«Sempre s’è veduto quelle riformazioni di governo o larghe o strette ch’elle sieno state, non essersi mai fatte a comodo e benefizio universale, ma sempre a sicurtà, comodo e grandezza della parte superiore».
Filippo De’ Nerli, I commentarii
Le vicende che portarono all’assedio di Firenze iniziarono proprio con il sacco di Roma. Da più di un anno l’Italia intera era in fiamme, e la Lega di Cognac stava perdendo la sua guerra contro gli eserciti imperiali. Firenze era governata in nome del papa dal legato pontificio Silvio Passerini, cardinal Cortona, che vigilava anche sulla condotta dei due nipoti di Clemente VII, Ippolito e Alessandro de’ Medici, ed era coadiuvato nel suo compito da altri due porporati, il Cibo e il Ridolfi.
Mentre i Lanzi passavano sui domini di Firenze, diretti a Roma, i giovani fiorentini chiesero di essere armati, per poter difendere la città e i propri averi in caso di attacco.
Il cardinale rifiutò di armare la cittadinanza, nel timore di una sommossa; ma il 26 aprile, quando il Cortona – insieme al Cibo e al Ridolfi – uscì da Firenze per recarsi alla vicina villa di Castello, dove doveva ricevere i maggiorenti della Lega, in città si sparse la voce che i Medici erano fuggiti temendo l’avanzata dell’esercito del Borbone.
Ne nacquero dei disordini di piazza, poi passati alla storia come “i tumulti del venerdì”: al grido di Popolo e Libertà una gran folla occupò il palazzo della Signoria, senza che i duecento archibugieri di Bernardino da Montauto, che lo difendevano, sparassero un sol colpo. A guidare i rivoltosi erano alcuni volti noti della scena politica fiorentina, come Niccolò Capponi (figlio di quel famoso Piero che nel 1494 aveva tenuto testa al re di Francia Carlo VIII), Francesco “Ceccotto” Tosinghi, Matteo Strozzi, Francesco Vettori, Piero e Giuliano Salviati. In breve i Signori, in una sala delle udienze strapiena di cittadini urlanti, furono obbligati a votare una provvisione che metteva al bando i Medici. Nella concitazione di quei momenti, a nessuno venne però in mente di predisporre un piano di difesa e soprattutto di chiudere le porte della città. Ai tre cardinali fu quindi agevole, avvertiti di quanto stava accadendo, rientrare in Firenze scortati da mille fanti della Lega, che in breve ripresero il controllo della situazione mentre molti di quelli che avevano gridato Popolo tornavano immediatamente a gridare Palle. I rivoltosi asserragliati in Palazzo tentarono una
breve resistenza, che sarebbe stata comunque senza speranza: ma per evitare un bagno di sangue, che avrebbe rischiato di provocare nuovi disordini, il capitano della Lega Federico Gonzaga (detto Federico da Bozzolo, per distinguerlo dall’omonimo suo parente signore di Mantova) e Francesco Guicciardini preferirono offrire un perdono generale per tutti coloro che avevano partecipato ai tumulti. Su questa base, la Signoria provvide a cancellare il bando comminato ai Medici sotto minaccia, e il palazzo dei Signori fu evacuato dagli occupanti.1 Nemmeno quindici giorni dopo, il 12 maggio, cominciarono ad arrivare a Firenze le prime notizie di quanto era successo a Roma, e con il papa costretto in Castel Sant’Angelo, a Firenze si risvegliarono i mai sopiti fermenti antimedicei.
I fiorentini colsero al volo l’occasione per restaurare le libertà repubblicane, che erano state soppresse quindici anni prima, e questa volta il mutamento di regime fu tutto condotto sul piano politico. L’iniziativa fu assunta da Filippo Strozzi, marito di Clarice de’Medici (figlia di Piero il Fatuo) e dunque direttamente imparentato con la famiglia dominante. Proprio attraverso la mediazione di Clarice, che fu inviata da Pisa a Firenze per sondare gli animi delle varie parti in gioco, Filippo convinse Niccolò Capponi e Francesco Vettori ad appoggiare un nuovo tentativo di “mutazione”, mentre lo Strozzi si sarebbe assunto il compito di trattare con il cardinal Cortona e di mantenere la calma in città.2
Il colpo di mano andò a buon fine, e la guarnigione a guardia del Palazzo dei Signori fu facilmente convinta a deporre le armi e a ritirarsi a difesa di palazzo Medici. Da una parte tanto il cardinale quanto i nipoti del papa avevano compreso come fosse meglio andarsene pacificamente piuttosto che essere cacciati e messi al bando; dall’altra il patriziato fiorentino, che spingeva per una restaurazione repubblicana, sembrava voler evitare sia gli spargimenti di sangue sia un radicale cambiamento della classe dirigente cittadina.
Il 17 maggio 1527 Ippolito de’ Medici e il cardinal Passerini lasciavano la città, scortati da Filippo Strozzi fino al Poggio a Caiano, da dove poi proseguirono per Lucca. Se ne andavano accompagnati da una provvisione che riconosceva come il magnifico Ippolito, il duca Alessandro (che in quel momento si trovava a Roma) e la duchessina Caterina fossero «amorevoli et buoni cittadini», a garanzia che non sarebbero stati perseguitati.3 Più che di una legge, si trattava in realtà di un accordo: ai Medici veniva riconosciuto il diritto di muoversi
1
Per i tumulti del Venerdì si vedano B. VARCHI, Storia fiorentina, Firenze, Salani, 1963, vol. I, pp. 97-116; SEGNI, pp. 5-6; NARDI, II, pp. 117-125; e S.AMMIRATO, Istorie fiorentine, a cura di F.RANALLI, Firenze, Batelli e Compagni, 1849, vol. VI, pp. 107-111.
2 A.M.B
ANDINI, Vita di Filippo Strozzi padre di Piero Maresciallo di Francia, Livorno, Santini, 1756, pp. 12- 15. Fu lo Strozzi a convincere il tesoriere della Signoria, Francesco del Nero, a negare al cardinal Passerini l’accesso al denaro pubblico (G.B.NICCOLINI, Filippo Strozzi. Tragedia corredata d’una vita di Filippo Strozzi
e di documenti inediti, Firenze, Le Monnier, 1847, p. LXV).
3 Caterina de’ Medici, ancora bambina, rimase in città dove divenne di fatto ostaggio della Repubblica. La sua “reclusione” risale al 9 settembre 1527, quando le fu vietato di uscire dal monastero di Santa Caterina (o delle Murate) che già la ospitava: ASF, Otto di Guardia e Balìa della Repubblica, 200, c. 12rv. Per i tentativi di ottenere la sua liberazione si vedano le lettere di Jacopo Salviati al Visconte di Turenna, 10 ottobre 1528, e di Giovan Battista Sanga al duca d’Albany, 29 gennaio 1530, pubblicate in [G.RUSCELLI-F.ZILETTI], Delle lettere
di principi, le quali o si scrivono da principi, o a principi, o ragionano di principi, Venezia, Ziletti, 1581,
rispettivamente alle cc. 130v-131r e 187v. Si veda anche la lettera di Baldassarre Carducci ai Dieci, 16 febbraio 1529, in DESJARDINS –CANESTRINI, II, pp. 1042-1047.
liberamente sia in città sia nel dominio fiorentino, come privati cittadini, e sotto la protezione del nuovo regime dovevano trovarsi anche gli aderenti e seguaci del partito mediceo per i fatti avvenuti a partire dal 1512, oltre che il cardinal Cortona e i suoi familiari.4
In città fu instaurato un regime democratico–oligarchico, di tipo veneziano, sull’esempio di quello che oltre trent’anni prima era stato modellato dal Savonarola dopo la prima cacciata dei Medici, nel 1494, e le cancellerie furono purgate dai sostenitori del precedente regime.5 Riconsacrata la cosiddetta Sala di Cristo in Palazzo Vecchio (che sotto i Medici era stato trasformata in alloggiamenti per soldati, ospitando anche una taverna e un bordello) fu ricostituito il Consiglio Maggiore, col compito di creare i magistrati della Repubblica, votare le leggi ed eleggere ogni sei mesi un più ristretto Consiglio degli Ottanta incaricato del governo; gli Otto di Pratica, magistratura di ispirazione medicea, furono nuovamente aboliti e sostituiti dai Dieci di Libertà e Pace della tradizione repubblicana; e alla carica di gonfaloniere venne eletto il 31 maggio Niccolò Capponi, con un mandato che – solo in quella prima occasione – avrebbe dovuto durare 13 mesi, per poi essere rinnovato di anno in anno.6 Cinquantatreenne (era nato nel 1474), uomo di carattere prudente e princìpi moderati, il Capponi impostò la sua azione sull’appoggio degli strati più conservatori della città, gli Ottimati, non disdegnando rapporti con i Bigi, filo–medicei ma moderati: le uniche forze, del resto, che potevano vantare una diretta esperienza di governo, costruita negli anni della dominazione medicea.7 Per la fazione popolare più radicale, quella che poi sarebbe stata indicata come la setta degli Arrabbiati, il Capponi rappresentava quindi (e non a torto) la continuità con l’oligarchia che aveva appoggiato il vecchio regime: una continuità che fu evidente fin dai primi giorni dopo la cacciata dei Medici, e per la quale, come scrisse il Varchi, «molti cittadini un poco più di bassa mano cominciarono a dubitare d’essere ingannati, e non fidarsi di quei medesimi che liberati gli aveano».8
La prima questione che il nuovo gonfaloniere si trovò ad affrontare fu il recupero delle fortezze di Pisa e Livorno, ancora nelle mani di due castellani di fede medicea: il pistoiese Paccione, nella cittadella pisana; e il barghigiano Galletto in quella labronica. La soluzione del problema richiedeva decisione e diplomazia, e dopo un primo tentativo effettuato da Filippo Strozzi la questione fu affidata a un uomo di lunga esperienza, Anton Francesco degli Albizi.
L’Albizi, che in gioventù era stato un fiero avversario dei Piagnoni savonaroliani, nel 1512 aveva partecipato attivamente alla rivolta contro Piero Soderini, collaborando alla restaurazione dei Medici: negli anni, l’esperienza della tirannia medicea l’aveva però trasformato in un convinto repubblicano, inducendo in lui anche decisi sentimenti anti-papali
4 ASF, Balìe, 44, cc. 488v e 491rv, 16 maggio 1527. 5
D.MARZI, La cancelleria della Repubblica Fiorentina, Rocca San Casciano, Cappelli, 1910, p. 318 e sgg. 6
F.DE’NERLI, Commentarij de’ fatti civili occorsi dentro la città di Fiorenza dall’anno 1215 al 1537, Trieste, Coen, 1859, vol. II, p. 47.
7 S
EGNI, pp. 17 e 26; e NARDI, II, p. 157 criticano entrambi il Capponi per la sua disponibilità nei confronti degli ex esponenti del regime mediceo, che venivano accolti nella Pratica e nei Collegi. Si veda anche VON
ALBERTINI, p. 111. 8 V
e più genericamente anti-clericali. Nei giorni seguenti la partenza del cardinal Cortona, il suo apporto era stato decisivo per forzare la Signoria a dimissionare in massa, e rendere possibile la nomina di nuovi Signori e conseguentemente anche di un nuovo Gonfaloniere.9
I castellani si rifiutavano di cedere le fortezze ai nuovi governanti senza il consenso del pontefice o del cardinal Cortona, e per risolvere la questione all’Albizi si affiancò in un secondo momento anche Zanobi Bartolini, un moderato che già aveva servito sotto i Medici e che tre anni dopo avrebbe poi rivestito un ruolo importante negli ultimi giorni della Repubblica. Dopo due settimane di trattative risultò evidente come fosse solo una questione di prezzo: l’erogazione di ricche elargizioni e vitalizi annui convinse gli occupanti delle due cittadelle a consegnare le chiavi ai nuovi padroni.10