Nel marzo 1530 la guerra condotta nelle Romagne dal commissario Carnesecchi era ormai giunta alla fine. Asserragliato nella rocca di Castrocaro, il “secondo Ferruccio” si trovava a fare i conti con la scarsità di uomini, di mezzi finanziari, di munizioni e di viveri. I papalini, forse informati delle difficoltà dell’avversario, decisero di lanciare un attacco in forze, costringendo alla fine il Carnesecchi a stipulare una tregua d’armi.38
I fatti di quei giorni ci sono noti attraverso una lunga lettera scritta il 14 aprile ai Dieci della Guerra, nella quale il commissario fiorentino riepilogava gli eventi degli ultimi due mesi per giustificare le sue decisioni. Secondo il racconto del Carnesecchi, un primo tentativo del nemico per neutralizzare la guerriglia fiorentina fu condotto nei giorni tra il 21 e il 23 febbraio. Seicento cavalieri borgognoni, di stanza tra Imola e Forlì e capitanati da Girolamo Maffei, cominciarono a scorrere i possedimenti fiorentini in Romagna, «con una infinità di genti comandate dalle terre ecclesiastiche circonvicine, alle quali mostrammo animoso volto, sicché fatta un poco di scaramuccia vituperosamente se n’andorno». Il 24 febbraio sul teatro di guerra fece la sua apparizione il colonnello del capitano napoletano Cesare di Mayo (noto anche come Cesare Maggi), che aveva mosso su Castrocaro con più di mille fanti: «gente veramente da guerra», secondo la definizione datane dal Carnesecchi. Mentre le truppe del Di Mayo si univano alla cavalleria del Maffei, il commissario fiorentino provvedeva a ultimare le difese della piccola fortezza di Monte Poggiolo, avamposto e vedetta della rocca di Castrocaro; e allo stesso tempo chiedeva aiuto all’ambasciatore fiorentino a Ferrara, Galeotto Giugni, che gli inviò seicento scudi promettendo poi ulteriori somme per garantire la difesa del dominio. Con quei soldi, raccontò il Carnesecchi, «armai da vicino a trecento fanti»: la guarnigione che difendeva Castrocaro era salita in tal modo a ottocento uomini, tra soldati e terrazzani.
Passando per la montagna, gli imperiali avevano intanto indotto facilmente Marradi a tradire di nuovo la causa fiorentina, e a fornire anche bande di armati per andare all’assalto delle forze repubblicane che ancora resistevano. Pochi giorni dopo anche Modigliana aprì le porte agli imperiali, pagando 1000 ducati come riscatto di guerra. Commentò il Carnesecchi, scrivendone a Firenze:
«E senza dar battaglia o scaramuccia in brevi giorni quelli di dentro convennero dare alli inimici mille ducati d’oro, e vettovaglie e altre regalie per cinquecento ducati; cosa certo brutta e disonesta, perché erano più quei di dentro che gl’inimici di fuori, e inoltre in sito gagliardissimo, ma fu sempre facile vincere chi vuol esser vinto».39
Dopo Modigliana fu la volta di Dovadola. Qui stava una piccola guarnigione al comando di Giovanni de’ Rossi, che dovette abbandonare il paese quando gli abitanti decisero a loro volta di arrendersi agli imperiali: lui riuscì a tornare a Castrocaro, mentre i fanti ai suoi ordini disertarono e si diedero alla fuga.
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ONTI, La guerra…, pp. 91-94.
Intorno al 20 marzo la principale fortezza fiorentina in Romagna era circondata da forze preponderanti: oltre 4000 uomini tra le truppe del Di Mayo, quelle del presidente Lionello Pio da Carpi, e le bande filo–medicee raccolte tra i popolani di Marradi e della montagna. Con loro anche una dozzina di pezzi d’artiglieria di piccolo calibro, con i quali iniziarono a martellare le postazioni fiorentine. «Posato il campo lontano a qui a mezzo miglio, cominciarono a salutarci con un grosso cannone e con cinque falconetti; ma benché facessero assai tiri battendo la terra, Iddio grazia non amazzarono persona: bensì giorno e notte ci tenevano in arme», raccontò il Carnesecchi.
L’attacco a Castrocaro fu portato nella notte tra il 22 e il 23 marzo. Il primo assalto, in realtà un diversivo, fu condotto a porta Fiorentina. Contemporaneamente il grosso delle truppe attaccava dal lato di San Francesco. In un primo momento il successo sembrò arridere agli attaccanti: due alfieri nemici riuscirono addirittura a salire sulle mura, con un piccolo gruppo di fanti, prima che il contrattacco della guarnigione – guidato dallo stesso Carnesecchi – li ricacciasse fuori. Gli imperiali tornarono all’attacco più e più volte, ma vennero sempre respinti e furono alla fine costretti a ritirarsi. Nei giorni seguenti alla battaglia la pressione degli imperiali su Castrocaro sembrò allentarsi. Il 30 marzo una delegazione nemica, guidata da Giampaolo Romei, chiese di parlamentare. L’iniziativa era stata presa dal presidente Lionello: per mostrare le proprie buone intenzioni, i papalini accettarono anche di abbandonare il blocco intorno al paese, riportando le truppe nel forlivese.
Ormai incapace di resistere, ma anche impossibilitato a ricondurre le forze che gli restavano in Firenze, a Carnesecchi non restò che accettare l’idea di un accordo col nemico, anche se questo significava la fine della resistenza nelle Romagne. Galeotto Giugni, l’ambasciatore fiorentino a Ferrara, che dopo i primi 600 scudi aveva promesso ulteriori somme, aveva infatti fatto sapere di «increscergli di non poterci servire, e che chi gli aveva promesso gli aveva mancato». Era successo, come sappiamo dalla Storia del Varchi, che la comunità dei mercanti fiorentini a Venezia, alla quale si era rivolto per ottenere i finanziamenti l’ambasciatore Giugni – attraverso il suo collega nella Serenissima, Bartolomeo Gualterotti – dopo lunghe discussioni aveva poi negato i fondi.40 Il Carnesecchi si era visto recapitare solo 100 ducati, usciti dalle tasche di Pietro Soderini, che si trovava a Vicenza. Era così senza più un soldo, con pochi soldati e nell’impossibilità di pagarli: «di modo che di lione divenni lepre, perché senza denaro, che è il nervo della guerra, non si può far niente». Aprendo le trattative con la delegazione pontificia, il commissario fiorentino stava dunque bluffando. D’altra parte, dopo le vittorie riportate, Carnesecchi si trovava nella condizione più favorevole per ottenere patti vantaggiosi. Ma se l’avesse tirata per le lunghe, il suo bluff sarebbe stato scoperto, nel momento in cui i pochi mercenari di cui ancora disponeva lo avessero abbandonato: «essendo in termini non che da star in campagna, ma con fatica da difender questo cerchio, ed avendo i paesani stracchi e mezzo abbandonati».
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Il primo aprile, gli ambasciatori inviati da Lionello da Carpi si ripresentarono a Castrocaro, offrendo il perdono e la protezione pontificia ma tentando anche di corrompere lo stesso Carnesecchi per ottenere un accordo vantaggioso. Se ne andarono senza aver ottenuto nulla, dopo un duro scontro dialettico con il commissario fiorentino.
«Ma ritornati il giorno dappoi (cioè il 2 aprile) convenimmo in una onorata tregua; e andati due di loro al presidente per informar di tutto sua signoria, vi aggiunse egli certa convenzione, che leggendomela al loro ritorno altro non risposi che stracciar loro in sul volto dette conclusioni di tregua».
Non sappiamo, perché il Carnesecchi non lo dice, quale fossero stati i termini aggiunti di suo pugno da Lionello da Carpi agli impegni presi. Certo non dovevano essere molto onorevoli, se il commissario fiorentino strappò il documento in faccia agli ambasciatori pontifici.
L’accordo definitivo fu chiuso soltanto il giorno seguente, 3 aprile. I termini della tregua prevedevano che la guerra in Romagna dovesse finire. La rocca di Castrocaro, che rimaneva nelle mani dei fiorentini, sarebbe stata consegnata a guerra finita al vincitore, fosse questo il Papato o la Repubblica.
Il Carnesecchi rimaneva dunque «pacificamente e senza impedimento alchuno» reggente di Castrocaro, Modigliana, Marradi e Monte Poggiolo, ma si impegnava a non «molestare né far molestar fortezze e terre della Romagna fiorentina che fino a questo presente giorno sono venuti allobbedientia di detto pontefice, ma tutto permetta e lasci governare a Pier Francesco Ridolfi o ad altro che fussi per Sua Santità». La situazione sul terreno veniva così congelata. Tra le due autorità (il Carnesecchi e il Ridolfi) doveva poi correre la massima collaborazione in materia di ordine pubblico, per quanto riguardava omicidi, casi civili e criminali.41
Si trattava di un accordo vantaggioso per entrambe le parti. Il Carnesecchi si impegnava infatti a deporre le armi, ma rimaneva padrone di Castrocaro; e comunque, spiegava lo stesso commissario nella sua lettera ai Dieci, l’accordo lasciava «la via aperta a romper tutto», poteva cioè sempre esser rinnegato. Gli imperial–papalini, confidando nella fine delle ostilità, potevano invece ritirare parte delle proprie truppe per dispiegarle altrove. In effetti, i fiorentini in Romagna non avrebbero più combattuto. Rimasto isolato nella rocca, non vedendo più arrivare rinforzi da Firenze – quei tre o quattrocento fanti che sollecitava per poter riprendere le ostilità – al Carnesecchi non restò che mantenere i patti stipulati con la tregua: avrebbe lasciato Castrocaro solo ad agosto, dopo la sconfitta.
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