clemente VII un’occasione per ingrandire i propri territori a spese della Chiesa. Minacciato dall’espansionismo degli ex alleati, il dominio pontificio sembrava destinato ad andare in frantumi: a giugno Venezia assumeva il controllo delle città di Ravenna e Cervia, mentre Alfonso d’Este, duca di Ferrara, occupava Modena, Reggio e Rubiera; Sigismondo Malatesta rientrava in Rimini; e Orazio Baglioni, appena licenziato dagli stipendi del pontefice, tornava dopo oltre tre anni di assenza a dominare Perugia.29
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