«Ma di tener Fiorenza, / non avrai, Papa, il vanto / o tu l’avrai morente / per darle l’olio santo».
Silvestro Aldobrandini
Il gennaio 1530 (1529 secondo lo stile antico del calendario fiorentino) iniziava male per la Repubblica, con la chiusura definitiva dell’assedio intorno alla città. Le comunicazioni con le guarnigioni che ancora resistevano nel resto della Toscana erano sempre più difficili: ed è significativo, a questo proposito, come gli scambi epistolari tra il centro e la periferia del dominio si facciano via via sempre più occasionali.
Questa situazione d’isolamento è ben testimoniata dal grafico di figura 3, che illustra la distribuzione delle comunicazioni dei Dieci di Libertà e Pace registrata dal fondo Dieci di Balìa. Missive dell’Archivio di Stato di Firenze: è evidente il momento di cesura segnato dall’arrivo dei rinforzi imperiali. Da gennaio, sia per la diminuzione delle possibili destinazioni, sia per l’oggettiva difficoltà di spedizione, le comunicazioni inviate dai Dieci verso il dominio si ridussero drasticamente.
FIG. 3 – Comunicazioni dei Dieci di Libertà e Pace verso destinazioni nel Dominio.
Fonte: ASF, Dieci di Balìa. Missive, registri 102-108.
0 200 400 600 800 1000 1200
Il primo gennaio si era insediato il nuovo gonfaloniere, Raffaello di Francesco Girolami, eletto a dicembre. La sua fortuna politica si era costruita, a quanto sembra, sul consenso popolare ottenuto al suo rientro (unico tra i quattro oratori inviati) dall’ambasceria a Carlo V, dopo la quale aveva arringato la cittadinanza alla difesa. Nella realtà delle cose, con la creazione del nuovo gonfaloniere gli equilibri politici cittadini non si spostavano di molto. Certamente però il Girolami riscuoteva maggiori consensi rispetto al Carducci. Di chiara nobiltà, e in passato vicino ai Medici, il Girolami incontrò i favori (e attirò i voti) sia degli Ottimati sia dei Palleschi, e d’altra parte – dal punto di vista della coalizione popolare – il suo impegno in favore della Repubblica era stato fin lì cristallino e incontestabile, sia nel ruolo di Commissario Generale sia in quello di ambasciatore.1 Anche nella prospettiva di una pace, della chiusura di un accordo con Clemente VII, il suo nome era assai più spendibile di quello del suo predecessore.
Il 6 gennaio la Signoria, che era stata rinnovata per un altro bimestre appena la settimana prima, stabilì di compiere un ultimo tentativo per aprire una trattativa con il papa.2 La decisione era maturata a seguito dell’arrivo in città del vescovo di Faenza, Ridolfo Pio da Carpi, inviato pontificio.3 Il vescovo era stato accolto nell’abitazione del Baglioni, il quale aveva riferito alla Signoria che secondo le informazioni ricevute il papa chiedeva l’invio di una nuova delegazione fiorentina; e il Girolami stimò opportuno convocare il Consiglio Maggiore, perché esprimesse il suo voto in proposito.4 Una decisione che poi gli sarebbe stata rimproverata dall’intero stato maggiore degli Arrabbiati, in testa l’ex gonfaloniere Carducci, per non aver applicato quella strategia che i politologi moderni definirebbero di “soppressione delle decisioni” (per la quale i temi scomodi e difficili, che potrebbero dimostrarsi contrari o sfavorevoli al partito di governo, vengono accantonati dirottando la discussione su altri aspetti):5 il voto espresso dal Consiglio aveva infatti messo in minoranza la linea intransigente della “setta”, che non voleva avviare nuove trattative, evidenziando come la volontà della maggior parte del popolo – quello che Robert ha definito, con efficace espressione, «il partito della pace»6 – fosse piuttosto quella di venire a una composizione. Questa volontà era già emersa a metà di settembre, quando le posizioni più estremiste degli Arrabbiati finirono in minoranza proprio sull’invio di oratori a Clemente VII, ma in quel momento parve ancora più chiara per la strana, irrazionale euforia che si sparse per Firenze alla notizia dell’imminente partenza degli oratori.7
1 Si vedano nel merito G.M
ILANESI, p. 159; e VARCHI, I, p. 703.
2 Già nella Pratica del 1° gennaio era stata messa in discussione la possibilità di inviare una nuova delegazione a Clemente VII, «essendo stati per ordine del papa ricerchi di mandarli oratori promettendo che da questo ne seguiria optimi fructj». Cfr. ASF, Consulte e pratiche, 72, cc. 149r-151r.
3 Il 6 gennaio 1530 i Dieci avevano concesso al monsignore un salvacondotto di otto giorni per entrare in Firenze e discutere di «alchune honeste et ragionevoli cagioni»: ASF, Dieci di Balìa. Missive, 108, c 149r.
4
DE’NERLI, II, pp. 122-125. G.MILANESI, p. 162.
5 Per la formazione e la soppressione delle decisioni si vedano P.B
ACHRACH – M.S.BARATZ, Two Faces of
Power, «The Americun Political Science Review», vol. 56, 4 (Dec. 1962), pp. 947-952; e degli stessi autori Power and Poverty: Theory and Practice, New York, Oxford University Press, 1970.
6 R
OBERT,I,p. 350. 7 F
Di svolgere l’ambasciata furono incaricati questa volta Luigi di Paolantonio Soderini, Andreolo Niccolini e Roberto Bonsi (quest’ultimo come assistente e sotto-ambasciatore). La missione diplomatica lasciò Firenze qualche giorno dopo per recarsi a Bologna, dove come abbiamo visto si trovavano sia Carlo V sia Clemente VII, con un mandato soltanto esplorativo, quello «de intendere quello che vol dire il papa».8 All’arrivo dei delegati fiorentini nella città felsinea Enrico di Nassau – gran ciambellano dell’imperatore nonché cognato di Filiberto di Chalon – disse loro brutalmente: «Non otterrete niente». E infatti fu ancora una volta un buco nell’acqua. Il papa dimostrò da subito una forte ostilità verso la delegazione cittadina, forse – come sostenne il Segni – perché infastidito dal basso profilo dei suoi componenti, che non avevano autorità per trattare alcunché.
«Quegli ambasciadori, arrivati a Bologna, e chiesto l’audienza, non seppono dir altro, se non che erano venuti quivi per intendere dal papa ciò che e’ voleva lor dire. Onde si dice, che il papa con un ghigno pieno di sdegno disse a’ circostanti: era gli altri cittadini a Firenze più dappochi di questi? Né per questo mancò di tentare con Ruberto Bonsi, che era sottambasciadore, se poteva condurre nulla. Ruberto rescrivendo, e non avendo mai risposta se non che se ne tornasse, non possette appiccare filo alcuno».9
Entro la fine del mese fu chiaro che da parte del papa Medici non c’era alcuna volontà di giungere a un compromesso. Anzi, Clemente VII negò persino di aver mai richiesto l’invio di un’ambasceria, e si dimostrò sorpreso che i fiorentini volessero trattare. Come avrebbe commentato il maestro di casa del Re di Navarra, parlando con l’ambasciatore ferrarese Alessandro Guarini, «il papa vuole che questi signori dicano quello che voleano da lui, et che questi signori voriano che il Papa dicesse lui quello che voria da essi, et che la cosa passa per questo verso».10
Gli oratori fiorentini furono pubblicamente umiliati e divennero lo zimbello dei bolognesi, tanto che qualche mese più tardi Francesco Carducci ebbe a ricordare che «se fussino stati judei non sarieno stati peggio trattati».11 Gli ambasciatori riuscirono soltanto ad apprendere, e per Firenze non fu una buona notizia, che Carlo V era risoluto, in caso di sconfitta delle sue truppe, a mettere insieme una seconda armata.12 Soltanto il Bonsi, che si trattenne a Bologna qualche giorno in più perché malato, riuscì a portare a Firenze ulteriori informazioni: in particolare un messaggio che il Papa gli aveva chiesto di riferire al Girolami in forma
8
Alessandro Guarini ad Alfonso I d’Este, da Firenze, 12 gennaio 1529, in ASMo, Cancelleria Ducale. Estero. Carteggi ambasciatori. Firenze, 15, ins. 9, ad datam. Per agevolare la nuova missione diplomatica venne anche chiesta una tregua d’armi all’Orange. Le credenziali per Niccolini e Soderini, del 12 gennaio, in ASF, Signori. Missive I cancelleria, 58, cc. 35v-36r.
9 S
EGNI, p. 163. 10
Alessandro Guarini ad Alfonso I d’Este, 5 febbraio 1530, in ASMo, Cancelleria Ducale. Estero. Carteggi ambasciatori. Firenze, 15, ins. 9, ad datam.
11 ASF, Consulte e pratiche, 73, c. 36v. 12
Si vedano al riguardo le lettere di Andreolo Niccolini e Luigi Soderini ai Dieci del 18, 24 e 27 gennaio, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 135, cc. 38r-39v, 44r e 30r-31v. Le informative arrivate dalla missione bolognese sono conservate nel registro 135 della serie delle Responsive, insieme a quelle del periodo gennaio- marzo 1529 e dunque fuori posto rispetto alla loro naturale collocazione. L’errore fu dovuto probabilmente all’impiego della datazione secondo l’uso fiorentino. Lo stesso registro conserva infatti numerose altre lettere giunte a Firenze nei primi tre mesi del 1530, tra le quali quelle di Francesco Ferrucci che G. MAZZONI,
riservata (richiesta che mise in sospetto i diffidenti membri degli Arrabbiati), col consiglio di cercare una composizione che accontentasse anche l’Imperatore, finché questi si fosse trattenuto in Italia.13
Da parte sua il pontefice era più convinto che mai della linea di condotta fin lì seguita: e anzi nelle settimane seguenti fece chiedere all’Orange di attaccare Firenze da ogni parte, per accelerarne la resa,14 sollecitando allo stesso tempo Perugia per l’invio di alcuni pezzi d’artiglieria verso la Toscana, e Pistoia per la fornitura di generi alimentari e guastatori.15 Cos’era successo? Papa Clemente non voleva assolutamente ricevere nuove delegazioni fiorentine. Il vescovo di Faenza era stato inviato a Firenze solo per sondare gli animi, per rendersi conto di quali fossero gli umori della città assediata; era stato il monsignore, riferendo le proprie impressioni a Malatesta, a provocare l’equivoco. Il prelato, visto adesso non più come un ambasciatore, ma come una spia, fu trattenuto nelle prigioni fiorentine, anche se i contatti informali con la Santa Sede proseguirono16. A non farci una gran bella figura fu il condottiero perugino: Malatesta era stato preso per il naso, dicevano i più benevoli. I maligni la pensavano anche peggio: il vescovo era venuto per corrompere il condottiero perugino, per prendere ulteriori accordi con lui in nome del papa; oppure per farlo credere, seminando zizzazia tra la dirigenza fiorentina e il suo capitano.17 Invece, come risulta evidente dalla pratica dell’8 febbraio, era stata la stessa Signoria, tra il gennaio e il febbraio 1530, a sollecitare il Baglioni perché portasse avanti i contatti con gli emissari pontifici, confermando la piena fiducia nel proprio generale.18