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«In quel tempo ch’io dico avea le mura con i suoi terrapieni e ben guardata da gente sgherra intrepida e sicura che stima non facea di moschettate. Ed in quel sito non avea paura

se avesse a contrastar con cento armate». Ippolito Neri, La presa di San Miniato

Con l’esclusione del fallito assalto della notte di San Martino, sotto le mura fiorentine il primo mese d’assedio era stato contrassegnato da ben pochi fatti d’arme degni di essere riportati,

«non bastando l’animo a quegli di fuora di combattere la città, né essendo pronti quegli di dentro a tentare la fortuna; perché, reputando d’avere modo a difendersi molti mesi, speravano che, o per mancamento di danari o per altri accidenti, gli inimici non avessino a starvi lungamente».1

Nel resto della Toscana la situazione era assai più dinamica: non fosse altro perché, sotto gli assalti imperiali, le città e i principali centri del contado cadevano come tessere di un domino, implicitamente confermando le pessimistiche previsioni circa la combattività del dominio che Anton Francesco degli Albizi aveva pronunciato di fronte alla Pratica nel luglio precedente. Agli inizi di ottobre le bande di Alessandro Vitelli e quelle di Sciarra Colonna si erano attardate, rispetto alla colonna principale dell’esercito cesareo, per conquistare il Casentino. Bibbiena, dove più forte era il partito filo–mediceo, si arrese subito, utilizzando a proprio favore un bando emesso il 27 settembre dal presidente pontificio della Romagna, Lionello Pio da Carpi, che garantiva salvezza e impunità a «qualunque città, castello e villa della giurisdizione predetta di Fiorenza» che accettasse senza costrizione di sottomettersi «a la obedientia di Soa Santità».2 Stia e Borgo alla Collina fecero lo stesso. Il castello di Poppi, capoluogo della regione e strategico per il controllo del Casentino, in un primo momento rifiutò di arrendersi, ma dopo le solenni dichiarazioni di intenti («noi non siamo per fare se non quanto farà cotesta Repubblica»)3 accennò soltanto una breve resistenza. Qui si trovava

1 F. G

UICCIARDINI, Storia…, III, p. 2037. 2

I Dieci a Bartolomeo Gualterotti, 29 settembre 1529, in SANUTO, LII, coll. 45-48. Per questa lettera l’edizione riporta la data del 29 febbraio 1529, che come si evince agilmente dal testo è errata.

come commissario fiorentino Andreolo Zati, insieme a cinque bande di fanteria, cioè 400–500 uomini. Il 14 ottobre il Vitelli si accampò nel convento francescano di Certomondo, e dopo una serie di attacchi riuscì nel giro di un paio di giorni a prendere il castello per la resa degli abitanti, che accettarono di sottomettersi agli inviati pontifici: le forze fiorentine abbandonarono il castello e riuscirono a rientrare nella capitale.4 «Il Casentino – scrisse alla Balìa Ludovico Sergardi, oratore senese presso il campo imperiale – sta ora tutto per questo esercito, che non v’era se non Poppi contrario, e quello si è dato a patti».5 Qualche giorno dopo anche il Vitelli lasciava il Casentino per andare a ricongiungersi col grosso dell’armata a Firenze, ponendo i suoi attendamenti a Giramonte: qui sarebbe stato ferito a un ginocchio da un colpo d’archibugio, sparato durante una scaramuccia con gli uomini di Mario Orsini. Tra il 17 e il 19 ottobre si arresero alle milizie del duca d’Amalfi anche i castelli di Colle, in Val d’Elsa, e di San Gimignano, ambedue assai importanti per controllare la strada che veniva da Siena e prevenire incursioni nemiche. La conquista di questi due centri non comportò grandi difficoltà per gli imperiali; tanto che Francesco Ferrucci, in alcuni passi delle sue lettere da Empoli, usò l’esempio di Colle quasi come pietra di paragone della scarsa voglia di combattere.6 Entrambi i castelli si erano infatti arresi “alle grida”, come si diceva allora: cioè alla prima richiesta di aprire le porte, senza nemmeno accennare una resistenza. Può essere, come scrisse un anonimo cronista colligiano, che questa mancanza di combattività fosse dovuta alla certezza di non potersi seriamente opporre al nemico;7 ma è anche vero che – come ebbe modo di notare Ernesto Mattone-Vezzi – durante tutta la guerra «la Valdelsa non corrispose ai piani di Firenze, e si mostrò propensa per la parte medicea e papale e fra tutte le terre valdelsane, Colle fu in primissima linea, la più tepida, se non addirittura avversa».8 In ogni caso, come raccontò il cronista colligiano Niccolò Beltramini, la fede serbata a Clemente VII e alla causa della famiglia Medici fu pagata a caro prezzo:

«Accordandosi tosto con Papa Clemente (i colligiani) spesero otto o diecimila scudi, che per buona sorte erano in cassone, deputati alle mura e chiese et venderno et parte donorno un’assai ricca argenteria et le mulina dello Spedale, accattando gravi somme dai privati. Onde si fa conto che costò quel caso alla Terra nostra più che 30.000 scudi, oltre certi pezzi grossi d’artiglierie e sol vi rimase assai buona munitione di moschetti et archibusi da mura con alcune cerbottane».9

4 BNCF, Fondo Nazionale, II.IV.404, Ragguaglio di Poppi, c. 11 e segg. Cfr. R

OBERT, I, p. 308. 5 Ludovico Sergardi alla Balìa di Siena, 16 ottobre 1529, in ASS, Balìa, 597, n. 66.

6 Cfr. le lettere di Francesco Ferrucci ai Dieci del 17 e 20 ottobre 1529 : in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 146, c. 71rv e c. 132rv.

7

L’ Anonimo giustifica la resa di Colle con la mancanza di soldati per difendere la terra, visto che la guarnigione era stata richiamata a Firenze. «Nel principio dell’assedio, i fiorentini vollero entro le mura della città loro gli huomini e soldati di Colle esperimentati tante volte in diversi tempi et occasioni, che molto bene sapevano potersene fidare. Da che ne seguì che non sendo nella Terra di Colle difensori propri degli stranieri dalli fiorentini non provvisti (...) bisognò per necessità che gli huomini all’hora governanti quella Terra si arrendessero ai nemici loro». Citato in E.MATTONE VEZZI, Il Ferruccio e l’assedio di Firenze visti da Colle di

Valdelsa, Castelfiorentino, Giovannelli e Carpitelli, 1930, p. 11, che ammette comunque che la giustificazione

dell’Anonimo è «più abile che vera» e non appare credibile. 8 Ibidem.

9 Citato in L.B

Caso ancor più significativo fu quello di San Gimignano, da dove i fiorentini furono cacciati in malo modo. Qui si era rifugiato con le sue bande di fanteria il commissario Giovanni Covoni, che nei giorni precedenti aveva abbandonato prima Poggibonsi e poi Colle. Quando fu chiaro che gli abitanti volevano arrendersi agli imperiali, Covoni e le sue compagnie (tra le quali una formata di “sbanditi” fiorentini comandata dal capitano Goro da Montebenichi), lasciarono la città delle torri, inseguiti dagli spari dei sangimignanesi: «colpi darchibusi, et di moschette comiciorono ad salutare detta compagnia, di maniera ne morì alquanti».10

Con il ripiegamento del Covoni l’intera Valdelsa finiva sotto il controllo degli imperiali, ma per il general commissario fiorentino non era ancora tutto. Raggiunta Volterra, il Covoni entrò subito in attrito con il capitano di quella città, Niccolò de’ Nobili, perché questi – in accordo con i volterrani – non voleva concedere alle quattro bande di fanteria la possibilità di alloggiare all’interno della cinta muraria, nel timore che ne potessero seguire disordini. Solo il commissario, per riguardo, fu ammesso in Volterra: ma i soldati dovettero accontentarsi dei borghi circostanti. Mantenere le forze sparpagliate nei dintorni non era però sicuro, e divenne ancora più pericoloso quando imperiali e senesi si impadronirono, il 23 ottobre, di Peccioli, castello dell’Alta Valdera strategico per il controllo della strada che da Volterra conduceva a Pontedera e Pisa.11 Quasi contemporaneamente, anche il piccolo castello di Lari si arrendeva “alle grida”, consegnandosi al Duca d’Amalfi.12

Temendo di essere sorpreso da un nemico sempre più vicino, il Covoni continuò a trattare con i volterrani per alcuni giorni; poi, esaurita la pazienza, il 6 novembre il commissario fiorentino lasciò i borghi con le sue compagnie in ordinanza, ed entrò in Volterra. Gli abitanti si opposero con le armi a questa vera e propria invasione: i disordini che ne seguirono provocarono due vittime tra i volterrani, e si conclusero con una imbarazzante ritirata da parte dei fiorentini, che con il loro comportamento irresponsabile incrinarono gravemente la fedeltà della città nei confronti di Firenze.13 A seguito di questi episodi, questa «alterazione» come fu definita, Covoni fu sostituito nel suo incarico da Bartolomeo Tedaldi, anche se i Dieci cercarono di addolcire la pillola mascherando la rimozione come un normale avvicendamento.14 Il Tedaldi arrivò a Volterra il 23 novembre, e due giorni dopo Covoni lasciava la città.

10 Giovanni Covoni ai Dieci, 19 ottobre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 146, c. 102rv.

11 Cfr. Francesco Ferrucci ai Dieci, 24 ottobre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 146, c. 202r-203r; e i Dieci a Ceccotto Tosinghi, 26 ottobre 1529 in ASF, Dieci di Balia. Missive, 104, cc. 36v-37r, dove si legge che «La perdita di Peccioli ci ha dato non piccolo dispiacere, non tanto per la importantia del Castello, quanto per vedere che da questo principio ne può seguire delli altri (…)». Peccioli fu lasciata praticamente indifesa dal commissario Francesco Baldovinetti, che più tardi sarebbe stato processato dalla Quarantìa per essersi ritirato fuggendo di fronte al nemico. Si veda anche la lettera del Duca d’Amalfi alla Balìa di Siena del 2 novembre 1529, in ASS, Balìa, 598, n. 50, con la quale il Piccolomini elogia i soldati senesi per aver sottratto una bandiera ai fiorentini durante la presa di Peccioli.

12 Francesco Ferrucci ai Dieci, 30 ottobre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 146, cc. 346r-347r.

13 Sull’episodio cfr. Giovanni Covoni ai Dieci, 14 novembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 147, c. 313r.

14 Cfr. le due lettere dei Dieci del 13 novembre, la prima a Niccolò de’ Nobili (ASF, Dieci di Balìa. Missive, 105, cc. 58v-59r; la seconda a Giovanni Covoni (ivi, c. 59rv).

Mentre questo accadeva, sul finire di ottobre i senesi attaccavano anche Montepulciano, antico possesso fiorentino in Valdichiana. L’Orange non era entusiasta dell’attività militare senese, che rischiava di sottrarre a Firenze territori che avrebbero dovuto essere restituiti al papa: per questo ordinò al conte Rosso di Bivignano, al secolo Francesco Aldobrandini, di partire da Arezzo con un contingente imperiale, per unirsi alle truppe senesi.15 Di fronte al rischio di un sacco, gli abitanti di Montepulciano avevano intanto chiesto una tregua di otto giorni, convenendo che se entro quel termine non avessero avuto istruzioni da Firenze si sarebbero consegnati senza combattere. Di lì a poco i soccorsi giunsero però inaspettati. Li guidava Napoleone Orsini, detto l’Abate di Farfa, o anche “l’Abatino”: un ambiguo personaggio, che aveva lasciato la carriera ecclesiastica per darsi con un certo successo a quella delle armi, e che aveva il suo nido d’aquila nel castello di Bracciano, oggi conosciuto ai più per essere sede privilegiata di tanti matrimoni vip. Fin dal mese di luglio l’Orsini – assoldato dalla Repubblica, ma con un conto personale aperto contro il papa Medici – aveva avviato la guerriglia al confine tra il dominio fiorentino e gli stati pontifici, imperversando nel sud senese, nell’aretino e nel viterbese. Guerriglia sui generis, se vogliamo, perché le azioni dell’Orsini erano al limite del brigantaggio: tanto che si era beccato anche una scomunica, per aver sequestrato alcuni frati francescani prima e addirittura un cardinale poi.16 Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre l’Abatino, risalendo inosservato la strada di Contignano, penetrò in Montepulciano alla testa di duecento cavalli e due bandiere di fanti.17 In tal modo la resistenza fiorentina si riaccese, permettendo di conservare il controllo sul borgo poliziano per altri due mesi.

In Mugello la roccaforte di Vicchio, saldamente nelle mani di Filippo Parenti, continuava a disturbare i movimenti delle milizie papaline. I mille uomini di rinforzo chiesti dal Parenti a Firenze non erano però stati concessi, e la sua azione non poteva quindi che avere una portata limitata, incentrandosi soprattutto sui raid contro i convogli nemici da e per Firenze che passavano attraverso il Mugello. Il 22 ottobre da Borgo San Lorenzo arrivò a Vicchio la prima richiesta di resa. La portava un certo capitano Colla, che contemporaneamente teneva contatti segreti con alcuni difensori del castello pronti a tradire e a cambiar bandiera. La richiesta venne respinta. Parenti replicò risoluto che avrebbe ceduto Vicchio soltanto su richiesta dei Signori fiorentini, o altrimenti l’avrebbe difeso con le armi. Al di là dei nobili intenti e delle

15 Cfr. Filiberto di Chalon alla Balìa di Siena, 28 ottobre 1529, in ASS, Balìa, 598, n. 19a), missiva con la quale il principe rispondeva un diplomatico “no” a tutte le richieste senesi su Montepulciano, giudicando la decisione ancora prematura, dato che «Montepulciano ancora non è venuta a darci ubbidienza». Nella lettera di Francesco Aldobrandini alla Balìa di Siena, 29 ottobre 1529 in ASS, Balìa, 598, n. 25, il Conte Rosso annunciava per il giorno seguente la partenza da Arezzo di un contingente imperiale alla volta di Montepulciano. Qualche giorno dopo fu lo stesso Conte Rosso ad annunciare di aver sconfitto nei pressi di Torrita un contingente fiorentino, catturando una cinquantina di fanti e tre capitani: Francesco Aldobrandini ai Priori di Arezzo, 1° novembre 1529, in RIS, XXIV, I, p. 279.

16

Per il sequestro di Francisco de Quiñones (1482-1540), cardinal Santa Croce, nei pressi di Viterbo, si veda la lettera dei Dieci a Francesco Giraldi, 13 agosto 1529, in ASF, Dieci di Balia. Missive, 102, c. 95r. Cfr. VARCHI, I, p. 543.

17

Cfr. su questo argomento la lettera da Chianciano di Pierantonio Paccinelli alla Balìa di Siena, 30 ottobre 1529, in ASS, Balìa, 598, n. 33, che stima le forze dell’Abate in 150 cavalli. VARCHI, I, p. 726 sostiene che l’entrata dell’Abate in Montepulciano avvenne il 3 novembre.

altrettanto nobili parole, la sproporzione delle forze in campo tra i due schieramenti era ormai più che evidente agli occhi del commissario fiorentino, che non ricevendo aiuti da Firenze si trovava in difficoltà anche per pagare il soldo ai suoi fanti. Nello stesso tempo Albizzo da Fortuna, il capitano che sui passi appenninici conduceva la guerriglia contro i papalini, era stato abbandonato ormai da molti dei suoi uomini, e con quei pochi che gli erano rimasti si era ritirato nel piccolo paese di Crespino.18

Il primo novembre, agli uomini di Vicchio fu notificata una nuova richiesta di resa: arrivava da Scarperia, ed era sottoscritta questa volta non da un capitano, ma dal potente commissario pontificio Baccio Valori. L’ultimatum concedeva «ad ogni e qualunque persona che al prefato si ritrova in Vicchio, et così al commissario di detto loco», una giornata di tempo per arrendersi, con il permesso di abbandonare il castello senza correre rischi.

«Et no’ si arrendendo folli notifica che da questo giorno di là, li saranno tolte et bruciate le case et dato il guasto ad tutti li loro beni così posti et situati in mugello come siano in Casentino, Romagna et altri lochi et saranno declarati ribelli di Sua Santità, et quelli che no havranno beni alchuni foli notifica che capitando nelle mani nostre saranno appiccati per la ghola sanza dimora et remissione alcuna».19

L’intimazione di resa fu respinta, come quella di dieci giorni prima, e il giorno successivo i papalini attaccarono il borgo fortificato. Ancora una volta Parenti e i suoi archibugieri riuscirono a respingere il nemico. Vicchio non cadde nemmeno quel giorno, e un piccolo focolaio di resistenza continuò a rimanere acceso nel cuore del Mugello occupato.